L’Italbasket a Catania: Giacomo “Gek” Galanda

È il 26 novembre dell’ormai lontano 1997, quando tremilacinquecento tifosi, contati male, assistono ad uno dei rari sprazzi di pallacanestro che conta nella provincia etnea. Quel giorno, l’Italbasket affronta la Lettonia, in un PalaCatania trepidante, sebbene non tutto esaurito, in un’amichevole di cui non conta tanto il risultato, quanto la storicità degli spunti offerti dal parquet. Sembrava l’inizio dell’inserimento di Catania sulla cartina geografica del basket “dei grandi”, con la suggestione di una casa farmaceutica che prometteva l’acquisto di un fantomatico titolo di A1. Spoiler: non arriverà mai. Per la Nazionale maschile, invece, ha rappresentato davvero un nuovo inizio, quello dell’era di Boscia Tanjevic, uno che ci ha regalato belle soddisfazioni alla guida degli azzurri (leggi Europei ’99), per il quale quel match segnava l’avvio di un rapporto professionale storico.

Di fronte, c’era la Lettonia, che merita una menziona in questa storia, in quanto testimone e parte attiva di una serata che ci ha regalato una marea di intrecci epocali. Una nazionale profondamente diversa da quella estremamente competitiva dei nostri giorni, per intenderci Kristaps Porziņģis, gigante lettone dominante sia in NBA che con la canotta della sua patria nel momento in cui scrivo, all’epoca aveva bisogno del latte di mamma Ingrid, perché aveva solo due anni. Quella selezione aveva come suo leader tecnico tale Bagatskis (22 quella sera), che gli appassionati della palla a spicchi europea conosceranno più per le sue esperienze da allenatore: CT di Ucraina (attualmente) e Lettonia, nonché ex-head coach di powerhouse come Darussafaka, Bamberg e Maccabi Tel Aviv.

Tra i nostri, al contrario, il talento era grasso che colava: gente del calibro Fucka, Meneghin figlio, Marconato, Pozzecco, Bonora, Chiacig, e, soprattutto, Myers, ammaliarono i fortunati presenti durante quei 40 minuti di spettacolo, con Carlton che giustiziò gli avversari, esibendosi, come era solito fare, con una prestazione realizzativa sontuosa da 28 punti (3 triple e 7/8 ai liberi). Chi, però, in quella sfida, in particolare, fu uno dei pochi a non lasciare il segno (a causa del basso minutaggio), era un certo Giacomo Galanda, allora solo un promettente ventiduenne, il quale ebbe modo di rifarsi nel corso della sua carriera e che in questi giorni torna estremamente di moda per Basket Catanese… Per farvi capire, quanto tempo sia effettivamente passato da quella serata, per noi magica, eccovi un estratto dell’editoriale di Marco Crespi, oggi autorevole e affermata voce di Sky Sport, al secolo contribuitore (sbarbatello) presso Basket Point, per cui scrisse questo pensiero su quell’Italia catanese.

Jack Galanda

Di anni ne sono trascorsi e di cose ne sono cambiate in quasi ventitré anni. Quel ragazzotto poco appariscente, che affettuosamente tutti chiamavano Jack (o Gek, a voi la scelta), mise a segno soltanto un canestro, frutto del suo unico tentativo dal campo, accompagnato da un rimbalzo ed un assist, durante la sua trasferta siciliana. Walter Fuochi, all’indomani della gara, scrisse un sunto per “la Repubblica”, in cui affermava che Galanda «ha mostrato le ragnatele che affliggono chi sta troppo, a casa sua, seduto in panchina». Un riferimento piuttosto chiaro, con “casa sua” che è ovviamente la Fortitudo Bologna, e il troppo tempo trascorso “seduto in panchina”, allude al poco spazio che Giacomo aveva in quel periodo alle Aquile. Effettivamente, Jack, quel 1997, lo aveva vissuto all’ombra del grande Gregor Fucka (una divinità, per inciso), anch’egli presente a Catania (14 punti, 4 rimbalzi), il quale privava di molti minuti il suo sostituto uscente dal pino. A lungo andare, Galanda riuscì a dimostrare di poter convivere e, addirittura, essere complementare a Fucka, sebbene egli fosse soltanto una delle tantissime stelle della F che monopolizzavano la nazionale in quelle annate. Qui, però, stiamo andando un po’ troppo avanti; poiché è bene iniziare dagli albori: facciamo un passo indietro.

