Mondiali di basket: Madrid 2014
La sinfonia USA è ancora vincente

Una finale che non sarebbe arrivata… Le “seconde scelte” di Krzyzewski… La prima medaglia della Francia… L’Italia ancora assente

La Nazionale USA riunita attorno a Krzyzewski in un time out; la strategia difensiva del coach risulterà determinante per un percorso netto di tutte vittorie (dal sito “oasport.it”)

Una finale contro gli USA – e poi addio alla sorte – era lo scenario che la Spagna si era prefigurato ospitando a casa sua il Mondiale del 2014. Non era illusione. La Nazionale iberica stava ormai vivendo un lungo periodo di splendore, che proprio da una edizione dei campionati mondiali, quella del 2006 in Giappone, l’aveva vista quasi sempre salire sui gradini del podio. Dopo l’oro di Saitama, infatti, erano arrivate ben sei medaglie nelle successive sette manifestazioni ufficiali; e nelle due partecipazioni olimpiche, Pechino 2008 e Londra 2012, ci si era accontentati dell’argento solo dopo avere sfidato a viso aperto – per l’appunto – gli imprendibili Stati Uniti.

La Spagna come l’Argentina e il Brasile, nel senso che il Mondiale vi si disputava per la seconda volta; e siccome sia Buenos Aires che Rio de Janeiro avevano assaporato almeno una volta il gusto di vedere trionfare la squadra di casa, ci si attaccava anche a questo precedente statistico – sebbene lontano nel tempo – per affrontare l’impegno col massimo dell’ottimismo. Quanto all’aspetto organizzativo il successo era garantito. Non tanto per l’esordio della nuova denominazione, “FIBA World Cup”, quanto per il fatto che la formula allargata a 24 squadre, in vigore da due edizioni, aveva fatto una sua fugace comparsa anche nella prima edizione spagnola del 1986; e già allora, come stavolta, ci voleva poco a coinvolgere città e impianti sparsi per tutto il territorio, isole (Canarie) comprese.

I canestri di Pau Gasol non sono bastati ai padroni di casa della Spagna per accedere alle semifinali a spese della Francia (dal sito “contra-ataque.it”).

Stati Uniti e Spagna, dunque, nella pole position dei pronostici, con una bilancia che rischiava addirittura di pendere dalla parte europea, perché i “lunghi NBA” più forti si chiamavano Pau e Marc Gasol (ormai di casa a Los Angeles e Memphis) o Serge Ibaka (congolese naturalizzato spagnolo, che da cinque anni dispensava stoppate e schiacciate con gli Oklahoma City Thunder); e perché la selezione a stelle e strisce pare fosse, sulla carta, la più debole messa in campo dai tempi del primo Dream Team del ’92.

Adesso sembra paradossale dire che Stephen Curry, James Harden, Kyrie Irving e Klay Thompson rappresentassero una seconda scelta NBA. Allora, no! Ma coach Krzyzewski, che le vittorie le inseguiva col gioco e non con i nomi, riuscì a trasformare questo poco incoraggiante biglietto da visita in una carta vincente. Il suo dogma era: temere gli avversari e controllarli con una difesa spietata, tutto il resto sarebbe venuto da solo. Non facile inculcare questa mentalità in un ambiente abituato a guardare il prossimo dall’alto in basso, ma solo un comportamento del genere poteva trasformare una squadra favorita in una praticamente imbattibile.

Milos Teodosic è stato, assieme al giovanissimo Bogdan Bogdanovic, uno degli artefici del sorprendente argento della Serbia (dal sito “melty.it”).

Tutte vittorie per gli USA (così come nel Mondiale di quattro anni prima in Turchia), a cominciare dal girone della città basca di Barakaldo, dove a suon di palle recuperate, contropiedi e tiri da tre furono spazzate via Finlandia (144 a 55), Turchia, Nuova Zelanda, Repubblica Dominicana e Ucraina. Sinfonia che non cambiò nella fase a eliminazione diretta di Barcellona (33 punti di scarto al Messico, 43 alla Slovenia dei fratelli Dragic, solo 28 alla Lituania del “senese” Lavrinovic), e che li portò diritti laddove erano attesi fin dall’inizio, cioè il Palacio de Deportes di Madrid per la finale del 14 settembre.

