Basket e Olimpiadi: Città del Messico 1968
Coloured in mostra, tra proteste e prodezze!

Il «Sessantotto» protagonista… Gli Stati Uniti dominatori in tutto… L’Italia del basket deludente, Paratore chiude il ciclo… L’esclusione di Dino Meneghin e Kareem Abdul-Jabbar…

Giochi della XIX Olimpiade: Città del Messico, 12 – 27 ottobre 1968

L’aria rarefatta di Città del Messico non riuscì ad alleggerire l’atmosfera che oppresse i Giochi del ’68. Un anno segnato nella storia. Al punto da essere identificato con quel grande movimento di massa che voleva trasformare radicalmente la società. Proteste e repressioni in tutte le piazze, da un continente all’altro. Operai, studenti, gruppi etnici minoritari: i malcontenti degli uni diventavano facilmente rivendicazioni degli altri. Il «Sessantotto» invocava il principio di uguaglianza, l’eliminazione di ogni forma di oppressione sociale e di discriminazione razziale, il no alla guerra. Nemico da combattere era il sistema politico in generale, oppure qualcosa di ancor meno palpabile, come una certa ideologia borghese e capitalista che privilegiava solo alcune classi. Cortei, slogan urlati, la contestazione che diventava rabbia e che – in un attimo – poteva scatenare la violenza. Le Olimpiadi si trovarono in mezzo; anzi, avendo gli occhi di tutto il mondo puntati addosso, finirono col prestare la propria scena e la propria cassa di risonanza.

Il villaggio olimpico aveva già accolto gli atleti, e molti inviati di TV e giornali si erano sistemati negli alberghi della capitale messicana, quando una protesta di studenti – che da giorni turbava la vigilia dei Giochi – venne duramente repressa nel sangue. Furono centinaia i giovani uccisi dall’esercito nella famigerata Piazza delle Tre Culture; un massacro consumato sotto i riflettori. Olimpiadi ferite, lì sul posto, ancor prima di cominciare. Ma nessuno ebbe il coraggio di fermarla. Così come nessuno riuscì a impedire che la protesta dei coloured americani si manifestasse poi in tutta la sua forza simbolica: il pugno chiuso guantato in nero, alzato in alto da Tommie Smith e John Carlos sul podio della premiazione dei 200 metri, colpì pesantemente le coscienze, più di quanto non avessero fatto le rivolte dei gruppi di azione. Lo spettacolo andava avanti, ma la vetrina dello sport non poteva sottrarsi – ormai – alle incursioni politiche.

Pugno in alto con guanto nero: il clamoroso segno di protesta di Smith e Carlos, nella premiazione dei 200 metri piani

Una edizione nata tra mille contrasti e non poche diffidenze. Tra queste, una riguardava l’aspetto geografico. Ci si chiedeva quali prestazioni potessero venir fuori ai 2250 metri sul livello del mare di Città del Messico, dove si abbassa la pressione parziale di ossigeno, e quindi un organismo sotto sforzo è costretto a chiedere di più al suo apparato respiratorio e cardiaco. Bisognava adattarsi; e del resto, più di 6 milioni di abitanti vivevano là senza problemi. Effettivamente, ci fu qualche limite per le gare che richiedevano uno sforzo prolungato; in compenso ne trassero vantaggio quelle in cui si esegue per lo più un lavoro anaerobico, come la velocità nell’atletica, dove la rarefazione dell’aria ha lo stesso effetto di un vento a favore. Anche grazie a questo erano maturate le imprese di Jim Hines nei 100, sotto il muro dei 10 secondi (9”95), del già citato Tommie Smith nei 200 (19”83, un record che sarebbe stato battuto solo undici anni dopo dal nostro Pietro Mennea, e guarda caso proprio a Città del Messico), di Bob Beamon nel salto in lungo, un incredibile 8 e 90 oltrepassando addirittura il bordo estremo della pedana, tra l’incredulità e l’imbarazzo dei giudici. Tutti e tre atleti americani di colore: evidentemente, non era solo questione di aria!

