La ripicca del blocco comunista… Carl Lewis… Il giovane Michael Jordan e la funambolica Lynette Woodard… Quinti gli Azzurri… Angelo Arcidiacono e la sciabola d’oro…
Tutto come – malauguratamente – previsto. Il percorso che portava dal boicottaggio di Mosca ’80 a quello di Los Angeles ’84 aveva già una sua traccia; lo si era coperto con l’indifferenza, facendo finta di nulla per anni, finché in prossimità dell’inizio dei Giochi venne tolto il velo: i sovietici resero nota la loro rinuncia, con autorevole invito di adeguamento rivolto ai paesi del «blocco comunista». Dietro la motivazione ufficiale («poche garanzie nel sistema di sicurezza»), c’era quell’atto di ripicca che tutto il mondo si attendeva. Si invertirono i ruoli, il risultato fu – più o meno – lo stesso: un’altra Olimpiade incompleta, violata nel suo principio di universalità. Ci si era ormai fatta l’abitudine. Lo sport scrollava le spalle e andava avanti: protagonisti e imprese ne trovava sempre per strada, e anche stavolta riuscì a mettere in archivio tante belle storie da raccontare.
Los Angeles, come già Parigi e Londra, ospitava per la seconda volta l’Olimpiade, che era approdata in California già nel 1932. Quella edizione aveva segnato un grande progresso, distinguendosi soprattutto per il primo villaggio olimpico e per l’imponenza dello stadio principale, il Memorial Coliseum, al quale bastò dare una riverniciata per farne nuovamente – a più di mezzo secolo di distanza – un teatro di adeguata capienza e di grande suggestione scenica. Nella cerimonia inaugurale, ai lati del bianco colonnato in stile neoclassico, le ampie tribune disegnarono le bandiere di tutti i paesi partecipanti, facendo sollevare a ognuno degli oltre 90.000 spettatori un semplice foglio di carta colorato. Uno spettacolo! Peccato che già su quell’immagine di copertina pesassero le assenze. Mancavano all’appello diciannove nazioni, meno che a Mosca, ma tra queste l’Unione Sovietica era riuscita a trascinarsi dietro rappresentative di alto valore sportivo: la Germania Est innanzitutto, poi Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Cuba, Etiopia.
Il medagliere, ancora una volta, uscì stravolto nei suoi connotati tradizionali. Alle spalle degli Stati Uniti (di cui era facile pronosticare il predominio assoluto), si classificò addirittura la Romania, che si era rifiutata di allinearsi al boicottaggio, vedendo così premiata la sua determinazione, e forse anche il suo opportunismo. La Germania del terzo posto era quella Federale dell’Ovest (che fin quando c’era stata la «sorella» comunista era vissuta nell’ombra), seguita in classifica dalla ritrovata Cina, fuori dalla competizione da Helsinki ’52 e già decisa a recuperare il tempo perduto. Fin qui tutto diverso rispetto a Mosca (che aveva visto nell’ordine URSS, Germania Est, Bulgaria e Cuba). Il primo segnale di continuità – se così si può dire – venne proprio dall’Italia, di nuovo quinta, ma con una provvista di medaglie ancora più consistente: 32 in totale, le14 d’oro stabilirono un record che ancora resiste.
Fu l’Olimpiade degli americani, in tutti i sensi: costruita da loro, sfruttata da loro, dominata da loro. L’organizzazione affidata per la prima volta a enti privati, ben sorretti dagli sponsor, centrò l’obiettivo di trasformare l’evento sportivo in spettacolo, e quindi in business. Al successo economico si aggiunse anche quello sportivo, non tanto per le 83 medaglie d’oro conquistate (ripicca per ripicca, erano tre in più di quelle sovietiche a Mosca), quanto per il reale valore di alcuni atleti, le cui prodezze non potevano temere alcun confronto. Protagonista indiscusso fu Carl Lewis, un «Bronzo di Riace» arruolato nelle gare veloci dell’atletica, che proprio a Los Angeles cominciava a ventitré anni la sua epopea di quattro Olimpiadi. L’esordio fu strepitoso: vinse i 100 metri in 9.99, i 200 in 19.80, il salto in lungo con 8.54 e la staffetta 4×100 col primato mondiale di 37.83. Quattro medaglie d’oro, eguagliato (in copia conforme) il record del connazionale Jesse Owens, stabilito nel lontano 1936 a Berlino. Là, sguardi invidiosi; qui, un Coliseum tutto a favore.
Se Lewis era il nuovo che avanzava, Edwin Moses era il campione già osannato in attesa dell’ennesimo successo. Aveva già vinto a Montreal otto anni prima, e dal ’77 era ancora imbattuto nella sua specialità, i 400 ostacoli (13 passi tra un ostacolo all’altro, ci riusciva solo lui!). Scelto a Los Angeles per recitare la formula del giuramento dell’atleta (e lì a dire il vero inciampò su qualche ostacolo) non poteva permettersi di fallire: faticò, ma arrivò ancora davanti a tutti, cosa che riuscì a fare ininterrottamente fino al 1987, totalizzando una striscia positiva di 122 gare. Tanti altri statunitensi in evidenza nell’atletica, tantissimi in tutte le altre discipline. Greg Louganis era un autentico fenomeno dei tuffi; nei suoi lineamenti c’erano i geni del papà samoano e della madre svedese, che però lo lasciarono adottare da una famiglia di origine greca; era cresciuto sportivamente tra la ginnastica e la danza classica, esperienze che gli permisero di trasformare il tuffo in una vera e propria arte. Tecnica, eleganza e …medaglie d’oro, sia nel trampolino che nella piattaforma.
