Un’edizione allargata… Usa con tanto da dimostrare… Il colpaccio tentato dall’Italia… Le mille qualità della Spagna…
Il Giappone aprì l’era moderna della Coppa del Mondo, quella delle 24 squadre partecipanti. Un allargamento voluto dalla FIBA, che aveva una giustificazione ufficiale (“l’aumento del livello del basket in tutto il mondo e il numero crescente di squadre competitive a più alto livello”) e probabilmente anche una non dichiarata, ma più influente, riguardante il maggior interesse di sponsor e mass media. Fatto è che, se l’analogo esperimento provato in Spagna nel 1986 era decisamente fallito senza avere un seguito, stavolta la novità introdotta (piacesse o no) era destinata a durare.
La disfatta degli Stati Uniti a Indianapolis 2002 e il loro insuccesso alle Olimpiadi di Atene 2004 (solo bronzo, alle spalle dell’Italia) avevano sicuramente contribuito a ridisegnare una nuova geografia cestistica, dove di volta in volta si affacciavano in vetrina rappresentative dapprima relegate a un ruolo di secondo piano; tra l’altro, un po’ tutte cominciavano ad avere una o più stelle NBA nelle loro file (in quel Mondiale giapponese, se ne contarono ben 32).
Coppa del Mondo allargata, quindi, e più che mai incerta nei pronostici. Anche perché, se a prima vista la nuova formula dava a tutti maggiori possibilità di competere, in realtà si mostrava, a un certo punto, più selettiva del passato. Quattro gironi da sei (nelle città di Sendai, Hiroshima, Hamamatsu e Sapporo), erano poi le prime quattro a qualificarsi, ma andavano direttamente a una fase a eliminazione diretta (a Saitama), partendo stavolta dagli ottavi di finale; un barrage in cui chiunque poteva restare imbrigliato, magari con una distrazione solo in quella partita.
Questa amara esperienza, purtroppo, toccò anche all’Italia. Si ripresentava a un Mondiale con le credenziali del bronzo agli Europei di Stoccolma 2003 e del clamoroso argento olimpico ad Atene 2004, medaglie con cui si era iniziato il nuovo ciclo di Carlo Recalcati. In Giappone, però, ci volle un invito personale degli organizzatori, perché ai più recenti Europei di Belgrado 2005 la Nazionale azzurra non era entrata nei primi otto (anche allora per uno stop al primo barrage). Le quotazioni si ribassarono ulteriormente alla vigilia, per la forzata rinuncia a vari titolari (Pozzecco, Bulleri, Galanda, Righetti, Calabria), oltre al neo-NBA Andrea Bargnani, costringendo così il coach a inventarsi una formazione quasi sperimentale.
Inserita nel girone di Sapporo, fu tuttavia proprio l’Italia una delle sorprese più belle della prima parte del torneo. Recalcati si era affidato a un gioco molto fisico, alternando in campo tutti e dodici a sua disposizione, debuttanti compresi. Anzi, furono proprio questi, i play Mordente e Di Bella, l’ala Michelori, il centro Mason Rocca e, soprattutto, l’ancora ventenne Marco Belinelli, a destare maggiore impressione per l’impegno e la bravura dimostrati. Tre vittorie per cominciare, e tutt’altro che facili: 84 a 69 sulla Cina del gigante Yao Ming; 80 a 76 sulla Slovenia degli “italiani” Jurak (Cantù), Becirovic (Fortitudo Bologna), Milic (Virtus Bologna), Slokar (Treviso); 64 a 56 sul Senegal del 2 e 13 NBA Mamadou N’Diaye.
Stava per scapparci anche la clamorosa affermazione sugli Stati Uniti di Carmelo Anthony, LeBron James, Chris Paul, Dwyane Wade e Dwight Howard; 25 punti di Belinelli (un messaggio alla NBA che sarebbe stato presto recepito) e avversari costretti a tirar fuori tutte le loro potenzialità per avere ragione alla fine: 94 a 85. Esaltati, più che abbattuti, da quella onorevole sconfitta, gli azzurri chiudevano il girone con un altro emozionante successo (73 a 72) sul Portorico della coppia di cecchini Ayuso-Arroyo. Tutti mettevano il loro mattone: oltre quelli citati, anche Soragna, Marconato, Basile, Pecile, Garri, Mancinelli, Gigli.
A spegnere gli entusiasmi sarebbe arrivato il barrage di Saitama, la città che con la sua Super Arena da 21.000 posti ospitò tutta la fase finale a eliminazione diretta, dando così la propria intestazione a quel Mondiale. Toccava affrontare la Lituania, fu uno scontro tesissimo e pieno di errori da entrambe le parti; l’Italia sbagliò di più, e soprattutto nei momenti decisivi, perdendo di tre (71 a 68), e accontentandosi così di una misera nona piazza in coabitazione con altre sette squadre (perché da quella edizione si decise di non far più disputare partite per definire i piazzamenti oltre l’ottavo).
Dopo il recente oro olimpico, ci si aspettava il bis dell’Argentina del fuoriclasse Manu Ginobili (per la seconda volta consecutiva inserito nel miglior quintetto), e invece la formazione albiceleste restò fuori dal podio, battuta nella finale per il bronzo dagli Stati Uniti. Ne uscirono entrambe deluse, alla fine, ed entrambe con la rabbia giusta per inseguire un pronto riscatto.
Si tornava così a una finalissima tutta europea per il titolo. Ma erano finiti i tempi degli scontri URSS-Jugoslavia, e anche quelli più recenti tra Russia e Serbia-Montenegro (la prima non era neanche presente, la seconda restò anche lei bloccata dal barrage, dopo essere stata sconfitta addirittura dalla Nigeria). Le nuove contendenti erano Spagna e Grecia, che ottenevano così la loro prima medaglia in un Mondiale. Quella d’oro se l’aggiudicò la Spagna, che con un imbarazzante 70 a 45 rifilato agli avversari completava il suo filotto di tutte vittorie. Nell’incertezza dei pronostici, nessuno aveva ipotizzato un esito del genere.
C’erano tutti e due i fratelli Gasol, Paul e Marc, nella squadra iberica, ma il divario tra i due era ancora enorme. Paul era già un affermato pivot nella NBA, e a Saitama risultò l’indiscusso MVP del torneo, oltre che il terzo miglior marcatore, nonostante fosse assente proprio nella partita conclusiva. Il che contribuiva a riconoscere anche i meriti del resto della squadra, dove era intanto maturata la generazione dei Navarro, dei Fernandez, dei Calderon, guardie dalla sopraffina tecnica di palleggio e di tiro.
Tutto sommato anche la Grecia, che era reduce dal suo secondo oro europeo, avrebbe potuto stupire il mondo, se non avesse deciso di spegnere la luce proprio nella partita con la Spagna; soprattutto quella del play Vasilis Spanoulis, che aveva stampato 22 punti in faccia agli USA (nella semifinale vinta 101 a 95) e aveva già un biglietto pronto per Houston, chiamato dai Rockets.
Tra le squadre emergenti del continente europeo, si fece notare la Turchia, che riuscì a superare gli ottavi battendo la Slovenia, e conquistò poi un onorevole sesto posto dopo aver sconfitto per la seconda volta la Lituania. La squadra sembrava avere la grinta del suo allenatore, quella vecchia volpe di Bogdan Tanjevic. Fu il miglior biglietto da visita per la successiva edizione del Mondiale che si sarebbe disputata proprio in Turchia.
Nunzio Spina
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