Un’edizione olimpica che riuscì a superare ogni difficoltà e a raccogliere consensi. Dal punto di vista tecnologico si distinse per l’introduzione del cronometraggio elettronico (al centesimo di secondo) e del materiale sintetico per le piste di atletica leggera (il tartan). Il Messico, paese di contraddizioni profonde dal punto di vista economico, mise a disposizione impianti sportivi di grande capienza: oltre allo Stadio Olimpico (84.000 posti) e allo Stadio Azteca per il calcio (100.000), già destinato a ospitare i Mondiali del ’70, si faceva ammirare anche il Palazzo dello Sport Juan Escutia (22.350 posti sotto una cupola geodetica alta 160 m) che venne riservato al basket.

L’8 e 90 nel salto in lungo di Bob Beamon, oltre il bordo della pedana, davanti allo sguardo incredulo dei giudici

Gli Stati Uniti non si accontentarono della prima posizione nella classifica generale; vollero dominare sugli avversari, soprattutto sull’Unione Sovietica, che giunse seconda perdendo nettamente la partita delle medaglie d’oro (45 a 29). Al terzo posto conferma del Giappone, seguita dalla sorprendente Ungheria,  mentre al quinto si affacciava la Germania Est, per la prima volta divisa anche nello sport olimpico dall’altra Germania. Al successo americano molto contribuì, come abbiamo visto, l’orgoglio degli atleti di colore (vittoriosi anche nei 400 piani e nelle staffette), ma non va dimenticato l’apporto dei bianchi, con il quarto oro (su quattro Olimpiadi) di Oerter nel disco e l’inattesa vittoria di Dick Fosbury nel salto in alto: stupì con una tecnica tutta sua – destinata a soppiantare lo scavalcamento ventrale – che prevedeva di superare l’asticella col dorso e poi con le gambe.

L’Italia c’era, ma si fece vedere poco. Si presentò a Città del Messico con solo 178 atleti, qualcuno in più rispetto a Tokyo, e anche stavolta lontananza e stagione (le gare si disputarono in pieno ottobre) ebbero la loro influenza. Ben differenti, però, furono i risultati, con il minimo storico di medaglie (16), appena 3 d’oro (Klaus Dibiasi nei tuffi dalla piattaforma, il due con del canottaggio con Baran e Sambo, Vianelli nel ciclismo su strada). Tra i successi mancati, quello del ginnasta Franco Menichelli, diventato a suon di risultati famoso quanto il fratello Giampaolo, attaccante della Juventus e della Nazionale; nel corpo libero aveva classe e forza superiori a chiunque altro, e stava per ultimare il suo esercizio da medaglia d’oro quando nell’eseguire il salto mortale all’indietro sentì un crac e un dolore lancinante: rottura del tendine d’Achille, addio all’oro e alla carriera.

Dick Fosbury si esibisce nel salto in alto, con l’innovativa tecnica che da lui prenderà il nome

Tra le disillusioni ci fu anche quella del basket. Quarto posto a Roma, quinto a Tokyo, la Nazionale italiana sembrava essere entrata stabilmente nella élite mondiale, o comunque era stata sempre in grado di onorare l’impegno olimpico, suo obiettivo principale da quando al prof. Nello Paratore era stata affidata la guida tecnica. A Città del Messico ci si aspettava una conferma, se non quel balzo in più che potesse finalmente permettere di salire sul podio. Arrivò invece un ottavo posto che suscitò delusione e molte critiche, sicuramente eccessive per quello che era stato l’andamento del torneo. Un passo indietro che non venne accettato dalla Federazione, e che decretò la fine di un ciclo.

