Il miracolo di Camillo Sgroi

Negli anni settanta, mentre il Gad Etna doveva rinunciare alla Serie B e lo Sport Club non riusciva a raccoglierne l’eredità, una piccola società portò avanti un progetto giovanile che conquistò successi e formò un gruppo che per anni fu il fulcro del movimento cestistico catanese: la PGS Sales. Il fautore di questo “miracolo” fu Camillo Sgroi, che conquistò varie finali nazionali giovanili e svezzò dei giocatori che avrebbero scritto la storia del basket catanese negli anni a venire. Da quindici anni è fuori dall’ambiente, ma l’eco della sua opera è ancora ben presente a chi conosce profondamente la pallacanestro siciliana e l’emozione con cui racconta il suo passato sportivo emerge da ogni sua parola.

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PLAYMAKER. Camillo Sgroi, 58 anni, con la maglia del Gad Etna [La Sicilia].

Come si è avvicinato alla pallacanestro?
«Ho iniziato a giocare a basket nel 1964, in primo superiore, con il mio insegnante di educazione fisica,Gianni Di Maria. Avevo assaggiato questo sport conPenzo, nella Grifone, ma dopo un paio di mesi di allenamenti mi avevano fatto capire che non sarei potuto rimanere perché avevo 11 anni e mi consideravano troppo piccolo. Ripartii quindi con il Cus, nel gruppo di cui facevano parte Ciccio Papa, Filippo Gambadoro, Carmelo Viola e Salvo Toscano. Il nostro avversario per eccellenza era lo Sport Club del prof. Cazzetta, con Orazio Strazzeri, Claudio Sensi, Alfio Maglia, Pippo Famoso… Con loro ci contendevamo il titolo provinciale. Nel ‘67 vincemmo la fase provinciale e fummo secondi nella fase regionale, nel ‘67-68. Ho fatto anche una finale nazionale con la PGS Orsa delle Salette, nel ’68. Giovanni La Mendola mi prese in prestito per rafforzare la squadra e facemmo la finale nazionale a Cagliari. Per noi ragazzi fu fondamentale la spinta di due professori come Cazzetta e Di Maria e degli ex giocatori della Grifone. Mio padre mi portava a vedere le partite di Serie A, perché abitavamo vicino allo stadio, ed ero affascinato da questo sport. Mi ricordo la bellezza del gioco, dei movimenti e l’eleganza di Diomede Tortora, o la grinta, la forza nelle entrate e l’astuzia di Totò Trovato. E pensare che dopo qualche anno ho giocato con loro! È stata una soddisfazione grandissima.»

Praticava altri sport a scuola?
«Facevo anche il salto in altoen passant, perché un altro professore di educazione fisica notò la mia elevazione e mi allenò. Se avessi fatto il “ventrale” avrei guadagnato altri venti centimetri… Per qualche mese mi allenò anche il prof. Puglisi, però non sono andato avanti. Avrei potuto raggiungere buoni livelli.»

Quando raggiunse la prima squadra?
«Ho giocato in Promozione nel Cus, nel 1968-69. Quell’anno ha vinto il campionato il Gad Etna, che non poteva essere promosso perché la prima squadra giocava due serie sopra. E poi andai a giocare con loro, con Tortora e con l’altro mio mito Giuseppe Mineo, il figlio dell’ingegnere Mineo. Ho imparato molto da quest’ultimo; malgrado fosse un po’ sovrappeso, era astuto, il vero playmaker. Io però sono rimasto una bella promessa, non sono riuscito a mettere in pratica i suoi insegnamenti. Con il Gad ho giocato tre anni in Serie C e nel 1971-72 abbiamo vinto il campionato. Per tutto l’anno il nostro avversario fu lo Sport Club: vincemmo un derby a testa e alla fine noi andammo in Serie B. A quel punto, la Dais ci sponsorizzò, ma nelle ultime partite ci tagliarono i viveri, tanto che per partire per l’ultima trasferta a Brindisi dovemmo aspettare che Avola ci portasse i soldi… Non retrocedemmo ma l’anno successivo la squadra sparì. Peccato perché la B era al livello dell’odierna Legadue, con un girone del Nord e uno dalla Toscana in giù. Siamo stati a Firenze, Livorno, Pisa, due volte a Roma, Brindisi, Taranto… Ci siamo divertiti! La società aveva preso Ratta, che aveva uno problema al ginocchio, ma era il migliore in quel periodo, e Paolo Scarpa, un grande fisico e un grande giocatore che dava tutto in campo. Addirittura, quest’ultimo a Siena si ruppe l’osso sacro. E anche Tortora ebbe una frattura, al braccio. In quel periodo si giocava per la passione e penso che la vera pallacanestro fosse quella, mentre oggi si gioca con il pensiero a guadagnare, ad ottenere subito i risultati senza sacrificio.»

