Edizione «indimenticabile, da sogno»… Eroi mancati ed eroi reali… 32 medaglie italiane… I primi passi della Pellegrini… La nazionale di basket di Recalcati…
C’era un debito da saldare col passato. Atene era la culla delle Olimpiadi, e avrebbe tanto voluto celebrare tra le sue antiche mura l’edizione del Centenario, quella del 1996, che Atlanta si era poi aggiudicata a furor di… dollari. Un debito da saldare nel rispetto di cultura e tradizione, anche a costo di chiudere un occhio (o entrambi) sulle reali capacità finanziarie e organizzative del comitato greco. Ci volle un recupero prodigioso nei lavori delle ultime settimane – e chissà se anche gli influssi degli Dei dell’Olimpo – per scongiurare il fallimento. Tutto andò bene, alla fine; tanto da far dichiarare al presidente del CIO, il belga Jacques Rogge, di avere assistito a una edizione «indimenticabile, da sogno» (forse le prime parole che fece uscire dalla bocca dopo essere stato a lungo col fiato sospeso!)
In fatto di atmosfera e di suggestione, Atene aveva proprio tutto quello che si può chiedere a uno scenario olimpico. Qui non c’era bisogno di racimolare denaro, né di creare artefatti. La Grecia Antica era lì, col suo passato e la sua arte, bastava solo coglierne le espressioni migliori. Il regista della cerimonia d’apertura non aveva che l’imbarazzo della scelta per trovare tema e iconografia: puntò sulla storia dell’umanità attraverso le figure della scultura ellenica, e la cosa riuscì a meraviglia. Per l’ambientazione di certe gare, poi, era già tutto pronto. Il ciclismo su strada ebbe come sfondo la rocca dell’Acropoli; il getto del peso si trasferì nella magico ambiente della Piana di Olimpia; la maratona – e qui proprio c’era un ritorno alle origini – ripercorse i 42 km e 195 m del mitico Filippide, con partenza da Maratona (appunto) e arrivo nello stadio Panathinaiko, là dove il barone De Coubertin, nel 1896, aveva dato il via ai Giochi dell’era moderna. Un tocco ricorrente di classicismo, inoltre, lo diede la corona di ulivo che andò a cingere il capo di ogni atleta vincitore di medaglia d’oro: fu l’immagine promozionale più significativa!
Che fosse una Olimpiade benedetta lo confermò anche il clima meteorologico. Due settimane di sole e di cielo sereno, così da scongiurare ogni possibile disagio, compreso quello che poteva capitare nello «Stadio del Nuoto», dove non si era fatto in tempo a ultimare la copertura. Sgombro di nuvole, in quel periodo, era anche il clima politico generale, o comunque non tale da dover sconvolgere gli eventi sportivi. Sicché la partecipazione fu ancora una volta da record: si presentarono tutti i 201 paesi iscritti al CIO (mai successo!), con un numero di atleti ormai stabilizzatosi oltre il limite dei 10.000. Sempre in aumento la presenza delle donne, così come le discipline agonistiche (se veniva inserita anche la lotta femminile, si capiva perché i due fattori erano spesso legati tra loro). Alla fine, più gare, più medaglie, più… corone di ulivo da immortalare!
Forse su una cosa il mito di Olimpia non riuscì a esercitare il suo benefico potere: il doping! Qui l’unica suggestione che si poteva creare era quell’apparenza di forza fisica che il singolo atleta voleva mostrare, dopo aver fatto ricorso a pratiche proibite. Per il resto emergeva solo un quadro di amara verità, dal quale lo spirito olimpico – pur essendo colpiti i responsabili – ne usciva comunque mortificato. Il dispiacere maggiore toccò proprio al pubblico di casa, nel sapere che il suo beniamino, Kostantinos Kenteris, velocista già medaglia d’oro dei 200 piani a Sidney, venne squalificato in quei giorni; per sfuggire ai controlli non si era addirittura presentato alla cerimonia d’apertura, dove tutti lo attendevano come ultimo tedoforo, adducendo per di più la scusa di un incidente motociclistico quanto mai misterioso, che finì col discreditarlo ancora di più. E le donne, anche in questo, non vollero essere da meno. Si scoprì che la forza che aveva permesso alla russa Irina Korzanenko di vincere nel getto del peso poteva derivare dall’uso di una sostanza proibita: a lei venne tolta la medaglia d’oro, alla gara tutta la poesia della sua particolare ricostruzione storica.
