L’istinto del killer… «Una delle esperienze più belle»… Festival del basket internazionale… Conferma delle potenzialità… Bene dentro e fuori dal campo…
Roberto Premier è nato a Spresiano, in provincia di Treviso, il 25 gennaio 1958. Prodotto del minibasket, ha militato fino a 19 anni in varie squadre del capoluogo; poi tre stagioni a Gorizia, nella Pagnossin, alla corte di Jim McGregor, con promozione dalla A2 alla A1. L’allenatore subentrante, Mario De Sisti (dal quale per pochi mesi era stato allenato a Treviso), lo avrebbe volentieri trattenuto in Friuli, ma alla chiamata da Milano non si poteva rinunciare. Dal 1981, così, cominciarono le otto stagioni d’oro con la maglia dell’Olimpia (sei con Dan Peterson, due con Casalini): un bottino di cinque scudetti, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Korac. Quest’ultimo trofeo è stato vinto anche nella successiva parentesi romana, con la Virtus. Carriera protrattasi fino a oltre 40 anni, tra Gorizia, Modena, Vigevano, Padova e Pavia. Guardia di 1 e 97, potente e grintosa, colpiva le difese avversarie soprattutto col suo tiro da fuori (da 2 e poi anche da 3), eseguito con estrema naturalezza, e spesso anche con l’istinto del killer incurante del rischio. Fu Sandro Gamba a volerlo in Nazionale, inserendolo nella formazione per le Olimpiadi di Los Angeles ’84; a cui fecero seguito gli Europei di Stoccarda ’85, i Mondiali in Spagna ’86 (qui confermato da Valerio Bianchini) e infine, dopo un lungo intervallo, gli Europei di Roma ’91, richiamato da Gamba. Intrapresa e presto abbandonata la carriera di allenatore, attualmente Premier vive a Gorizia, dove tra l’altro gestisce un Bed & Breakfast, dal nome quanto mai invitante: “Ai confini dell’impero”.
«Spagna ’86 è stata una delle esperienze più belle della mia carriera in Nazionale; dopo le Olimpiadi di Los Angeles e gli Europei di Stoccarda (un quinto posto e una medaglia di bronzo), arrivava per me il terzo appuntamento importante in tre anni, cioè i Mondiali, e posso dire di avere avuto la fortuna di partecipare a una edizione memorabile… Fu un vero e proprio festival del basket internazionale, con ben 24 squadre, comprese ovviamente tutte le più forti del mondo, e anche le meno forti, che però nel frattempo erano cresciute e cominciavano a rendere la concorrenza sempre più dura… Un campionato esaltante, riuscitissimo, anche per l’impeccabile organizzazione della Spagna, un paese che aveva sempre vissuto per lo sport, e negli ultimi tempi soprattutto per il basket…».
«Io ero tra i tanti giocatori che coach Valerio Bianchini aveva riconfermato al suo debutto sulla panchina della Nazionale, raccogliendo l’eredità di Gamba. Avevano sicuramente visioni diverse del basket, ma credo che Bianchini quella volta ebbe l’intelligenza di non fare subito stravolgimenti, quanto meno di uomini, e in un certo senso volle andare sul sicuro: era una formazione collaudata, aveva raccolto successi, poteva ancora dire la sua… Il sesto posto finale, a mio parere, va visto come una conferma di quei valori; è comprensibile che giornalisti e tifosi, specie a quei tempi, pretendessero di più, ma al massimo avremmo potuto evitare la sconfitta con la Spagna nella partita conclusiva, e così arrivare quinti; per le semifinali e per il podio, invece, ci sarebbe voluto un miracolo…».
«A rileggere le formazioni dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, c’è da perdersi tra i nomi di tanti campioni, praticamente bisognerebbe citare tutti i giocatori… Noi abbiamo avuto a che fare solo con la Jugoslavia, ma in compenso in quel Mondiale in Spagna ci è toccato affrontare una Nazionale USA molto forte, che non a caso ha rivinto l’oro dopo non so quante edizioni… Era forse una delle ultime rappresentative universitarie, prima che entrassero in scena i professionisti, ma con giocatori tutti di talento e di sicuro avvenire; oltre al centro Robinson, chiamato l’ammiraglio, e al play-nano Bogues, ricordo anche le guardie Steve Kerr, attuale allenatore dei Warriors, e Brian Shaw, che qualche anno dopo mi sarei ritrovato come compagno di squadra a Roma, dopo che lui aveva rifiutato le offerte economiche dei Boston Celtics…».
«Mi sono divertito tantissimo in quel Mondiale. In campo ho cercato come al solito di impegnarmi al massimo e di dare il mio contributo (18 contro Portorico, 16 con la Spagna, 10 con la Jugoslavia, n.d.r.); ma anche i momenti vissuti fuori dal campo mi sono rimasti impressi… La nuova formula in tre fasi ci ha permesso di spostarci in lungo e in largo per la Spagna, e di soggiornare in tre posti bellissimi: prima a Malaga (alloggiavamo in un albergo a Torremolinos, rinomato centro balneare); poi a Oviedo, dalla parte opposta della penisola; infine nella capitale Madrid. Qui, per la verità, ci siamo dovuti congedare affrontando la squadra e il pubblico di casa, facendo un po’ la fine delle vittime sacrificali… Da parte nostra è stata forse l’unica partita non affrontata con la mentalità giusta; però vi eravamo arrivati vincendo sette partite e perdendo solo con Stati Uniti e Jugoslavia…».
a cura di
Nunzio Spina
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