Addio Urss, ecco la Csi… 9000 atleti… I professionisti statunitensi nel torneo di basket… Marcia in linea con le ovvie previsioni… Magic Johnson, Bird e Jordan…
Il mondo era cambiato. Politicamente e geograficamente cambiato. Se mai qualcuno non se ne fosse ancora accorto, ci pensarono le Olimpiadi di Barcellona a rivelarlo chiaramente, mostrandone a tutti il nuovo volto. La caduta del Muro di Berlino – trasferimento scenico della più estesa e sconvolgente caduta dei regimi comunisti – aveva ridisegnato la mappa dell’Europa nel giro di un paio d’anni. Le due Germanie erano tornate a essere una sola, e così si presentarono ai Giochi. L’URSS, invece, aveva iniziato il suo inesorabile processo di smembramento: già staccatesi le repubbliche baltiche (Lituania, Estonia e Lettonia), le altre erano ormai sul procinto di farlo, e per una volta ancora – l’ultima – si tennero insieme alla Russia, legate da una sigla quanto mai effimera (CSI, Comunità degli Stati Indipendenti). A pezzi anche la Jugoslavia, con Slovenia, Croazia e Bosnia pronte a sfilare nella cerimonia di inaugurazione, fiere della loro riconquistata autonomia; mentre alla Serbia, soggetta a sanzioni ONU, venne solo concesso di far partecipare i propri atleti sotto la bandiera del CIO. Così era sempre stato: le Olimpiadi dovevano necessariamente specchiarsi negli avvenimenti politici, cercando – se possibile – di rifletterne il profilo migliore.
La Spagna ospitava per la prima volta i Giochi. Anch’essa aveva vissuto, col recente passaggio alla democrazia, l’esperienza di un radicale cambiamento, e l’occasione si rivelò quanto mai favorevole per scatenare l’entusiasmo del suo popolo, caldo e appassionato per natura. Se l’Olimpiade di Seul era stata celebrata come quella del ritorno alla universalità, dopo i pesanti boicottaggi delle edizioni precedenti, questa riuscì a ottenere ancora di più in fatto di partecipazione. Il numero degli atleti oltrepassò il limite dei 9000, quello delle rappresentative salì a 172. Non era solo il risultato della frantumazione di alcuni stati (a proposito di URSS e Jugoslavia), ma anche del gradito ritorno di paesi importanti: come Cuba ed Etiopia, che a Seul avevano dato forfait, come il Sudafrica, assente dal 1960, che si era lasciato alle spalle il vergognoso passato dell’apartheid e aveva aperto la strada verso il futuro di Nelson Mandela. Quando un paese cercava di redimersi, il mondo dello sport era il primo ad allargare le braccia per accoglierlo.
Anche il programma agonistico si sottoponeva a continui mutamenti, nel suo tentativo di stare al passo con i tempi. Entravano di continuo in scena nuove discipline (stavolta judo femminile, badminton e baseball), ma soprattutto si dava sempre più spazio al professionismo, perché era là che si trovavano gli atleti migliori, e perché il dilettantismo era ormai – il più delle volte – solo una maniera per ingannare se stessi. Sotto questo aspetto, il basket aveva ancora un suo muro da far cadere, quello che negava da sempre la partecipazione ai prof statunitensi. Ci volle una modifica al regolamento FIBA per togliere il veto; gli USA erano reduci dal deludente bronzo di Seul, e avevano ormai capito che, per riconfermare il loro primato, le selezioni di college non bastavano più. Una necessità che si trasformò in virtù, anzi in un sogno: quello di vedere all’opera una squadra di campioni della NBA misurarsi in una competizione internazionale. Nasceva così il «Dream Team», la «squadra da sogno»: entrò nella storia prima ancora di entrare in campo!
Così tanti riflettori non si erano mai accesi per un torneo olimpico di basket. E a malincuore Barcellona si vide rubare la scena dalla vicina città di Badalona, incaricata di ospitare l’evento nel suo Palau Municipal d’Esports, arena della gloriosa squadra locale della Joventut. L’elenco delle dodici finaliste nel settore maschile risentiva subito dei già citati cambiamenti geo-politici: non più la Jugoslavia ma una parte di essa, la Croazia; non più l’URSS, ma la Lituania (in quel periodo forse la sua ex regione più florida dal punto di vista cestistico), oltre a una selezione della Comunità degli Stati Indipendenti (Russia e Ucraina, tra le altre). Per gli USA, che avevano deciso di calare gli assi, quella concorrenza ridimensionata tolse sicuramente un po’ di gusto ai loro convinti propositi di sbaragliare il campo.
