Manca l’Italia maschile… Le ragazze della capitana Catarina Pollini… L’Italia rimane negli standard delle medaglie… Il dream team italiano: la pallanuoto…
Mai come in quella occasione l’importante sarebbe stato… partecipare! Ritrovarsi là, finalisti del torneo olimpico di basket maschile, dominato e magnificato dal «Dream Team» statunitense, voleva già dire essere protagonisti di un evento straordinario. Bastava esserci, avversari diretti o no, malcapitati sotto le grinfie degli invincibili prof NBA oppure favoriti da un calendario che evitava di incrociare il loro cammino (salvo poi rammaricarsi di non avere avuto l’onore di affrontarli, comunque fossero andate le cose.). A Barcellona gli assenti del basket maschile ebbero proprio torto. Tra questi l’Italia. Era già il secondo appuntamento olimpico al quale la Nazionale azzurra non si presentava. Per chi aveva avuto il privilegio di essere stato presente – assieme ai maestri USA – al debutto di Berlino ’36, e di essere poi stata finalista per quasi tutte le edizioni succedutesi nell’arco di un cinquantennio, questa duplice rinuncia cominciò a destare qualche preoccupazione.
Di vera crisi, onestamente, non si poteva parlare. Ai Campionati Europei del ’91, disputatisi a Roma, gli azzurri erano tornati sul podio dopo sei anni, conquistando un sorprendente secondo posto alle spalle della Jugoslavia (l’ultima Jugoslavia unita). Si trattava del miglior risultato da quando Sandro Gamba era tornato in panchina, dopo la parentesi-Bianchini, e sembrava proprio che fosse quello il trampolino di lancio per rientrare sulla scena olimpica. Riva, Brunamonti, Magnifico, Costa, Premier costituivano ancora l’ossatura della squadra, nella quale si era ormai bene inserito il duo della Juve Caserta (vincitrice dello scudetto in quell’anno) Sandro Dell’Agnello-Nando Gentile (esterno tiratore il primo, play con buona predisposizione al tiro dalla distanza il secondo), il centro di 2 e 08 Stefano Rusconi (cresciuto a Varese, poi alla Benetton Treviso con cui avrebbe vinto lo scudetto del ’92) e Riccardo Pittis (ala longilinea di Milano, anch’egli poi approdato a Treviso per continuare la sua lunghissima carriera).
Era stato, a dire il vero, un Europeo un po’ in sordina, in cui l’assenza dell’URSS (compresi i suoi stati indipendenti) e della Germania (ancora stordita dalla caduta del Muro di Berlino) avevano senz’altro favorito l’Italia, più del fattore casalingo. Convincente, tuttavia, la serie di vittorie degli azzurri, contro Grecia, Francia e Cecoslovacchia nel girone eliminatorio, e poi in semifinale con la Spagna, che poi dal «Dream Team» avrebbe avuto il piacere (si fa per dire) di farsi strapazzare di 40 punti all’Olimpiade di Barcellona. L’unica sconfitta arrivò solo nella finale per l’oro, contro la Jugoslavia di Toni Kucoc, MVP di quella edizione.
L’ottimo risultato di Roma, però, servì solo al morale. Al torneo pre-olimpico di Saragozza si ripartiva da zero, e fu praticamente impossibile togliere spazio alle due squadre della ex URSS (Lituania e CSI), oltre che alla nuova Germania. L’Italia non ebbe un approccio felice, e finì col naufragare. Fu a quel punto che Sandro Gamba lasciò nuovamente la Nazionale. Stavolta, si trattò di un addio!
A Barcellona, per fortuna, ci furono le ragazze a salvare il basket azzurro da un forfait totale, come era successo a Seul quattro anni prima. Sulla panchina della Nazionale femminile, dopo la prima apparizione olimpica di Mosca ’80, si erano avvicendati nell’arco di un decennio Vittorio Tracuzzi e Aldo Corno, con risultati dignitosi a livello europeo, ma nulla di più. Dal ’91 il testimone era passato al tecnico Franco Novarina, che alla sua prima occasione riuscì a pilotare la squadra verso una Olimpiade, e già questo era da considerare un bel traguardo. L’ulteriore impresa, quella di riuscire a evitare l’ultimo posizione tra le otto finaliste, fu mancata di un soffio: dopo due tempi supplementari, contro la Spagna, ci si vide sfuggire di mano una vittoria che avrebbe potuto far maturare un sorprendente quinto posto. La fortuna si voltò dall’altro lato, e non ci fu maniera di guardarla in faccia neanche nella partita conclusiva, persa di soli tre punti (86 a 83) con il Brasile. Tutte sconfitte, alla fine (ve ne erano già state tre nel girone eliminatorio), ma sempre giocando alla pari con qualsiasi avversario. C’erano buoni motivi per essere soddisfatti.