Per qualche eroe mancato, tanti altri ne vennero alla luce nell’incanto di Atene. Tra questi, gli italiani fecero di tutto per appropriarsi delle scenografie più coinvolgenti. Cominciò Paolo Bettini, nella prima giornata, che si fece ammirare sotto l’Acropoli, sfrecciando con la sua bici nella prova individuale su strada; arrivò con le braccia al cielo, salutando di qua e di là, ebbro di gioia. Sul podio fu il primo atleta azzurro a cantare l’inno nazionale, mano destra al cuore, e a mostrare che bello effetto faceva quella corona di ulivo in testa. Ancora più emozionante l’immagine di chiusura dei Giochi. Stefano Baldini, emiliano di famiglia numerosa e umile, corse la maratona con la grinta di chi vuole che i sacrifici di tutta una vita vengano finalmente ripagati; entrò solitario sulla pista d’arrivo dello stadio Panathinaiko, così come aveva fatto nel 1896 Spyridon Louis, il venditore d’acqua greco divenuto una figura leggendaria delle Olimpiadi. Per trovare uno spazio nella storia, Baldini non poteva sfruttare occasione migliore!
Furono la prima e l’ultima medaglia della serie per i colori azzurri: 32 in tutto (10+11+11), soltanto due in meno della precedente edizione di Sidney, quindi un altro risultato sorprendente, viste le premesse non proprio incoraggianti e le difficoltà economiche nelle quali il CONI cominciava a districarsi. Certe discipline sportive non tradivano mai, al massimo cambiavano gli interpreti; per altre, si trattò di graditi ritorni. La scherma contribuì alla sua solita maniera. Nella sciabola i colori azzurri potevano vantare una lunga tradizione, e fu nel segno di questa continuità di scuola che arrivarono i successi del giovane livornese Aldo Montano (oro nell’individuale, argento a squadra): apparteneva a una dinastia di schermidori, dal nonno Aldo al padre Mario Aldo, agli zii Mario Tullio, Tommaso e Carlo, tutti onorati nella loro carriera dal podio olimpico. Le iesine Valentina Vezzali e Giovanna Trillini erano rispettivamente alla loro terza e quarta Olimpiade: si sfidarono per l’oro nel fioretto, e Valentina ebbe la meglio. Un’altra sicura medaglia fu loro negata dal comitato organizzatore, che aveva deciso di eliminare la prova a squadre. Colpirono bene in punta di fioretto anche i maschi: argento e bronzo, rispettivamente, per Salvatore Sanzo e Andrea Cassarà, che poi ebbero – loro sì – l’opportunità di vincere l’oro nella gara a squadra.
A dare una continuità ai suoi successi olimpici ci provò anche il ginnasta Yury Chechi, nonostante i suoi 35 anni e la cicatrice lasciata dall’ultima rottura tendinea della sua infelice collezione, che l’aveva costretto a disertare Sidney dopo l’oro di Atlanta. Una grande soddisfazione se la prese già nella cerimonia d’apertura, dove fece da portabandiera della rappresentativa azzurra; poi riuscì a conquistare il bronzo negli anelli, e fu così grande la sua gioia da sorvolare sul giudizio scandaloso espresso dalla giuria in favore di Tampakos, l’atleta di casa, immeritevole vincitore dell’oro. Meritatissimo, invece, e al di sopra di qualsiasi interpretazione di parte, il primo posto alla sbarra di Igor Cassina, con un esercizio praticamente perfetto (9,812 il punteggio) e la perla di un movimento acrobatico di alto contenuto tecnico che la Federazione Internazionale avrebbe ufficialmente premiato con l’eponimo «movimento Cassina».
Su certe medaglie lo sport azzurro poteva scommettere a occhi chiusi. Quella di Antonio Rossi, ad esempio, che in coppia col solito Bonomi si prese l’argento nel K2 1000; o quella di Josefa Idem, anche lei sul secondo gradino del podio, nel K1 500: già allora si parlava di una atleta «eterna» (40 anni, aveva da poco ripreso a remare dopo la seconda maternità), ma la sua epopea olimpica non sarebbe finita là. E nessuna voglia di smettere aveva anche la surfista Alessandra Sensini: stavolta il bronzo per lei. Si andò a colpo sicuro anche nel canottaggio (tre medaglie) e nelle discipline in cui c’erano da colpire dei bersagli: il tiro a volo, il tiro a segno e il tiro con l’arco, che si disputò all’interno del già citato stadio Panathinaiko, e l’oro del giovanissimo Galiazzo ne risultò ancora più esaltato.