Paratore aveva continuato, dopo Tokyo, nel suo paziente lavoro di graduale rinnovamento della squadra. Agli Europei del ’65 a Mosca si era affidato anche a Cescutti e Gatti (due giovani promettenti), ottenendo un lusinghiero quarto posto alle spalle di URSS, Jugoslavia e Polonia, con una sconfitta di soli due punti contro la Jugoslavia, che segnò l’inizio di una serie stregata. Due anni dopo lo stesso tour de force dell’anno preolimpico di Tokyo, con Mondiali, Giochi del Mediterraneo e di nuovo Europei. I risultati non furono proprio esaltanti: nell’ordine, un nono posto a Montevideo, un secondo a Tunisi alle spalle della solita Jugoslavia (nel frattempo avevano fatto il loro debutto Ossola, Recalcati, Merlati e Fantin), poi un settimo posto in Finlandia. Se si trattava delle solite tappe di avvicinamento alle Olimpiadi, non c’era da preoccuparsi.

Italia – USA: Spencer Haywood in un jump shot, invano contrastato da Bovone; gli altri azzurri sono (da sinistra) Pellanera, Flaborea e Vianello

Intanto, nel campionato italiano c’era stata una svolta importante. Nel ’65 Claudio Coccia era succeduto a Decio Scuri a capo della Federazione, reintroducendo gli stranieri come prima novità. Ci fu un’invasione di grandi giocatori, i Palazzetti si riempirono, crebbe l’interesse. Erano soprattutto Milano e Varese a contendersi gli scudetti, ma proprio nel ’68 arrivò la sorpresa Cantù, che col suo famoso muro difensivo (Merlati, Burgess, De Simone) e i tiri di Recalcati riuscì ad avere la meglio.

La formazione scelta per Città del Messico era (o doveva essere) la solita soluzione di compromesso tra esperienza e forze nuove: c’erano tre reduci di Roma (Lombardi, Vianello, Vittori), quattro di Tokyo (Flaborea, Bufalini, Masini, Pellanera) e poi i nuovi: Guido Carlo Gatti (un’ala dalle notevoli doti atletiche), Massimo Cosmelli (regista con la specialità del passaggio al pivot), Carlo Recalcati (esterno dal tiro rapidissimo e preciso), Enrico Bovone (nuova torre della squadra con i suoi 2 e 10), Gianluigi Jessi (agile guardia di 1 e 85). Gli esclusi dell’ultimo momento erano stati Pino Brumatti, Gianfranco Fantin e il diciottenne Dino Meneghin. Quest’ultima fu, a posteriori, la rinuncia più contestata. Paratore lo aveva lanciato in prima squadra già a 16 anni in una tournée amichevole in Germania e nei paesi scandinavi. Lo teneva d’occhio, sapeva di avere per le mani un talento, ma probabilmente non volle «bruciarlo» per la competizione olimpica e all’ultimo momento lo restituì alla Nazionale juniores, dove sicuramente il suo apporto sarebbe stato più determinante.

Ancora Haywood in azione: svetta sotto canestro nella finale per l’oro con la Jugoslavia

La formula di Città del Messico ricalcava quella di Tokyo. Due gironi da 8 squadre, le prime due al girone di semifinali e così via. Ripercorriamo il cammino degli azzurri per capire come la fortuna non fu proprio dalla loro parte. Inizio promettente: vittoria nelle prime quattro partite, con Filippine (91 a 66), Panama (94 a 87), Portorico (68 a 65) e Senegal (81 a 55). Poi ci si giocò tutto con la Jugoslavia: primo tempo 29 a 29; secondo 65 a 65, con Gatti che sbagliò un contropiede facilissimo negli ultimi secondi; al supplementare, il quinto fallo di Masini decretò la resa, e alla fine furono undici i punti al passivo (69 a 80). Il giorno dopo, ancora storditi, gli azzurri subirono l’atteso kappao da parte degli USA: 100 a 61, senza pietà. La vittoria con la Spagna (98 a 86), con 32  punti di Masini, non servì a nulla. Si andò al girone per i posti dal quinto all’ottavo col morale sotto i tacchi: tracollo con la Polonia (66 a 52) e poi con la stessa Spagna (88 a 72). Oltre il danno, sarebbe arrivata la solita beffa: la Jugoslavia, allenata da Zeravica, riusciva addirittura a conquistare l’argento, dopo avere sconfitto in semifinale l’URSS per un punto. Che regalo che le aveva fatto l’Italia!