Capitana e trascinatrice della squadra era Catarina Pollini, talento vicentino, che aveva esordito nientemeno che all’età di 13 anni nella squadra della sua città, vincendo ben sette scudetti di fila e cinque volte la coppa dei Campioni tra l’82 e l’88. Aveva ancora 22 anni quando decise di emigrare negli States, militando per un anno nel campionato universitario con la maglia dei Texas Longhorns, prima italiana nella storia. Cestista poliedrica, con i suoi 196 cm di altezza e un fisico molto agile si adattava sia al ruolo di ala che a quello di centro. Lanciata in Nazionale da Tracuzzi agli Europei dell’83, da allora la sua presenza era stata costante, pedina praticamente insostituibile. Tornata in Italia, era passata a difendere i colori di Cesena, dove aveva anche qui conquistato uno scudetto.
Altro punto di forza era Mara Fullin, ala tiratrice, curriculum sovrapponibile a quello di Pollini, con lo stesso numero di titoli vinti a Vicenza. Prima dell’Olimpiade era passata alla Comense, dove aveva appena iniziato un’altra lunga serie di trionfi: otto scudetti consecutivi e due coppe dei Campioni. Anche lei era stata lanciata in Nazionale da Tracuzzi, così come il pivot Giuseppina Tufano, la duemetri di Somma Vesuviana, che dopo le esperienze di Roma e Viterbo era passata alla corte (e alle strigliate) di Santino Coppa con la Trogylos Priolo, artefice dello scudetto dell’89 e della Coppa dei Campioni vinta a Cesena l’anno dopo, nella storica finale contro il CSKA di Mosca. Tra le nuove scoperte di Franco Novarina, invece, figurava la romana Elena Paparazzo, allora diciannovenne, destinata a vestire la maglia azzurra ancora per dodici anni.
C’erano gli Stati Uniti, in quel torneo femminile di basket, con qualche reduce dell’oro di Los Angeles (Edwuards) e di Seul (Cooper, Weatherspoon), ma non era un «Dream Team», e stavolta dovettero accontentarsi del bronzo. Sul gradino più alto del podio andarono le cestiste della Squadra Unificata, che sembrava proprio avere «unificato» il meglio dell’ex URSS, tra cui la russa Elena Baranova (per lei un futuro nella Women NBA, oltre che una apparizione in Italia a Chieti) e l’uzbeca Elena Tornikidou. Dopo essersi passati lo sfizio di battere direttamente le rivali statunitense in semifinale, le rappresentanti della CSI faticarono non poco in finale per avere ragione della Cina, formazione in continua crescita che raggiungeva con l’argento il miglior risultato della sua storia.
Quella del basket femminile fu una delle tante medaglie che valsero, a Barcellona, il primato della Comunità degli Stati Indipendenti: come dire, l’ex URSS restava ancora sul tetto olimpico, nonostante non ci fossero più i paesi baltici (Lituania, Estonia e Lettonia) a dare il loro apporto. Non c’era neanche la Georgia, in verità, che sarebbe entrata in quella rappresentativa soltanto nel ’93. Ma Russia e Ucraina sì; e con loro, Bielorussia e Moldavia, Armenia e Azerbaigian, Kazakistan e Tagikistan, Kirghizistan e Turkmenistan. Per l’ultima volta insieme in una Olimpiade, sotto la bandiera comune a cinque cerchi, che fu sollevata ben 112 volte nelle cerimonie di premiazione, quattro volte in più rispetto a quella degli Stati Uniti. Più netto il divario nelle sole medaglie d’oro: 45 per la CSI (con le note dell’anonimo inno olimpico a risuonare in maniera quasi ossessionante), 37 per gli USA, soltanto 33 per la Germania, che nell’unire le sue forse tra Est e Ovest restò – paradossalmente – un po’ smarrita, e ci mise del tempo prima di ritrovare la strada dei successi che le competevano. Alle spalle del solito trio di testa, avanzava decisa la Cina, impegnata a costruire diligentemente – un mattone sopra l’altro – il suo futuro di grandi conquiste. La rappresentativa orientale si piazzava al quarto posto (come a Los Angeles ’84, ma allora il boicottaggio era stato pesante), scavalcando la rientrante Cuba, mentre il sesto posto fu per la Spagna, che mai prima di allora aveva conquistato così tante medaglie d’oro, 13 per l’esattezza: il classico miracolo della squadra di casa che ormai non stupiva più nessuno.