Dopo l’exploit di Sidney, si attendeva una conferma dal nuoto azzurro. I protagonisti di allora vennero un po’ meno (solo un bronzo nella staffetta 4×200 stile libero, con Brembilla, Rosolino, Cercato, Magnini). In compenso, una schiva ragazzina veneziana, Federica Pellegrini, sorprese tutti per la sua potenza, conquistando il record italiano nei 200 stile libero in semifinale, mentre in finale si aggiudicò l’argento. Dopo ben 32 anni dalle prodezze dell’altrettanto schiva (ma più minuta) Novella Calligaris, una nuotatrice italiana era in grado di salire sul podio; impresa che, a livello nazionale, si portava dietro anche il primato dell’età più giovane: appena 16 anni e 12 giorni. Si ebbe netta la sensazione che quel giorno, ad Atene, fosse davvero nata una stella!
Graditi ritorni furono quelli dell’atletica. A parte Stefano Baldini, che bissava nella maratona il successo di Gelindo Bordin a Seul (ma con ben altra cornice, come già detto), la marcia rinverdì gli allori del passato grazie a Ivano Brugnetti, che tagliò per primo il traguardo della 20 km, sulla pista dello «Stadio Olimpico». Il suo nome entrava in una galleria prestigiosa, in compagnia di Pino Dordoni, Abdon Pamich e Maurizio Damilano. Ebbe invece il merito della novità la medaglia del siracusano Giuseppe Gibilisco, nonostante fosse di metallo meno pregiato (bronzo): nel salto con l’asta nessuno atleta italiano aveva fatto meglio di lui. Tra riconferme e sorprese anche le medaglie negli sport di squadra. Inedito l’oro nella pallanuoto femminile, che portava la firma di molte giocatrici della pluriscudettata Orizzonte Catania, con le catanesi (di nascita) Giusy Malato, Cinzia Ragusa e Maddalena Musumeci. Si riuscì finalmente a riconquistare una medaglia nel calcio (lontanissimo l’oro di Berlino nel ’36), mentre saliva di un gradino sul podio rispetto all’ultima edizione (dal terzo al secondo) la pallavolo maschile. C’era anche il basket maschile e si fece sentire, con uno storico e insperato argento.
L’unico precedente di una medaglia olimpica al collo per i cestisti azzurri risaliva a Mosca ventiquattro anni prima: argento anche quella volta, quando gran parte del Mondo Occidentale (USA in testa) aveva boicottato l’evento. Per la Nazionale si trattò del coronamento di un lento – a volte anche stentato ma comunque progressivo – cammino di ripresa. Il quinto posto alle Olimpiadi Sidney 2000, dopo l’oro europeo di Parigi, l’aveva fatta rientrare nella aristocrazia del basket mondiale. E lì rimase anche quando la squadra dovette affrontare l’ennesimo cambio in panchina. Al posto di Boscia Tanjevic – che a un certo punto aveva esaurito la sua carica di allenatore innovativo e grintoso, venendo eliminato agli Europei del 2001 – venne chiamato Carlo Recalcati, vale a dire il meglio che in quel momento offrisse il mercato italiano. Il suo esordio agli Europei in Svezia, nell’83, fu bagnato da un bel terzo posto, che valse subito la qualificazione olimpica ad Atene.
Recalcati aveva dato fiducia a gran parte dei giocatori ereditati dalla gestione precedente: Basile, Galanda, Chiacig, Mian, De Pol, Marconato; anche Nikola Radulovic (un’ala grande di 2 e 07, croato naturalizzato) e Alex Righetti (ala piccola di 1 e 98, cresciuto a Rimini), due giocatori che Tanjevic aveva fatto esordire poco prima di lasciare la squadra. Usciti di scena Myers, Fucka e Andrea Meneghin, erano stati inseriti in quel blocco il play-guardia Massimo Bulleri (tiro e buon controllo di palla) e l’ala Matteo Soragna (giocatore versatile e concreto). Predicava impegno e umiltà da parte di tutti, coach Recalcati, che in Nazionale aveva voluto infondere la filosofia di una squadra operaia, pronta a lottare su ogni pallone (anche quelli «sporchi» da raccogliere per terra) e a mettere da parte lo spettacolo se non serviva a un reale vantaggio; non c’erano giocatori in prima linea, in campo ruotavano tutti con uguale intensità, facendo così mancare anche dei punti di riferimento agli avversari. Con questa impostazione di gioco gli azzurri erano stati addirittura in grado, in un torneo pre-olimpico amichevole a Colonia, di dare una dura lezione (95 a 78) alla Nazionale USA. Non fu una illusione. Da quella vittoria, sicuramente, l’Italia del basket trasse fiducia nei propri mezzi in vista di Atene…
Nunzio Spina
[24 – segue Sydney 2000, continua con la seconda puntata di Atene 2004]