Si scatenarono tante polemiche e congetture su quella débacle. Pare che la presenza di troppe primedonne, e l’inevitabile conflitto tra loro, avesse fatto perdere la testa alla squadra. Paratore, uomo sempre pacato, estremamente corretto nel rapporto coi suoi giocatori, si sentì forse un po’ tradito per una fiducia non pienamente ricambiata. Dei vecchi si erano salvati solo Masini e Flaborea; i giovani Recalcati e Cosmelli non potevano fare di più. L’allenatore ebbe forse il torto di non tenere in pugno la squadra sul piano caratteriale, e così finì col pagare per tutti: via dalla Nazionale, per sostituirlo c’era già pronto il suo assistente Giancarlo Primo.

Un’immagine di Radivoj Korac, il fuoriclasse slavo prematuramente scomparso, al quale venne intitolata una Coppa europea

Vinse il torneo (solita musica di tutte vittorie) la rappresentativa USA, che diede dai 20 ai 40 punti di scarto agli avversari nel girone eliminatorio, tranne che al Portorico (solo 5). In semifinale 12 punti al Brasile, poi l’inedita finale con la Jugoslavia, vinta abbastanza agevolmente: 65 a 50. L’URSS si accontentava del bronzo; quarto il Brasile; quinto il Messico che schierava Manuel Raga, eccezionale tiratore in sospensione, approdato poi in Italia per fare la fortuna dell’Ignis Varese. Nella squadra americana, un nome su tutti: quello di Spencer Haywood, un ragazzino di appena 19 anni che fece impazzire il pubblico con i suoi numeri (elevazione, velocità, tiro) e che venne eletto miglior giocatore del torneo; sarebbe passato subito prof, e dodici anni dopo venne anch’egli a onorare il nostro campionato, nelle file della Reyer Venezia, che trascinò dalla A2 alla A1 e poi alla finale di Coppa Korac. Un protagonista mancato fu un altro fuoriclasse emergente: si chiamava Lew Alcindor, colonna nera di 2 e 17, che rifiutò la convocazione del selezionatore Hank Iba per la questione razziale; sarebbe diventato – dopo la conversione all’Islam – il grande Kareem Abdul-Jabbar, «gancio cielo» e tanto altro.

A proposito di Korac. Nelle file della Jugoslavia, vera sorpresa del torneo di Città del Messico, c’era proprio lui, Radivoj Korac, ala di 1 e 96, per sette stagioni capocannoniere del campionato con l’OKK di Belgrado, prima di vestire la maglia del Petrarca Padova, proprio all’indomani delle Olimpiadi di Città del Messico. Dopo la sua prematura morte in un incidente stradale, avvenuta nel ’69, a 31 anni, gli venne appunto intitolata una manifestazione di Coppa europea (poi soppressa nel 2002). Tra i suoi compagni di squadra, altri due nomi che sarebbero diventati molto noti agli appassionati di basket italiano: Petar Skansi (2 e 06), lunga militanza da giocatore e da allenatore (Pesaro, Fabriano, Roma, Treviso, Bologna) e Cresimir Kosic (2 e 09) allora appena ventenne, avversario di tante battaglie in Nazionale contro gli azzurri (che con lui in campo ebbero spesso la peggio): a Bologna, con la Virtus, chiuse la carriera da giocatore e cominciò quella da allenatore.

L’Italia, stavolta, era rimasta fuori a guardare la vetrina dei personaggi, nel basket come in quasi tutti gli altri sport. Conveniva voltare subito le spalle alla sfortunata esperienza messicana, preparando il riscatto per i Giochi successivi. Si tornava in Europa, in terra di Baviera, a un passo da casa.

 

Nunzio Spina

[8 – segue Tokyo 1964, continua con l‘intervista a Lombardi]