L’Italia restò più o meno negli standard degli ultimi tempi: dodicesimo posto, con 6 medaglie d’oro, 5 d’argento e 8 di bronzo. Motivi di soddisfazione, alla fine, se ne trovavano sempre. Come i successi nella scherma, dove Giovanna Trillini lanciò alla ribalta la scuola marchigiana di Jesi, che tanti allori avrebbe portato fino ai nostri giorni. Oro nel fioretto individuale, e poi in quello a squadre, assieme a Vaccaroni, Bianchedi, Bortolozzi e Zalaffi. Felice anche il ciclismo: dei due ori, uno fu di Fabio Casartelli, ventiduenne comasco dal sorriso genuino e dai muscoli di ferro, che vinse a sorpresa la prova su strada, alzando le braccia al cielo. Fu la nascita di un campione dalla vita brevissima, stroncata tre anni dopo da una tragica caduta sulle infide strade dei Pirenei al Tour de France. La voce di Adriano De Zan, il mai dimenticato telecronista del ciclismo, accompagnò con grande partecipazione i due eventi: dalle grida di gioia lanciate sulla linea del traguardo a Barcellona al pianto nell’annunciare la morte di colui che considerava come un figlio…
Si fermò invece in gola (sempre più rauca la sua) l’urlo di trionfo ormai familiare di Giampiero Galeazzi, che vide svanire negli ultimi metri l’ennesima impresa dei fratelli Giuseppe e Carmine Abbagnale. Erano partiti sparati nella prova di canottaggio del «due con», il loro vantaggio sembrava incolmabile a metà gara; poi braccia e gamba dei «fratelloni d’Italia» diventarono di colpo dure come pietre, e a tagliare per primi il traguardo furono altri due fratelli, i britannici Greg e Jonny Searle; a nulla erano valse le grida di incitamento del minuscolo timoniere Peppiniello Di Capua, oltre a quelle – chissà se le sentirono anche in acqua – del Giampiero cronista.
Tra gli sport di squadra, anche l’Italia ebbe il suo «Dream Team», etichetta che da allora finì col diventare quasi una moda. Si trattava della squadra di pallanuoto maschile, che riuscì a sconfiggere i favoriti padroni di casa della Spagna in una appassionante finale: 9 a 8 dopo tre tempi supplementari. Era il terzo oro del «Settebello», dopo quelli memorabili di Londra ’48 e di Roma ’60. Tra gli eroi di Barcellona, ricordiamo il siracusano Sandro Campagna, che della Nazionale sarebbe diventato allenatore per tanti anni, e Marco D’Altrui, entrato nel guinness dei primati olimpici per avere replicato, a 32 anni di distanza, l’oro di papà Giuseppe, capitano della squadra che aveva trionfato a Roma.
Eroi azzurri ed eroi mondiali. Uno di questi fu il ginnasta bielorusso Vitaly Scherbo, che portò sei medaglie d’oro alla CSI, di cui quattro conquistate in una sola giornata, prodezza mai verificatasi in tutta la storia dei Giochi. Solo un ginnasta completo come lui poteva vincere tanto. Atleta straordinario, che sembrava quasi dotato di virtù sovrannaturali; eppure un grave incidente stradale (per il quale lui restò ferito e la moglie entrò in coma) gli fece conoscere – in un colpo solo – le debolezze della vita, facendolo addirittura cadere nell’alcolismo. Avrebbe fatto in tempo a riprendersi, per conquistare ancora medaglie nella Olimpiade di quattro anni dopo. Uno dei tanti drammi olimpici a lieto fine.
Portò medaglie pregiate alla CSI (due ori e due argenti) anche il nuotatore Alexander Popov che da allora avrebbe dominato la velocità, allungando i suoi successi per altre due edizioni olimpiche. E continuò la sua serie di vittorie lo statunitense Carl Lewis: gli spietati Trials americani lo avevano tolto dalle gare individuali di velocità (100 e 200), ma riuscì ancora una volta a conquistare l’oro nel salto in lungo (per la terza Olimpiade consecutiva) e nella staffetta 4×100, con la solita sua ultima irresistibile frazione e col solito nuovo record mondiale.
Si può essere eroi in una Olimpiade pur senza stravincere. Due esempi a Barcellona, entrambi nell’atletica leggera. L’algerina Hassiba Boulmerka, campionessa del mondo in carica nei 1500, era diventata il simbolo delle donne musulmane e dei loro diritti, e per questo aveva ricevuto pesanti minacce dall’integralismo islamico: lei rispose imperterrita, aggiudicandosi l’oro… Nella gara dei 10000 la sudafricana bianca Elana Meyer duellò nel finale con la nera etiope Derartu Tulu. Quest’ultima, dopo avere prodotto lo scatto decisivo verso il traguardo, attese l’avversaria per compiere insieme a lei – mano nella mano – il giro di pista a favore del pubblico: un gesto di approvazione per la caduta dell’apartheid e di speranza per l’Africa del futuro!
Nunzio Spina
[19 – segue la prima puntata di Barcellona 1992, continua con Atlanta 1996]