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SERIE B. Il Gad Etna che gioc in Serie B nel 1972-73. Camillo Sgroi accosciato, il primo da sinistra [La Sicilia].

Quali partite ricorda in Serie B?
«Con il Taranto in casa e a Roma contro l’IBP Scatto di Bianchini, di cui Santi Puglisi sarebbe diventato secondo. Comunque in Serie B ebbi poco spazio, perché avevo poca esperienza. Forse fu un male per me, perché in Serie C giocavo abbastanza.»

Quando ha smesso di giocare?
«Intanto dopo la Serie B con il Gad Etna ho giocato in Promozione con la PGS Sales, che seguivo anche nelle giovanili e come giocatore-allenatore. Avevo appena 22 anni… Poi ho fatto un flash di un paio di mesi in Serie B con lo Sport Club di Alberti e poi un altro flash in Serie D con il Gad Etna di Molino. Tuttavia, c’era una regola astrusa per cui chi faceva il corso per aspiranti allenatori non poteva più giocare e io ho scelto di allenare perché mi dava di più.Giocare non mi gratificava molto e intanto stavo iniziando qualcosa di simpatico ai salesiani.»

Cioè?
«Intanto va detto che il periodo alla PGS Sales mi ha condizionato e ho imparato molto. Nel 1972 avevo finito la scuola superiore, mi ero iscritto all’università e frequentavo i salesiani.Salvo Barbagallo era un mio amico, un appassionato di basket, e mi propose di fare una leva giovanile. Insieme abbiamo “ereditato” alcuni ragazzi dalla squadra di calcio: Riccardo Cantone, il cui fratello Nino è stato capitano del Catania Calcio, Salvo Sgroi dettoPiripinzi e tantissimi altri ragazzi. Il primo anno abbiamo fatto minibasket, mentre il secondo abbiamo fatto il campionato allievi e i giochi della gioventù. Durante la terza stagione, abbiamo vinto il titolo regionale e siamo andati a Roseto degli Abruzzi. Quell’anno mi aiutò anche mio fratello Luigi e facemmo una leva in cui reclutammo anche Angelo Destasio. Dopo Roseto, partecipammo ai giochi della gioventù a Palermo e Messina. L’anno successivo vincemmo le finali interzonali a Caltanissetta. Ci fece da cicerone Ciccio Anselmo, che lì tutti conoscevano e vedevano come un idolo. È un bravissimo ragazzo che però in passato si lanciava con troppa foga sia come giocatore che come allenatore. Oggi ha raggiunto una buona maturità, soprattutto con l’Hoyama e a Ribera. Ho un buon ricordo di lui. In quelle finali vincemmo su Trapani e Agrigento, che fecero reclamo perché il nostro pivot, D’Antonio, aveva una barba foltissima a 15 anni e pensavano che avesse quattro anni in più… Ma andammo noi a fare le finali nazionali a Forlì! Inoltre, quell’anno abbiamo fatto le finali PGS. Nel 1976-77 purtroppo non riuscii più ad andare avanti… facevo tutto io. Barbagallo era andato a Taormina; mio padre mi aiutava stoicamente, e saltuariamente davano una mano anche Enzo Molino e Pippo Strazzeri. Maero io il solo dirigente, allenatore, accompagnatore e segretario, il tutto senza i soldini. La federazione dava solo le credenziali, cioè viaggiavamo gratis in treno e per le finali nazionali ci davano un rimborso forfetario per il vitto. Ma per esempio a Forlì il secondo giorno già avevamo finito i soldi… Incontravamo squadre dove c’erano tanti dirigenti e con loro era un’attività impari. Ero anche un incosciente perché andare fuori con quei ragazzi era un rischio… Ma erano tutti rispettosi, assidui, non c’era bisogno di stare particolarmente attenti. Sono stato fortunato.»