Tra le stelle USA c’erano anche le squadre. Imbattibili quelle del basket. In campo maschile, la selezione era stata affidata a Bobby Knight, un vero caposcuola con le sue teorie moderne, che fu in grado di formare un complesso affiatato da un insieme di ottime individualità, compito tutt’altro che facile. Spiccavano, tra gli altri, i nomi di Pat Ewing (centro di 2 e 13, stoppatore inesorabile), Chris Mullin (tiratore come ala piccola, nonostante i suoi 201 cm) e, sopra tutti, Michael Jordan, la guardia di 1 e 98, destinato a diventare – secondo i più – il miglior giocatore NBA di tutti i tempi. Allora era semplicemente uno dei più in vista della Università del North Carolina, e si era già cimentato in vari altri sport (baseball, football, nuoto), prima di tornare al basket, dove era stato inizialmente scartato (paradosso per nulla insolito nelle biografie dei fuoriclasse, in tutti i settori). In quel torneo olimpico viaggiò alla media di 17 punti a partita, poi la sua corsa verso il successo andò a una velocità stratosferica: con i Chicago Bulls, dieci titoli come miglior realizzatore, due three-peat (che sta per titolo vinto per tre volte consecutive) e una serie lunghissima di vari altri primati, ivi compreso quello relativo all’incasso del film «Space Jam» (basket e cartoon) che l’avrebbe visto protagonista, dodici anni dopo.
La squadra di Knight arrivò all’oro con un percorso netto di tutte vittorie, una serie che – dopo la cocente sconfitta di Monaco ’72 – era ripresa senza interruzioni. Cinque passeggiate nel girone eliminatorio (contro Cina, Canada, Uruguay, Francia, Spagna, scarto-medio di 32 punti), l’unico sforzo contro l’insospettabile Germania Ovest in semifinale (78 a 67), prima della finalissima con la Spagna (altra sorpresa) vinta dominando: 96 a 65. In casa non ci si poteva permettere alcuna distrazione: il pubblico pretendeva bel gioco, oltre ai successi, e fu ampiamente accontentato.
Con la stessa mission era scesa in campo la Nazionale statunitense femminile, che non vedeva l’ora di conquistare il suo primo oro, dopo avere lasciato i primi due alle sovietiche. Il rammarico fu proprio quello di non ritrovarsi queste ultime come avversarie, perché con ogni probabilità anche per loro non ci sarebbe stato scampo. Anche qui un percorso netto di vittorie schiaccianti (chi se la cavò meglio fu la Corea del Sud, che rimediò «solo» 30 punti nella finale per il primo posto), e anche qui una formazione di fenomeni. Alcuni nomi. Cheryl Miller, ala piccola di 1 e 87, considerata la miglior giocatrice di tutti i tempi. Theresa Edwards, guardia di 1 e 80, alla prima delle sue cinque Olimpiadi, una apparizione a Vicenza nell’87 per la conquista della Coppa dei Campioni. Janice Lawrence, agile ala di 1 e 91, anche lei a Vicenza, ma dalla stagione successiva, e con in più quattro consecutivi titoli tricolori. Lynette Woodard, guardia funambolica, prima donna a essere arruolata (l’anno dopo) negli Harlem Globetrotter; per lei anche una apparizione in Italia, nel campionato ’89-’90, nelle file della Trogylos Priolo, che anche grazie alle sue prodezze conquistò in quella stagione il suo primo scudetto!
Le azzurre del basket non c’erano, eliminate stavolta nel pre-olimpico dell’Avana, nonostante la presenza della promettente Catarina Pollini. C’erano invece i maschi, alla loro decima partecipazione olimpica su undici edizioni (assenti solo a Melbourne ’56). Sandro Gamba era ancora alla guida della squadra, dalla quale si pretendeva sempre di più: non c’era da onorare soltanto l’argento di Mosca (che poteva anche essere stata una semplice fiammata), ma anche, e soprattutto, il primo oro europeo, conquistato a Nantes l’anno precedente. Usciti di scena Della Fiori, Generali, Sylvester e Solfrini, era stato reintegrato Charlie Caglieris (il mito di tutti piccoletti), mentre cominciava a farsi largo Antonello Riva, un esterno tiratore di grandi qualità tecniche e atletiche, cresciuto a Cantù, destinato a raggiungere, con la maglia azzurra, il record totale di punti (3785) e il record di più punti in una partita (46), sicuramente favorito, in ciò, dalla successiva introduzione del tiro da tre punti, di cui fu uno dei primi specialisti. In quella Nazionale che trionfò in Francia, c’era anche la presenza – discreta ma importante – del catanese Santi Puglisi, come assistente di Gamba assieme a Riccardo Sales.
