Mondiali di basket: Manila 1978
Italia, bronzo sfuggito dalle mani

Il diritto acquisito delle Filippine… Nuova formula, rischiosa?… Il campionario dei tiri all’ultimo secondo contro l’Italia… Una finale tirata…

Giancarlo Primo intervistato da Aldo Giordani al Mondiale di Manila ’78; per il C.T. azzurro, un altro quarto posto nella manifestazione intercontinentale (da “Giganti del Basket, n° 10, 1978”).

La prima volta di un Mondiale in Asia non poteva che capitare nelle Filippine. Quasi un diritto acquisito, per precedenti storici e per tradizione. Nel ’62 avrebbe dovuto disputarsi in quell’arcipelago del Pacifico la quarta edizione del torneo intercontinentale, ma pressioni e intrighi politici avevano all’ultimo momento portato a un dirottamento in Brasile e a un conseguente slittamento all’anno successivo; il risarcimento prima o poi doveva arrivare. Quanto alla tradizione, era quella di uno stato che, per piccolo che fosse, aveva nel basket la sua massima passione sportiva; un canestro a ogni angolo di strada, un po’ come la maestra USA o la sua discepola europea Jugoslavia.

L’affollata area metropolitana della capitale Manila ospitò, nella prima metà di ottobre del ’78, l’intera manifestazione; due soli gli impianti, il Rizal Memorial Coliseum e il più capiente Araneta Colisem (25.000 posti). Nel girone finale a otto, qualificate di diritto l’URSS campione uscente e le Filippine, che oltre al privilegio del paese organizzatore poteva rivendicare anche il merito di essere stata l’unica rappresentate asiatica a essere salita sul podio mondiale, nell’ormai lontana edizione del ’54. Gli altri sei posti erano riservati alle prime due dei tre gironi di qualificazione, e fin qui nulla di nuovo nella formula. Una piccola ma importante novità fu quella di far disputare due finali-spareggio: tra prima e seconda per la medaglia d’oro, tra terza e quarta per quella di bronzo.

La guardia Lorenzo Carraro è stato uno dei più positivi della squadra, secondo miglior marcatore dopo Bariviera (da “Giganti del Basket, n° 10, 1978”)

L’Italia, guarda caso, si ritrovò subito coinvolta in questa innovazione. Tornava di scena in un Mondiale dopo essere stata assente nella edizione precedente di San Juan, senza avere ancora dimenticato il bel quarto posto di Lubiana ’70, nobilitato dalla prima, storica, vittoria sugli Stati Uniti. Il quarto posto, alla fine, venne raggiunto anche a Manila, ma ci furono di mezzo una finale (quella appunto, inedita, per la medaglia di bronzo) e tante recriminazioni. Il podio non era mai stato – e non sarebbe mai più stato – così vicino per gli azzurri. Stavolta prevalsero rabbia e delusione, oltre a una lunga coda di polemiche.

Con Giancarlo Primo saldamente in panchina da un decennio, la Nazionale era rimasta sempre nei primi cinque posti della graduatoria nelle varie manifestazioni alle quali aveva preso parte. Il bronzo europeo di Essen ’71 e Belgrado ’75 non erano bastati a saziare tifosi e giornalisti. Pesavano di più le occasioni mancate per conquistare una medaglia: dal bronzo olimpico di Monaco ’72 e di Montreal ’76 a quello europeo di Liegi ’77, tutte per un maledetto canestro incassato all’ultimo secondo, per mano, rispettivamente, di Cuba, Jugoslavia e Cecoslovacchia. Insomma, bastava poco per ottenere di più, e sembrava lecito pretenderlo.

Italia-Brasile. Gianni Bertolotti in entrata a canestro, contrastato da Oscar e da Marquinhos (che aveva disputato due stagioni a Genova, in A2 e in A1) (da “Giganti del Basket, n° 10, 1978”).

In otto anni, da Lubiana a Manila, tanti volti nuovi si erano alternati nella formazione azzurra. Bariviera, Meneghin e Marzorati costituivano lo zoccolo duro, attorno a cui adesso ruotavano i play Caglieris e il ripescato Iellini, le guardie Carraro e Bertolotti, le ali Della Fiori, Bonamico, Villalta e Ferracini, il centro Vecchiato. E pur restando fedele al suo dogma difensivo, Primo aveva cercato anche di affinare qualche arma offensiva, specie quella del contropiede. L’Italia non l’aveva guadagnata sul campo la partecipazione a quel Mondiale (fu la federazione filippina ad invitarla), eppure partiva nel gruppo delle favorite, quanto meno per la qualificazione al girone finale.