Come riuscì ad ottenere quei risultati?
«Reclutavo i ragazzi mettendo semplicemente degli annunci nella bacheca e gestirli in quel periodo era più facile perché non avevano tutte le alternative di oggi: il computer, le arti marziali, la danza, le uscite di sera, il motorino… Ai salesiani arrivavano alle 3 e stavano fino alle 8, con o senza compiti da fare. A me hanno insegnato bene i fondamentali, così sono riuscito a trasferirli. Ma non è solo questo: i ragazzi facevano quello che dicevo io e, soprattutto, andavano oltre l’ora e mezza dell’allenamento, che non sarebbe stata sufficiente per conquistare il livello che hanno raggiunto Destasio e Calì. Affinavano le loro caratteristiche fisiche e complementari giocando 2vs2 e 3vs3. Un aiuto fu anche il pezzo del campo di calcio che ritagliai per farne un playground per loro.»

Quali sono stati i suoi maestri?
«Per i fondamentali, mi ha forgiato Dispensieri di Messina, che ha tenuto il primo corso di preparatore regionale a cui ho partecipato. Il gioco di squadra, invece, toccò a Toni Cappellari, che fece il corso di aspirante allenatore a Messina; lui mi dette l’indirizzo giusto di cosa era importante dare ai ragazzi. Poi continuai a seguire vari corsi in giro per l’Italia, da Dido Guerrieri a Tonino Zorzi, da Morbegno a Cortina, con mio fratello, Strazzeri, Barbagallo… Anche perché era difficile imparare qualcosa dai libri. Arnaldo Taurisano fu il primo che scrisse degli opuscoli di minibasket, poi anche la federazione mandò delle dispense. Solo in seguito hanno scritto Dan Peterson e Aza Nikolic. Ho imparato molto da quest’ultimo, anche se non l’ho mai incontrato: era il mio pane quotidiano!»

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NAZIONALI. La squadra ragazzi del PGS Sales alle finali nazionali di Roseto ’75 [C.Sgroi].

Senza soldi, come portava avanti la PGS Sales?
«Grazie a don Butera e don D’Amico, i direttore dei salesiani che si sono avvicendati e che mi davano qualcosa. Una volta abbiamo fatto una leva a pagamento. Per le finali nazionali, come detto, ci aiutava la federazione. Poi c’erano alcuni contributi dagli enti locali. E anche di tasca mia… Non avevo uno stipendio concreto, lavoravo un po’ con mio padre ma solo di mattina. Non vivevo di basket e se avessi tentato di guadagnarci avrei fatto un salto nel vuoto. Sarei potuto andare a Caltanissetta, dove mi avevano cercato dopo le finali interzonali del ‘76. Ma rimasi. Già a Roseto sembrava ci fosse la possibilità di fare un connubio con il Gad Etna, ma andò tutto a monte. L’anno dopo, a Forlì, capii che dovevo cambiare. Bisognava portare i ragazzi in una società più completa e così ci accordammo. Da settembre a dicembre 1976 fui con il Gad Etna, con cui giocai qualche partita. Poi lasciai i ragazzi a Pippo Strazzeri e Alfio Maglia, per tanti motivi. Quello principale è che dovevo dare un indirizzo alla mia vita. Avevo 25 anni, facevo concorsi, ma trovavo poco e la testa era sempre alla pallacanestro. Alla fine, sono riuscito a trovare un buon impiego e sono uscito dall’ambiente.»