La Spagna, da parte sua, sembrava inizialmente in grado di inseguirlo il suo sogno. Anche lei imbattuta nel girone, quello di Granada, aveva inflitto sconfitte abbastanza nette al sempre temibile Brasile, ma anche alla Francia e alla Serbia (che se ne sarebbero fatto beffa…). Superato agevolmente anche il Senegal agli ottavi, il bel castello crollò di colpo ai quarti: la miseria di 52 punti all’attivo (17 dei quali di Pau Gasol) non poteva bastare per superare nuovamente la Francia, dove spettava alle ali Diaw e Batum il compito di non fare rimpiangere l’assenza del loro collega NBA Tony Parker. Spagna fuori dalla scena, dunque; lo stesso quinto posto rimediato in casa propria nella edizione dell’86, stavolta però condito da maggior delusione. Ci avrebbe pensato Sergio Scariolo – richiamato a furor di popolo – a riportare subito in alto la Nazionale iberica, con l’oro europeo dell’anno dopo e il bronzo olimpico del 2016.

Kyrie Irving nella finale per l’oro, dove è risultato il top scorer (sarà premiato come MVP); a destra il coach serbo Sasha Djordjevic (dal sito “vavel.com”).

Sembrava la Francia, a quel punto, la candidata alla sfida finale con gli USA, e invece c’era in agguato la Serbia di Sasha Djordjevic, vecchia conoscenza italiana sia come playmaker (Milano, Bologna, Pesaro), che come allenatore (Milano, Treviso). Un Mondiale lo aveva già vinto da giocatore con la maglia dell’allora Jugoslavia, nel ’98, e c’era molto della sua grinta e della sua intelligenza cestistica in quella Serbia che, dopo avere perso con Spagna e Francia in qualificazione, aveva dato delle sonore batoste alla Grecia e al Brasile. Tra i protagonisti, il già noto Milos Teodosic e la giovanissima guardia Bogdan Bogdanovic; con i loro 37 punti (in due) furono decisivi anche contro la Francia in semifinale, nonostante i 35 di Batum.

Si arrivò così alla finale per l’oro tra Stati Uniti e Serbia. In discussione avrebbe potuto metterla soltanto un atteggiamento di insolenza da parte degli americani, cosa impossibile con un coach come il loro. E infatti la concentrazione fu talmente alta che già alla fine del primo tempo gli USA avevano stordito gli avversari con la loro difesa aggressiva e una raffica di triple: 67 a 41; un vantaggio che sarebbe ancora aumentato fino al 129 a 92 finale. La grande prestazione di Irving (26 punti) gli avrebbe fatto guadagnare il premio di MVP; dietro di lui Harden (23) e la doppia cifra di Curry e Thompson: tutti loro erano attesi da un futuro in NBA ancora più esaltante. Nel miglior quintetto, però, oltre a Irving (e a Teodosic, Batum e Pau Gasol) entrava tale Kenneth Faried, un’ala grande che s’era conquistata prima la convocazione e poi la titolarità del quintetto base. Si vinceva anche grazie a tipi come lui.

Combattutissima, invece, la finale per il bronzo, che il giorno prima aveva visto prevalere la Francia sulla Lituania per 95 a 93: gli stessi due punti di differenza tra i parziali di Batum (27) e di Valanciunas (25), centro dei Toronto Raptors. Era la prima medaglia nella storia dei Mondiali per la Nazionale francese, che poteva vantare solo il merito di essere stata la migliore squadra europea nelle prime, lontanissime, due edizioni degli anni ’50.

Ancora una volta assente l’Italia. Avrebbe potuto partecipare arrivando almeno settima agli Europei dell’anno prima in Slovenia: l’ottavo posto, dopo una esaltante fase di qualificazione, sembrò proprio un amaro scherzo del destino. Dal 2010 la Nazionale azzurra, esauritosi il ciclo di Recalcati, era stata affidata alla guida di Simone Pianigiani, impegnato in una lenta e difficile fase di risalita che comunque stava dando i suoi frutti. Per cui in quel Mondiale spagnolo furono ancora una volta gli arbitri Tonino Cerebuch e Luigi Lamonica a sostenere il simbolo del tricolore.

 

 

 

 

Nunzio Spina

 

 

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