C’era proprio il meglio del meglio nella formazione statunitense. Al capo allenatore Chuck Daly (professionista anche lui) fu concessa la facoltà di pescare a piene mani dal campionato NBA, con una sola clausola da rispettare, quella di convocare un esponente dei colleges universitari, così a scopo simbolico: si chiamava Chris Laettner, fece un po’ la figura del pesce fuor d’acqua (pur non essendo uno sprovveduto), e proprio per questo finì anche lui per diventare famoso. Gli altri undici componenti della squadra avevano tutti preso parte, da titolari, alla più recente sfida tra Eastern e Western Conference.
Allora bastava citare i nomi. Oggi, forse, vale la pena ricordare che Earvin «Magic» Johnson, dei Los Angeles Lakers, era uno dei giocatori che aveva in un certo senso rivoluzionato il basket, dimostrando che si poteva essere un playmaker con grandi doti di palleggio e di passaggio pur essendo alti 2 metri e 06; che Larry Bird, dei Boston Celtics, con gli stessi centimetri di «Magic» (di cui era grande rivale), si era affermato come un’ala praticamente infallibile nel tiro da fuori, grazie a un repertorio che sembrava non conoscere limiti. Il capitano era Michael Jordan, già conosciuto da «dilettante» alla Olimpiade di Los Angeles dell’84, diventato poi un uomo-franchigia dei Chicago Bulls; con lui altri due reduci da quei Giochi, Chris Mullin (Golden State Warriors) e Pat Ewing (New York Kniks).
Fin qui forse i nomi più propagandati, ma gli altri non erano da meno. Scottie Pippen (dei Chicago anche lui) era considerato uno dei migliori difensori di sempre; David Robinson, dei San Antonio Spurs, era l’unico superstite di Seul ’88 che meritò la riconferma con i suoi 2,14 di altezza; Charles Barkley, dei Phoenix Suns, risultò il miglior marcatore con una media di 18 punti a partita, mentre il play John Stockton, degli Utah Jazz, fu il miglior assistman. E poi (casualmente menzionati per ultimi), Karl Malone (Utah) 2 e 06, uno dei migliori cestisti di sempre nel ruolo di ala grande, soprannominato «the mailman», cioè il postino (per il fatto che portava sempre a destinazione il lavoro assegnato), e la guardia di 2 metri Clyde Drexler (Portland), particolarmente abile nelle entrate a canestro. Sarebbero tutti entrati nella galleria mondiale più prestigiosa, la Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, sia come singoli giocatori che come squadra (riconoscimento, quest’ultimo, che fino allora era stato assegnato solo alla Nazionale olimpica USA di Roma ’60).
Il ruolino di marcia del «Dream Team» fu esattamente in linea con le ovvie previsioni della vigilia. Nel girone eliminatorio clemenza per nessuno: i poveretti dell’Angola fecero le spese dell’esordio, beccandosi un terrificante 116 a 48; ma gli altri non se la cavarono tanto meglio: 103 a 70 alla Croazia, 111 a 68 alla Germania, 127 a 83 al Brasile, 122 a 81 alla Spagna. Chuck Daly, fino a quel momento, non aveva sentito la necessità – se non quella di mostrarsi superiore agli avversari – di chiamare un solo time-out! Come una bestia feroce che più azzanna e più si incattivisce, gli USA furono inesorabili nei successivi incontri, anche perché il pubblico del Palau Municipal, ma soprattutto quello televisivo del mondo intero, non chiedeva altro. Ai quarti di finale sotto il Portorico, che tante volte aveva creato problemi: 115 a 77, e avanti un altro. Ecco la Lituania in semifinale; c’era ancora il trio Sabonis-Kurtinaitis-Marciulonis (i primi due ancora in Europa, il terzo già emigrato negli USA), ma su di loro si abbatté la furia statunitense: 127 a 76. Nella finale per l’oro capitò nuovamente la Croazia guidata da Petar Skansi (olimpionico a Città del Messico), che si portava dietro i pezzi migliori della formazione della ex Jugoslavia: Drazen Petrovic, Toni Kucoc, Dino Radja. Niente da fare. Tutto quello che riuscì a ottenere fu di rimediare il passivo meno pesante (32 punti) inflitto dagli USA in quel torneo, e di ridurre (di un solo punto!) lo scarto già subito nel girone eliminatorio: risultato finale 117 a 85. E dire che la partita si era inizialmente messa bene per i croati, che a un certo punto si erano addirittura portati in vantaggio con una schiacciata del «2 e 15» Franjo Arapovic: non l’avesse mai fatto!