Quali altri motivi la spinsero a lasciare il Gad Etna?
«Il diverso modo di concepire il basket, soprattutto nell’approccio con i ragazzi. La pallacanestro è un gioco e gioca chi è più bravo. Ma per me chiunque si deve meritare il posto sul campo, non si può essere sempre titolari perché si è più bravi grazie a madre natura. Non mi interessava vincere la partita, per me dare il massimo di se stessi perdendo perché gli avversari erano più forti era già una vittoria. È sbagliato, ma a me piaceva così. Non andavo d’accordo con Trovato e Molino perché dovevano giocare per vincere, ma il loro pensiero era funzionale agli obiettivi; lo Jägermeister non sarebbe stato il loro sponsor se non l’avessero pensata così.»

Ma rientrò.
«Nel 1977-78 Tortora mi propose di allenare la squadra femminile del CSTL, in Serie C. Inizialmente dissi di no, ma lui insisteva. Per me era il Meneghin di Catania, non potevo resistere a lungo! Lavoravo fino alle 18, ma lui mi disse che il presidente della squadra, un politico, avrebbe sistemato tutto per liberarmi il pomeriggio… Nunzio Spina mi disse che mi avrebbe fatto una mezza giornata di intervista appena sarei tornato! Alla fine, mi convinsi. Salvo Barbagallo portò due ragazze da Taormina, Antonella Merola e Bettina; nella squadra c’era già un’ottima giocatrice come Nancy Sciuto. La rosa però era più debole dell’anno precedente, in cui militava una grande giocatrice come la Filippone di Palermo. Io facevo l’assistente di Barbagallo, perché non potevo seguirle assiduamente, dopo la stanchezza di una giornata di lavoro, e non pensavo di poter dare molto.Facemmo un discreto campionato, di cui ricordo soprattutto i derby contro la Polisportiva di Alfredo Greco, ma retrocedemmo. Il campionato juniores, invece, fu simpatico. La promessa del presidente, comunque, non fu mantenuta e avrei dovuto lasciare. Ma volli rimanere per riportare la squadra in Serie C, come capo allenatore, aiutato da Salvo Piripinzi e Riccardo Cantone, soprattutto da un punto di vista psicologico.Vincemmo la Promozione senza perdere alcuna partita e si instaurò anche un rapporto simpatico con le ragazze, basato sulla stima e sul rispetto reciproco. Iniziai anche la Serie C solo per il rapporto con loro. Ma la dirigenza era latente e avrei dovuto fare tutto io e non potevo, così le prime partite andarono male, anche perché non potevamo neanche allenarci al palazzetto e dovemmo spostarci allo Spedalieri. In più, perdemmo una partita a tavolino perché sapevamo di dover giocare ad Erice; invece, dopo essere arrivati lì ci dissero che le avversarie giocavano a Palermo e arrivammo tardi! Non mi avevano neanche dato il calendario… A dicembre, per il bene delle ragazze lasciai. Ma, purtroppo, non fu per il bene di tutti.»

Riuscì a formare un gruppo giovanile?
«Sì, c’erano Licia Sciacca, Tiziana Cuccia e Nancy Sciuto, ma si faceva poco. La mia differenza di mentalità si notava anche lì. Due o tre ragazze si allenavano poco e male ma erano bravissime, specialmente una che faceva la differenza. Io andavo dritto al mio modo di pensare, non la facevo giocare e perdevamo. Ma la società non era mia, non ero io a decidere e infatti lasciai. Pippo Famoso prese la CSTL e quella ragazza tornò a giocare…»

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FORLI’. Il PGS Sales in partenza per le finali nazionali di Forl nel ’76 [C.Sgroi].