Gli albori, per il giovane Jack, significano Udine, città natìa, oltre che prima società che gli permise di avvicinarsi alla palla arancione. Da lì, ebbe lo slancio che lo portò verso un’esperienza cruciale per la sua crescita professionale e forse anche tecnica (questo dovremmo chiederlo a lui…), ovvero un semestre trascorso in Iowa alla Pocahontas High School, che oltre ad avere una denominazione che rievoca un film Disney, è un distretto scolastico liceale degli Stati Uniti. Un anno americano e poi subite le valigie in direzione Verona, dove lo aspetteranno quattro anni che lo avvieranno al basket professionistico alla grande.

Alla Scaligera esordì in serie A e si mise in mostra, al punto di guadagnarsi le attenzioni della Fortitudo, che lo portò a Basket City nell’estate del 1997. La sua eredità di 6 punti di media e 142 presenze a referto in Veneto, gli bastarono per assicurarsi un posto nel roster fortitudino, tuttavia, ciò che dimostrò in allenamento e, più che altro (direi principalmente per questo), la presenza de “l’airone di Kranj”, mi sembra opportuno citare Franco Lauro, eclissava, come detto, ogni tipo di chance di vedere un Galanda più protagonista, almeno per quella stagione. Dunque, benché Gek (grafia che gradisce di più) non avesse raccolto nemmeno una decina di minuti di media a partita (solo 9,2 per l’esattezza), la dirigenza dell’allora Teamsystem intravide in lui del potenziale e decise di mandarlo in prestito a Varese. A posteriori, non credo di fantasticare, affermando che Giacomo Galanda fosse davvero un giocatore speciale, ma proprio uno di quelli che passano una volta in un decennio. Non per il suo talento, che seppur clamoroso era “minore” rispetto a quello del Myers della situazione, bensì per il suo stile di gioco e le sue caratteristiche, un  unicum negli anni ’90.

Sento spesso parlare del “prototipo del lungo moderno“, una macchinazione alla quale viene continuamente associato il nome di Andrea Bargnani. In un’era cestistica nella quale siamo circondati di lunghi tiratori e rapidi di piedi, in molti individuano la figura di Bargnani come antesignano della categoria. Per quanto io brami clamorosamente il gioco del Mago, probabilmente la meteora più luminosa che il nostro basket abbia mai visto, mi preme sottolineare come Galanda sia il suo naturale predecessore. Si tratta di due giocatori radicalmente diversi (o forse no, sotto parecchi aspetti), che certamente condividono la peculiarità di possedere due mani assolutamente illegali, per gli anni in cui professavano basket.

Tornando a Jack, credo che prima dell’inizio del terzo millennio, quelli “come lui” si contassero sulle dita di una mano, 210 centimetri per 110 chili di bombe pesantissime e movimenti sul perno di una grazia inaudita, erano merce rara. Impossessandomi nuovamente, in modo inappropriato, delle parole di Lauro, durante le finali scudetto 99/00 (e lì ci arriviamo) analizzò esattamente ciò che rendeva questo giocatore estremamente funzionale: «Come fai? Se esci a marcargli il tiro, non puoi andare a rimbalzo…». Ebbe la possibilità di dimostrarlo, appunto, nella cavalcata dello scudetto della stella di Varese, un’annata così epocale da non meritare di essere mozzata in avvio come ho fatto io in precedenza.

Sui Roosters, la mascotte gallo, un Pozzecco  rodmaniano (letteralmente) e quella cavalcata, servirebbe veramente un capitolo a parte. Basti sapere, o meglio, non basta però dobbiamo farcelo bastare, che Gek Galanda quella stagione divenne Gek Galanda, cucendosi il suo primo scudetto addosso. Da quello splendido trionfo da outsider, tutto svoltò per il verso giusto nella carriera di Jack. A cominciare dall’estate, indimenticabile per lui e per tutti noi.