Oro, scontatissimo, al «Dream Team», costruito appositamente per quell’obiettivo; argento alla Croazia, che più di tanto al suo debutto come nazione indipendente non poteva chiedere. La finale per il bronzo vide la singolare sfida tra Lituania e Comunità degli Stati Indipendenti (che veniva identificata pure col titolo EUN, Équipe Unifiée): vecchi compagni di squadra che si ritrovarono come avversari. Dalla parte lituana, oltre al trio di cui si è detto, anche Valdemaras Chomicius, esponente di una scuola di formidabili tiratori; dall’altra, gli ucrainiAlexander Belostenny e Alexander «Sasha» Volkov (un 2 e 08 che la stagione dopo avrebbe vestito la maglia della Viola Reggio Calabria), il kazako Valery Tikhonenko, pivot di 2 e 07. Tutti militavano nella formazione vincitrice dell’oro a Seul. Si imposero alla fine i lituani (82 a 78), restituendo – nella partita che contava di più – la sconfitta subita dai «cugini» nel girone eliminatorio.
Confermò il quinto posto il Brasile di Oscar Schmidt, battendo nel match conclusivo l’Australia, che era stata quarta a Seul. Il settimo posto andò alla nuova Germania unita, a spese del Portorico. Ci si aspettava di più dalla Spagna, la formazione che aveva in San Epifanio il suo giocatore più rappresentativo e che sembrava in forte crescita dopo il bronzo europeo dell’anno prima: per lei solo un nono posto superando di soli 3 punti l’Angola, dalla quale era stata addirittura battuta di 20 punti nel girone eliminatorio. Le ultime due posizioni per Venezuela e Cina.
Lo strapotere degli Stati Uniti non aveva assolutamente scalfito l’interesse del torneo, anzi! Era praticamente una squadra invincibile, che sembrava quasi dotata di poteri sovrumani; eppure, riuscì comunque a scatenare l’entusiasmo del pubblico e a guadagnarsi la simpatia di tutti, anche se l’atteggiamento in campo poteva sembrare di sufficienza. Nessuno mai dalla tribuna tifò contro; gli stessi avversari, che potevano sentirsi in qualche modo umiliati, non ebbero la benché minima reazione di impazienza: ci fu chi, addirittura, si portò la macchina fotografica in campo per riprendere da vicino i propri idoli. Vinse il basket, insomma, la migliore espressione mondiale del basket: davanti a quello tutti si inchinarono.
I giocatori statunitensi finirono col farsi travolgere dal fascino olimpico. Per due di loro, i Giochi di Barcellona ebbero un significato particolare. Magic Johnson aveva scoperto l’anno precedente di essere sieropositivo e quella voleva essere la sfida più importante della sua carriera; la vinse, e riuscì anche a tornare, da star, nel firmamento della NBA. Si trattò di un vero addio, invece, quello di Larry Bird, che a 36 anni dimostrò di essere ancora nel pieno della sua capacità tecniche; l’ultima istantanea lo colse con la mano sul cuore – visibilmente commosso – mentre ascoltava sul podio le note dell’inno nazionale. Quando si vide Michel Jordan, proprio in quel momento magico della premiazione, presentarsi avvolto da una grande bandiera a stelle e strisce, si pensò che davvero tutti erano stati stregati: dietro quell’apparente eccesso di nazionalismo, in realtà, pare fosse nascosta una esigenza di sponsor, perché lui, come altri giocatori, aveva un contratto personale con la Nike, mentre la divisa ufficiale – abilmente coperta da quella bandiera – portava il marchio Reebok. Era stata l’Olimpiade a volere i professionisti: per quella volta dovette far finta di non vedere…
Nunzio Spina
[18 – segue Seul 1988, continua con la seconda puntata Barcellona 1992]