Cosa fece dopo l’esperienza al CSTL?
«Nel 1980 conobbi mia moglie e due anni dopo mi sposai. Decisi di non andare più al palazzetto per dedicarmi alla famiglia. Tuttavia, nel 1991-92 ebbi uno spiraglio. La mia attività lavorativa si era consolidata, ero responsabile amministrativo e potevo anche chiedere il pomeriggio libero. Mi ero trasferito a Santa Maria la Stella e mia figlia aveva dieci anni e giocava nella squadra di mio fratello,al San Luigi. Lì non aspettavano altro che tornassi! Fino al 1994 rimasi con loro. Iniziai con la maschile e la femminile, poi dal secondo anno solo la maschile perché mia figlia lasciò; mi occupavo del minibasket, dei ragazzi e degli allievi. Comunque, era passato del tempo enon c’era più quella mentalità della PGS Sales; sia io che i ragazzi che allenavo eravamo differenti. Facevo pallacanestro solo per completare l’attività lavorativa. Nel campionato allievi, i nostri avversari erano la Grifone e il Leonardo da Vinci, nettamente più forti di noi anche perché ci allenavamo al massimo tre volte a settimana, pochissimo. Nel 1995 accettai la proposta di De Fino e Strazzeri per allenare il Gravina, in Serie C. Rimasi con loro però solo una settimana, ad agosto. Il 2 settembre purtroppo dovetti lasciare per un grave problema di salute.»

Vorrebbe rientrare nell’ambiente?
«Molte società mi vorrebbero come consulente, ma non me la sento, il mio piacere sarebbe quello di stare in campo e dare qualcosa ai ragazzi. Quando Genovese allenava l’Hoyama, io seguivo gli allenamenti e prendevo molti appunti, perché è sempre importante essere aggiornati soprattutto seguendo allenatori di un certo livello, per aumentare il bagaglio tecnico e seguire l’evoluzione del gioco. Un giorno mio fratello mi disse che Genovese chiedeva di me, perché nel ’75-76 a Caltanissetta lui giocava con il Trapani allievi e noi li battemmo; da quel momento mi seguiva, attraverso i giornali. Quindi io ero lì per seguire lui, ma in realtà era lui a seguire me… Poi quando ci siamo incontrati mi ha proposto di aiutarlo. Anche Natale De Fino mi ha cercato spesso, ma non posso proprio.»

C’è qualche allenatore che lei ha cresciuto?
«Indirettamente ho dato dei suggerimenti ad alcuni, come Pippo Strazzeri e Riccardo Cantone. Il primo fa un lavoro molto oscuro ma è tra i miei allenatori preferiti. Il secondo mi disse che sono stato io a dargli l’incentivo quando allenavo il CSTL in Promozione, perché aveva conservato gli appunti che gli avevo dato io, anche se non era mia intenzione insegnargli il mestiere. I miei suggerimenti indiretti sono stati recepiti anche da Giuseppe Inturri che, lo scorso anno, mi disse che si stava comportando con suo figlio così come mi comportavo io con lui. All’epoca non capiva alcuni miei atteggiamenti, ma ora è proprio così che vuole crescere suo figlio.»

Quali sono questi “suggerimenti”?
«Abbinavo sempre l’aspetto tecnico a quello umano, che per me sono ugualmente importanti. Non si può giocare bene con i compagni se non si ha un rapporto di amicizia e rispetto reciproco. C’è chi pensa che non sia così, però in campo un decimo di secondo di esitazione, se passare la palla al compagno-nemico o tirare, può essere decisivo. Non è giusto neanche accanirsi contro un giocatore meno bravo che fa un errore, soprattutto quando un altro più dotato ne fa di più ma gioca perché risolve la partita. Devo ringraziaremio padre che mi ha insegnato lo sport puro, la lealtà. Ai bambini di minibasket insegnavo a dire “il compagno dell’altra squadra” e non “l’avversario”. Questi miei insegnamenti li ho trovati in bocca a persone improbabili, come un mio ex collega di lavoro che aveva fatto minibasket al Leonardo da Vinci. Si ricordava di un episodio durante una partita contro il Sales: aveva dato una gomitata ad un mio giocatore, che aveva reagito e io l’avevo fatto uscire. Doveva capire che quando si gioca bisogna accettare questi comportamenti e reagire facendo vedere che si è più forti sul campo, se no l’altra squadra continuerà a far innervosire quel giocatore, che non renderà bene. Bisogna fare buon viso a cattivo gioco e anche nella vita è un insegnamento che serve per non reagire d’istinto. Da piccolo ero timido e mi vergognavo, ma quando ho iniziato a giocare emersi nello sport e con gli altri mi sentivo più a mio agio. Lo sport deve insegnare questo. È ingiusto stare in panchina, sputando sangue agli allenamenti mentre chi è più bravo deve giocare perché si deve vincere, anche al minibasket. No, non esiste. Così come fare gli schemi per far segnare il più bravo: si vince, ma non si ottiene uno sviluppo concreto. Questa è stata la mia mentalità, che ha cozzato con le esigenze delle varie società. Loro non sbagliano, è giusto, ma non l’accetto.»

