L’ascesa della nazionale di Bogdan Tanjevic… Kevin Durant dominante per gli Usa… Italia nel periodo più buio… Tante sorprese e assenze…
C’era un tabù da sfatare. La Nazionale del paese organizzatore di un Mondiale non riusciva più a salire sul podio, per quanto fosse favorita dai pronostici e dal sostegno dei propri tifosi. Accadeva così da quarant’anni, da quando nel ’70, a Lubiana, era stata la Jugoslavia a piazzarsi sul gradino più alto. Di questa strana coincidenza era stata vittima persino la rappresentativa statunitense, che nel 2002, a Indianapolis, pensava di potere stravincere con la sua formazione piena di stelle NBA, per ritrovarsi invece miseramente confinata al sesto posto, il peggiore di sempre.
In Turchia fecero tutti i debiti scongiuri. La passione cestistica manifestatasi negli ultimi anni era divampata grazie soprattutto all’ascesa della Nazionale, che dopo aver vinto la medaglia d’argento europea nel 2001 si era trasformata da cenerentola in temibile concorrente. E il sesto posto ottenuto nel precedente Mondiale in Giappone, miglior piazzamento nelle manifestazioni intercontinentali, ne era la conferma. Vedere alla fine sventolare sul podio la bandiera rossa con falce di luna e stella, proprio là in casa, era quindi un sogno da coltivare, a dispetto delle statistiche.
Lo sforzo economico profuso dal paese fu enorme. Anche perché l’esperimento dell’allargamento a 24 squadre, stavolta, ebbe un immediato seguito. Quattro importanti città, con rispettivi impianti e pubblico da grandi palcoscenici, furono allertate per ospitare i quattro gironi di qualificazione: Kayseri, Istanbul, Ankara e Smirne. A Istanbul venne disputata anche tutta la fase successiva a eliminazione diretta, con le prime quattro di ogni girone a scontrarsi tra loro a partire dagli ottavi di finale. In questa metropoli da 15 milioni di abitanti, oltre all’Abdi Ipeckci Arena (che aveva fatto da cornice all’argento europeo), venne messo a disposizione il più maestoso Sinan Erdem Dome, inaugurato pochi mesi prima.
Diciamo subito che per la Turchia ne valse la pena. Al successo organizzativo si aggiunse quello sul campo, con la Nazionale di casa approdata addirittura alla finalissima per l’oro, persa poi contro il colosso (stavolta davvero colosso!) USA. Per la squadra guidata dal “nostro” Bogdan Tanjevic, l’argento era già un traguardo prestigioso. Giocatori di livello NBA ve n’erano diversi (le ali Turkoglu e Ilyasova venivano da Toronto e Milwaukee, i pivot Asik e Erden erano attesi a Chicago e Boston); ma forse senza la spinta del “12 Dev Adam” (12 giganti), il famoso inno pop dei tifosi di casa, non ci sarebbe stata la spinta decisiva.
L’exploit turco, tuttavia, non oscurò minimamente la scena della grande protagonista di questa edizione del Mondiale: la squadra statunitense. Alla quale riuscì quello che avrebbe voluto fare a Indianapolis e a Saitama, cioè dominare. Nove partite vinte su nove; un solo tentennamento col Brasile (battuto solo di due), per il resto scarti netti inflitti a tutti gli avversari, compresa la Lituania in semifinale (89 a 74) e la sorprendente Turchia in finale (81 a 64). Era anche questa una squadra di prof NBA, ma non di stelle già scintillanti, piuttosto di giovani promettenti (media età 22 anni), tutti affamati di gloria, disposti al gioco di squadra e al sacrificio: praticamente, gli ingredienti che erano mancati in passato, e che stavolta – grazie soprattutto alla manodopera di coach Mike Krzyewski – si rivelarono vincenti. Quarto titolo USA; la rincorsa alla Jugoslavia, o a quel che ne era rimasto, era ripartita.
Parlando di protagonista, potremmo anche restringere l’etichetta a un solo giocatore: Kevin Durant. Aveva ancora 21 anni, veniva da Oklahoma City, dove nella stagione appena trascorsa si era affermato come il più giovane miglior marcatore nella storia NBA, alla media di 30,1. In Turchia risultò il terzo in questa speciale classifica, ma il suo score di percentuale nel tiro, di rimbalzi, di palle recuperate, di assist – partita dopo partita – gli fece guadagnare, all’unanimità, la palma di MVP del torneo. Fu decisamente una spanna al di sopra dei suoi compagni di squadra, che pure erano destinati a un futuro altrettanto prestigioso, come Stephen Curry, Derrick Rose, Russel Westbrook, Kevin Love, tanto per fare qualche nome.
Allo strapotere degli Stati Uniti, l’Europa rispose come meglio non poteva. Nove delle dieci sue rappresentative si qualificarono alla fase ad eliminazione diretta, sei arrivarono ai quarti. Chissà, poteva esserci un po’ di gloria anche per la Nazionale italiana, ma i tempi che stava attraversando erano forse i più bui della propria storia. Mancata la qualificazione alle Olimpiadi di Pechino 2008, era sfumata anche quella agli Europei del 2009 in Polonia, evento che non si era mai verificato. In queste condizioni, neanche una wild card (o invito omaggio che dir si voglia) avrebbe potuto aprire le porte del Mondiale in Turchia. Nel frattempo, la squadra era stata affidata al senese “pluriscudettato” Simone Pianigiani, che praticamente cominciava proprio in quell’estate il suo paziente lavoro di risalita. E dire che ci sarebbe stata la possibilità di schierare finalmente un giocatore NBA, anzi tre, Bargnani, Gallinari e Belinelli.
In compenso, il basket italiano mise in campo due arbitri di valore: il triestino Guerrino Cerebuch (al suo secondo Mondiale consecutivo) e il pescarese Luigi Lamonica (già presente alle Olimpiadi di Pechino 2008), che ebbe l’onore di essere selezionato nella terna della finale tra USA e Turchia.
Nel festival delle europee, a emergere fu, oltre alla Turchia, anche la Lituania. Era priva di diversi titolari, ma aveva già pronta un’altra generazione di fuoriclasse, tra cui l’ala Pocius, che assieme al già noto Kleiza (inserito nel miglior quintetto) trascinò la squadra alla prima medaglia “mondiale”, dopo aver battuto nella finale per il bronzo l’altrettanto rinnovata Serbia (da cui si era staccato anche il Montenegro).
L’equilibrio e i colpi di scena che caratterizzarono questa edizione, rendendola probabilmente più interessante, furono anche condizionati dalle numerose assenze di rilievo (per rinunce o infortuni), tutte targate NBA. All’Argentina mancavano Ginobili e Nocioni, eroi delle tre medaglie raccolte in recenti Mondiali e Olimpiadi; cercò di supplire l’ala degli Houston Rockets Luis Scola, ma non gli bastò il titolo di miglior marcatore per evitare un quinto posto che sapeva d’amaro. Il forfait di Pau Gasol relegava i campioni uscenti della Spagna al sesto posto, quello di Kirilenko al settimo della Russia (ormai in declino). Se poi la Francia doveva fare a meno di Tony Parker e la Germania di Dirk Nowitski, non c’era da meravigliarsi se la prima non andava oltre gli ottavi (bastonata dalla Turchia) e la seconda non superava neanche la prima fase (sconfitta persino dall’Angola).
In fondo, nel processo di globalizzazione che aveva coinvolto anche il basket non ci si doveva meravigliare più di niente, neppure che la Giordania o la Costa d’Avorio (debuttanti) perdessero rispettivamente di uno con l’Australia e di sei con la Russia!
Nunzio Spina
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