Ricordo di Kobe Bryant… Puglisi e Gebbia erano alla Viola ai tempi del padre Joe «Era sempre pronto a tirare a canestro»… Coppa: «Speciale»…
Era l’estate del 1986. Sulle rive dello Stretto (sponda calabrese) sbarcava Joe. Con lui mamma Pamela, le sorelle Sharia e Shaya e un piccolissimo bambino. Joe è un cestista americano, di grande talento, che arriva da Rieti per risollevare la Viola Reggio Calabria, appena retrocessa dalla Serie A1. Joe di cognome fa Bryant. E quel piccoletto, di appena 8 anni, era Kobe.
L’allenatore della Viola di allora era il catanese Santi Puglisi, uno dei tecnici italiani di maggiore spessore e che aveva vinto l’oro agli Europei di Nantes nel 1983 come assistente di Sandro Gamba. Il “Santone” etneo ricorda perfettamente quel periodo: «Quando arrivò Joe Bryant, notammo subito il figlioletto Kobe. Era sempre con la palla in mano, non perdeva occasione per entrare in campo, a ogni sosta dell’allenamento, per fare qualche tiro. Notavo, soprattutto, che si metteva a fare il conto alla rovescia e, quando arrivava a zero, tirava. E se faceva canestro correva felice attorno al campo».
«Una volta lo rimproverai – afferma Santi Puglisi – perché stavamo preparando una partita importante. Eravamo riuniti a centro campo, lui entrò di corsa e cominciò a tirare e, dunque, a disturbare. Io lo ripresi: “Kobe, sit down!”. Lui mi guardò, mi apostrofò sottovoce e si andò a sedere. Ma appena ne ebbe l’occasione, tornò subito sul parquet a tirare di nuovo».
E il figlio di Santi Puglisi, Salvatore, racconta un aneddoto: «Quando andavo a trovare mio padre in Calabria, ci mettevamo a giocare, ma lui non passava mai la palla. Era sempre uno contro cinque, ma alla fine vinceva sempre…».
La Viola Reggio Calabria di quel tempo era a marchio catanese: responsabile del settore giovanile era Gaetano Gebbia che della società neroarancio fu il punto di riferimento per ben 17 anni. «Era ancora un bambino, ma il piccolo Kobe – ricorda Gaetano Gebbia – era sempre presente agli allenamenti della prima squadra con la palla in mano, giocava e palleggiava a bordo campo. Nessuno, nel 1987, avrebbe immaginato che il figlio di Joe avrebbe raggiunto e superato il padre».
«Kobe – continua Gaetano Gebbia – fu reclutato dal minibasket, il suo allenatore era Rocco Romeo. Certo, non posso dire che già si intravvedeva il suo enorme talento, ma la cosa che più mi incuriosiva è che stava tutto il giorno con la palla in mano, non la lasciava mai, e quando ne aveva l’occasione andava a tirare. E faceva canestro».
Un altro che lo ricorda con affetto è Salvo Coppa, figlio di Santino, colui che riuscì a portare sul tetto d’Italia e d’Europa, la Trogylos Priolo. Salvo, sposato con l’ex giocatrice Adia Barnes, vive da qualche tempo in Arizona, dove è il viceallenatore dell’Arizona University, college che partecipa ai campionati femminili. «Ho incontrato Kobe un anno addietro – racconta – a un clinic a Los Angeles. Durante la sua lezione, quello che mi ha impressionato è stato il carisma che riusciva a esprimere. Spiegava che il basket deve essere passione, lavoro, amore verso uno sport fantastico. Ci ha tenuti incollati alla sedia per ore, poi si è messo ad allenare la figlia, che aveva anche lei un grande talento. Subito dopo, ho avuto l’onore di scambiare quattro chiacchiere con lui in un italiano quasi perfetto. Mi ha chiesto dell’Italia, appena ha saputo che io ero siracusano, ha ricordato che la Sicilia era vicinissima a Reggio Calabria, di cui lui conservava un gradevolissimo ricordo. Ci siamo salutati cordialmente e mi ha detto “in bocca al lupo” per la mia squadra che lui seguiva, così come tutta la Conference».
«Qui in America – conclude Salvo – è un lutto nazionale. La gente, per strada, è silenziosa, nei giornali e in tv non si parla d’altro. Kobe è stato uno dei più grandi giocatori dell’Nba, ma gli americani lo ricordano soprattutto come uomo, davvero eccezionale».
Andrea Magrì
da “La Sicilia” del 28/1/2020
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