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ADDESTRAMENTO. Un gruppo di ragazzi al centro d’addestramento nel 1975-76 [C.Sgroi].

Quando si rese conto dell’ottimo lavoro che stava facendo ai salesiani?
«Solo quando vidi i frutti. Dall’interno, pensavo che facessimo le finali nazionali semplicemente perché eravamo più forti. Ho speso soldi e fatica, ma ho fatto qualcosa che mi piaceva, fin quando ne ho avuto voglia e fin quando non sono stato costretto a lasciare. Ero consapevole che altri avrebbero raccolto i frutti di questo lavoro; alcuni, come Strazzeri, me l’ha riconosciuto, altri no, ma l’avevo già messo in preventivo. Se non ci fossero stati questi allenatori, i ragazzi probabilmente si sarebbero persi, in quanto solo Calì era già passato al Gad Etna. In quel periodo non sapevo di fare un’attività che avrebbe avuto questo rimbombo. Facevo qualcosa che mi piaceva. Non pensavo di lasciare una traccia. Dopo me ne sono reso conto, quando i risultati mi sono stati riconosciuti da altri. Santi Puglisi ne parlò in un’intervista. Quand’ero al San Luigi,Giuseppe Caccamo del Gravina mi incontrò in Federazione e mi disse che sarebbe voluto essere allenato da me. Gabriella Di Piazza mi conosceva di fama prima di incontrami.Piero Musumeci ha fatto un clinic al San Luigi; mio fratello lo conosceva perché ha giocato a Palermo e me lo voleva presentare. Lui ha risposto: “Mi presenti Camillo Sgroi? La storia della pallacanestro siciliana?” Ad un clinic sentii anche Santino Coppa che mi citava per la cura dei fondamentali: aveva tratto questa cosa dai ragazzi che ho cresciuto. Dopo trent’anni sono cose belle…»

Qual è stata la più grande soddisfazione da allenatore?
«La prima partita a Roseto degli Abruzzi contro la Maxmeyer Pescara. Eravamo partiti in dodici: io, nove giocatori e due accompagnatori. Questi erano due ragazzi del ’60, Salvo Di Dio e Davide Aretino, che sono stati premiati così perché erano i più grandi del gruppo che aveva dovuto rinunciare alle finali PGS Allievi. Siamo arrivati alle 15 e poco dopo siamo scesi in campo. Il Pescara aveva l’allenatore, il vice allenatore, il medico, lo scout, l’accompagnatore…. Sento ancora addosso l’odore del sudore di Alfredo D’Antonio!Vincemmo e per i giorni seguenti fui afono. È stata una grande soddisfazione. Alla fine arrivammo sesti. L’anno dopo a Forlì avremmo potuto raggiungere lo stesso risultato. Purtroppo Riccardo Cantone all’ultimo non partì e rimasi senza playmaker, così Salvo Sgroi si dovette adattare anche se non era il suo ruolo. Ma comunque andò bene. Perdemmo di un punto contro il Brina Rieti e all’ultimo minuti con un tiro da centrocampo la finale del decimo posto contro Bolzano. Contro la Mobilgirgi, invece, perdevamo dopo il primo tempo 33-30 malgrado il nostro pivot fosse alto quanto il loro playmaker. Loro non capivano che difesa adottare! Anche l’arbitra ci fece i complimenti, anche se poi ci fecero 100 punti.»