Nel caldo della bella stagione 1999, l’Italia alzò al cielo (o meglio al tetto del palazzo di Bercy) il trofeo dei Campionati Europei. Un gruppo guidato in panchina sempre da Tanjevic e trascinato sul parquet sempre da Gregor Fucka (MVP della competizione) e Carlton Myers, ci offre un infinitesimale numero di intrecci storici. Un percorso iniziato proprio due anni prima a Catania e culminato con l’oro in quegli europei. Per Galanda, oltre ad essere la prima gioia in azzurro, fu il via definitivo ad un proseguo di carriera ricco di successi, anche più da protagonista. Per forza di cose, mi tocca soffermarmi sui principali, tra cui quello che arriva la stagione successiva.

Il ritorno alla casa-base Fortitudo e, questa volta, la scoperta della possibilità di giocare a fianco a Fucka, riuscendo anche ad essere un elemento che permette di aprire l’aria a quest’ultimo, creando un’asse solida e ben rodata. Le penetrazioni del primo, due e quindici con l’agilità di una guardia e la pericolosità perimetrale di Galanda, furono due degli elementi che garantirono alla sponda biancoblu di Bologna di conquistare il primo storico tricolore della propria storia. Etichetterei le finali contro Treviso il momento in cui Gek si attestò come uno dei top veri, motivo per cui divenne un assoluto pilastro delle successive campagne bolognesi.

Lo fu fino al 2003-04, anno in cui decise di traslocare a Siena, dove, neanche a dirvelo, appena arrivato portò a casa il suo terzo titolo nazionale personale. Guarda caso, ad un anno vincente in Italia corrispose un’altra manifestazione pazzesca con la Nazionale. In questo caso, però, parliamo de “LA” manifestazione per eccellenza, anche nota come le Olimpiadi di Atene del 2004. Non sto qui a ripetervi il tasso di epicità contenuto in quel risultato, mi limito soltanto a constatare che quel Galanda fu, di gran lunga il mio preferito, e, inoltre, la sua miglior versione di sempre. Non si entra nel quintetto ideale di quel torneo per caso, né si raggiunge una finale e una medaglia d’argento conquistata arrendendosi solo ad una delle più forti nazionali non-USA mai viste (aka Generación Dorada) con casualità.

Il Gek Galanda visto ad Atene fu un trattato di attributi e agonismo senza precedenti, un torneo giocato costantemente al massimo, da tutti, ma da lui in primis. Probabilmente sono quel torneo e quella medaglia d’argento a concedergli il pass per l’olimpo del basket italiano. La sua sontuosa prestazione in semifinale, contro una Lituania traboccante di cultori del gioco, e il duo, ribattezzato Twin Towers, che formavano con Denis Marconato, sua nemesi nel 2000, furono un serio invito all’ateismo (e qui mi perdoni l’avvocato Buffa per la citazione). Ridare una sbirciata alle sfide dell’agosto 2004 non basta a riassumere una carriera, tuttavia può servire ad avere un assaggio di un giocatore che ha fatto breccia nei cuori degli appassionati, riuscendo al contempo ad essere un vincente. Già, perché ricapitolando, e aggiungendoci una parentesi milanese, un romantico ritorno a Varese e una chiusura matura a Pistoia (di cui attualmente fa parte del CDA), Galanda si è portato a casa:

  • Tre campionati italiani;
  • Una Coppa Italia;
  • Due supercoppe italiane;
  • Un argento olimpico,
  • Un bronzo, un argento ed un oro europeo.

Senza nulla togliere ai due campionati di Legadue vinti a Varese e Pistoia, e pur non dimenticandoci che alla fine della fiera ha mantenuto delle percentuali che attentano il quaranta percento da tre (39,4% in carriera) e l’ottanta percento ai liberi (79%). Oltretutto, da aggiungere a questo già più che rispettabile palmares ci sarebbero quelle piccole cose fatte sul campo e fuori che non hanno un valore in termini di trofei o statistiche. Infine, per concludere, vi lascio alcune delle repliche integrali delle più importanti partite per Giacomo Galanda e l’ultimo richiamo ad un Franco Lauro, che in questo pezzo abbiamo scomodato più volte, ed il suo memorabile commento.

“Bulleri, in posizione alta per Galanda… triplaaaaaaa, GEK GALANDA!!”

 

 

Gaetano Gorgone

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