L’inizio del torneo di Los Angeles era stato all’altezza della ambizioni. Quattro vittorie consecutive, contro l’Egitto (110 a 62, con 26 punti di Riva), la Germania Ovest (80 a 72), il Brasile nostra bestia nera (89 a 78) e l’Australia (93 a 82). La squadra sembrava sicura di sé. C’era l’esperienza di Dino Meneghin e di «Pierlo» Marzorati (34 e 32 anni rispettivamente, alla loro quarta Olimpiade); la maturità degli altri «eroi» di Mosca, Villalta, Vecchiato, Sacchetti, Brunamonti, Gilardi, Bonamico; lo slancio dei nuovi: oltre a Caglieris e Riva, anche Walter Magnifico, ala-centro di 2 e 09 provenienza Pesaro, e Roberto Premier, guardia dell’Olimpia Milano lanciato a Gorizia da McGregor, anche lui come Riva uno specialista nel tiro dalla lunga distanza.
La prima sconfitta (di misura, 69 a 65) arrivò nell’ultima partita del girone eliminatorio, contro la Jugoslavia del nuovo astro nascente Drazen Petrovic, play- guardia dall’uno contro uno micidiale; determinante, in quella partita, l’espulsione a pochi minuti dalla fine di Meneghin per un fallo sull’intramontabile Dalipagic. Seconda nel girone, la squadra italiana fu in qualche modo sfavorita dalla nuova formula, che qualificava addirittura le prime 4 dei due gironi da 6. Per cui, invece di avere assicurata la finale per il bronzo, si rischiò di essere eliminati ai quarti: un’ipotesi divenuta amara realtà contro il Canada, che ebbe la meglio per 78 a 72 (dopo il nostro vantaggio nel primo tempo, 43 a 37). In una partita, la prima e unica davvero sbagliata dagli azzurri, ci si era praticamente giocato tutto! Non restava che lottare per il quinto posto, obiettivo che fu raggiunto con due affermazioni travolgenti, ancora con la Germania e poi con l’Uruguay, quasi scaricando tutta la rabbia per quella occasione mancata. Sei vittorie, due sole sconfitte, quinto posto! Così possono andare le cose nei concorsi a squadre, e Gamba doveva forse sdebitarsi della buona sorte capitata a Mosca, dove il bilancio era stato addirittura in parità. Si restò come spettatori (delusi) delle finali, dove gli USA, come detto, ebbero ragione facilmente della Spagna di Corbalan e degli emergenti San Epifanio (detto Epi) e Solozabal, mentre la Jugoslavia si accontentò del bronzo contro Canada. All’appello mancava solo l’Unione Sovietica.
Un quinto posto non era da buttare, ma proprio a Los Angeles, dove la spedizione azzurra colse tanti successi, quella del basket fu una nota stonata. Intanto la pallavolo maschile cominciò a sottrarre simpatie e praticanti, conquistando la sua prima medaglia olimpica (bronzo), con Prandi allenatore, Bertoli e Lanfranco tra i giocatori più rappresentativi, in un torneo vinto – guarda caso – dagli USA. Nel record dei 14 ori azzurri ci fu tanta atletica leggera, con le galoppate di Gabriella Dorio nei 1500 e di Alberto Cova nei 10000, il peso scagliato più lontano di tutti da Alessandro Andrei, mentre la portabandiera di turno, Sara Simeoni, compì un’altra prodezza dopo l’oro di Mosca, conquistando l’argento, ma con una misura migliore, due metri. E c’era ancora Maurizio Damilano, bronzo nella sua 50 km di marcia.
La scherma fu altrettanto generosa, con sette medaglie. Nelle tre d’oro, ci fu quella della sciabola a squadre, che riportò nel film della premiazione il sorriso dolce e familiare del catanese Angelo Arcidiacono; mentre un altro atleta cresciuto all’ombra dell’Etna, Mino Ferro, avrebbe esultato poco dopo per il bronzo della spada a squadre. Poi ancora tanti altri protagonisti, nelle discipline più varie, a dare dell’Italia l’immagine di un paese con profonda e ampia vocazione sportiva. Citiamo solo la prima apparizione dei fratelli Giuseppe e Carmine Abbagnale, col timoniere Peppiniello Di Capua, vittoriosi nella gara di canottaggio del «due con»: il telecronista Giampiero Galeazzi aveva ancora un timbro tonante nell’accompagnare, con tutto il fiato in corpo, le loro prodezze. Era solo il primo capitolo di un lungo romanzo.
Sullo stesso specchio d’acqua californiano di Lake Casitas, una bionda tedesca dell’Ovest, appena ventenne, vinceva il bronzo nella prova di K2 500 m: si chiamava Josefa Idem, in Italia nessuno si curò di lei…
Nunzio Spina
[15 – segue Mosca 1980, continua con l’intervista a Pierluigi Marzorati]