E con la femminile?
«Con il CSTL a Fiumefreddo, in Promozione, abbiamo vinto una partita rigiocata senza pubblico perché avevano picchiato una nostra ragazza. Avremmo dovuto vincere a tavolino, ma non avevamo fatto reclamo perché volevamo vincere sul campo. Le ragazze erano determinate, avevano una forza interiore e una personalità molto più forti dei ragazzi. Avrebbero fatto qualsiasi cosa dicessi loro, perché avevano una grandissima fiducia. Un esempio è Nancy Sciuto, che in una partita non riusciva a giocare; le chiesi cose avesse e lei mi rispose che andava tutto bene. Lorena Formosa mi disse però che aveva un forte dolore al fianco. Non voleva farsi sostituire! E la sera stessa l’hanno operata d’urgenza… Un altro è legato alla mia richiesta di una chiamata nel caso ci si assentasse dagli allenamenti. Una mamma di una delle ragazze un giorno mi chiamò perché sua figlia non sarebbe venuta perché le era morto il padre. Questo rispetto mi dava la forza di continuare ad andare avanti.»

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PROMOZIONE. Il Cus Catania 1968-69, che milit in Promozione. Sgroi in piedi, il secondo da destra [60 anni di sport con la citt].

Un consiglio che darebbe alle società?
«Sicuramente, di seguire i ragazzi. Bisogna soffrire per pochi anni per trarre i frutti. Al giorno d’oggi si vuole spendere per salire subito, ma i soldi è meglio spenderli per i centri giovanili. I ragazzi non devono pagare perché così si diminuisce la possibilità di trovare il talento. Con il Gad Etna quest’aspetto non c’era: proposi di far pagare di meno, ma mi risposero di no per problemi di bilancio. Bisogna creare piùplayground e poi mantenerli. Destasio, Calì, Nicolosi e gli altri sono cresciuti giocando 3vs3 a metà campo ai salesiani. È chiaro che debbano avere anche una base, qualcuno che gli dia i giusti fondamentali. Bisogna curare il particolare, non creare dei cestisti che giochino per vincere e quindi all’inizio la squadra deve essere in secondo piano. Con il San Luigi mi veniva difficile curare questi aspetti, soprattutto metabolizzare le sconfitte. Se un giocatore tira male bisogna correggerlo, perché si può sempre migliorare. Così come gli allenatori devono seguire tutti i clinic, anche se c’è un relatore meno preparato; su cento cose che dice, una o due possono fare crescere. Non è importante sapere tutto, l’importante è che ci si impegni al 100% per mettere in pratica e trasferire ai ragazzi il poco che si sa. Gli allenatori stanno troppo attenti allo schema, non ai particolari, e così rovinano i ragazzi. In tanti ad esempio privilegiano l’allenamento del tiro da tre. E poi si perdono le partite per un tiro da sotto sbagliato… In più, per far vedere che è giusto quello che si dice si deve metterlo in pratica e saperlo fare! Con le ragazze mi allenavo apposta per questo, perché dovevo mettere in pratica ciò che gli insegnavo, così provavo che il movimento era giusto. Se si è bravi e si sa dare input giusti i ragazzi ti seguono e crescono. Se si è solo carismatici non migliorano.»

C’è qualche giocatore che aveva talento ma ha lasciato presto?
«Ho avuto nelle mie grinfie circa 500 ragazzi e ce n’è stati alcuni. All’inizio c’erano Livio Coppiardi, che era nettamente superiore agli altri, e Angelo Di Marco. Se avessero continuato sarebbero cresciuti tantissimo, anche in altezza. Eccellevano in modo meraviglioso e hanno lasciato con tanto dispiacere. Poi un altro che è tornato in seguito:Giovanni Leonardi. Feci una leva estiva, lui venne ma a settembre non volle tornare. Ricominciò nell’80, ed era seguito ogni tanto da Pippo Strazzeri. Poi c’erano Ferone, un negro per come si muoveva, e Saro Picone, che imparava subito e aveva con un’intelligenza viva: entrambi finirono calciatori.»

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GIOCHI DELLA GIOVENTU’. La squadra che partecip ai giochi della giovent a Messina nel 1974 [C. Sgroi].

Quali sono stati invece i migliori che hanno proseguito?
«In assoluto è chiaro, Angelo Destasio. Ma dal punto di vista affettivo, metto anche Riccardo Cantone, Giuseppe Nicolosi, Alfredo D’Antonio, Saro Mugavero. Quest’ultimo era ilplayboy della squadra. A Roseto, nell’ultima partita, mi disse che una ragazza voleva la sua maglietta… Noi le avevamo contate, ma gliela feci dare! PoiEnzo e Alberto Calì. Il primo ha avuto dei risultati migliori del secondo ed è stato un esempio per me. Mi ha fatto capire che se anche hai dei problemi fisici puoi avere degli ottimi risultati: aveva avuto un incidente da piccolo alla mano e non arrivava a toccare il pallone con il palmo, così tirava con tre dita, così come si dovrebbe fare. Anche lui aveva un’intelligenza cestistica perfetta, non era molto veloce, ma aveva una buona coordinazione di gambe e braccia. Ha superato anche quel problema al braccio e una volta a Gela gli ruppero anche un dente. Un ragazzo di poche parole e molti fatti. L’ho allenato solo per due anni e ho anche giocato con lui, mi divertivo a farlo andare in contropiede!Angelo Destasio, invece, aveva tutto. Da piccolino era molto istintivo. Avrebbe tratto molto giovamento da una finale nazionale dei giochi della gioventù a cui non ci qualificammo per differenza canestri. Noi avevamo scoperto che la squadra di Palermo aveva un tesserato irregolare, ma Ignazio Marcoccio ci consigliò di lasciar correre e perdemmo con loro di un solo punto. Così passò la squadra di Agrigento. Angelo era il fulcro del gruppo del ’62 con Carmelo Anastasi play, lui ala piccola e Alberto Calì pivot. Alberto Calì comunque giocava con i ’61 perché aveva iniziato con loro, mentre Destasio iniziò l’anno successivo. Anche se in quel periodo era più forte di alcuni più grandi, preferivo farlo giocare con i suoi coetanei perché gli mancavano alcuni tratti di mentalità cestistica e di fondamentali che avrebbe saltato se fosse passato con gli altri. Poi ci hanno pensato Pippo Strazzeri ed Enzo Molino a mettere in pratica quegli insegnamenti, tanto che poco tempo dopo già giocava in prima squadra. Mi ricordo anche Salvo Sgroi, che contestava sempre e così mi aiutava; su dieci cose di cui si lamentava, due erano giuste e mi facevano riflettere e crescere. Infine, Peppe Inturri, un fisico e un’intelligenza meravigliosi, ma molto lento nel mettere in pratica; è un bravissimo ragazzo e fa l’ingegnere.»

E tra gli altri?
«Diomede Tortora, Totò Trovato, Giuseppe Mineo. Ricordo anche Orazio Strazzeri, il fratello di Pippo, che andò alla Candy Brugherio, e Pippo Borzì. »

Oggi segue ancora la pallacanestro?
«Poco, per scelta mia. Ho seguito a lungo l’Hoyama e ho visto parecchie partite in Serie C, ma quest’anno ho visto solo una gara, Virauto-Massafra, per incontrare Riccardo Cantone. Non mi sono allontanato del tutto dalla pallacanestro, ma nel fine settimana ho la possibilità di fare qualcos’altro: vado al cinema e seguo più il calcio.»

Roberto Quartarone

1 commento

  1. Grande Camillo,grazie alle tue parole ho rivissuto un passato pieno di bellissimi ricordi e annedoti che a volte racconto ai miei figli.
    Mi unisco al pensiero di Inturri ( che saluto) circa gli insegnamenti a livello umano che sei riuscito a trasmetterci.
    Un caro saluto Saretto Mugavero

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