C’era il Brasile degli inossidabili Ubiratan e Helio Rubens (e di giovani rampanti che vedremo più avanti) sulla strada della nostra Nazionale. Una maledizione! La sconfitta con i cariocas per soli 4 punti (84 a 88), nel girone eliminatorio, era stata compensata dalla iniziale vittoria su Portorico (93 a 80, con i canestri di Renzo Bariviera) e poi subito metabolizzata da quella sulla debuttante Cina (125 a 93, ridicolizzando i 2 metri e 28 del gigante Mu Tiezhu). Qualificazione centrata. Quella che ancora oggi non si riesce a mandare giù, invece, fu la seconda sconfitta col Brasile, nella finale-spareggio per la medaglia di bronzo. Sembrava fatta con un canestro allo scadere di Marco Bonamico (85 a 84), ma gli ultimi tre secondi – mentre gli azzurri già esultavano – furono sufficienti a Marcel De Souza per scagliare da quasi metà campo il tiro della disperazione, che risultò vincente. All’elenco delle beffe, evidentemente, mancava ancora quella più cocente!

Due fotogrammi degli ultimi istanti di Italia-Brasile, finale per il bronzo: qui i giocatori azzurri già esultano in panchina, sicuri della vittoria, quasi tenuti a bada da Primo… (da “Giganti del Basket, n° 10, 1978”).

Marcel era uno di quei giovani rampanti che il Brasile metteva in vetrina; l’altro si chiamava Oscar Schmidt, che cominciò praticamente da allora la sua lunga carriera di cecchino – risultò il secondo capocannoniere del torneo – culminata col record mondiale assoluto di punti, ancora da lui detenuto. Li avremmo rivisti entrambi nel campionato italiano, senza mai sinceramente “perdonarli”: quattro le stagioni disputate da Marcel (tra Caserta e Fabriano), ben undici – con una valanga di canestri – quelle di Oscar (tra Caserta e Pavia).

La delusione finale oscurò alquanto tutto ciò che di buono la Nazionale azzurra aveva fatto nel girone a otto. Ancora una clamorosa affermazione sugli Stati Uniti, (seppur di misura, 81 a 80), seguite da quelle più nette su Australia (87 a 69), Filippine (112 a 75) e Canada (100 a 83). Nel mezzo, le inevitabili sconfitte con Jugoslavia e URSS, che non a caso si ritrovarono a disputarsi la finale per la medaglia d’oro. L’Italia aveva messo in mostra, a turno, le capacità realizzative di vari giocatori, da Bariviera a Meneghin, da Marzorati a Carraro, da Bertolotti a Della Fiori. Ma non era servito a fare quel passettino in avanti che tutti si aspettavano.

…e qui l’incredulità di Bonamico, autore del canestro che aveva procurato l’illusione (da “Giganti del Basket, n° 10, 1978”).

La Jugoslavia di Asa Nikolic fu un rullo compressore. Arrivò alla finale dopo un filotto di nove vittorie, quasi tutte sopra il tetto dei cento punti; a sospingerla, i soliti Cosic, Kicanovic e Dalipagic (quest’ultimo miglior marcatore del girone finale) e l’emergente Radovanovic. Ne aveva dati cento (105 a 92) anche all’URSS del veterano Sergej Belov e del pivottone Tkatchenko, ma quando se la ritrovò in finale fu tutta un’altra storia. Vinse solo dopo un tempo supplementare, e col minimo scarto, 82 a 81; la nuova formula stava per confezionare davvero un brutto scherzo!

Il titolo continuava a passare dalle mani dell’Unione Sovietica a quelle della Jugoslavia e viceversa. Adesso il conto era pari: due a due. Bronzo (ahinoi) al Brasile, sul podio in sei edizioni su otto. Quinti, alle spalle dell’Italia, gli Stati Uniti, rappresentati stavolta (non c’era altro a disposizione nel mese di ottobre, in piena stagione agonistica) da una squadretta di predicatori, gli “Athlets in Actions”, che anzi se la cavarono niente male. Tre di loro, Ernest Wansley, Irvin Kiffin e Wayne Smith avrebbero calcato i nostri parquet (rispettivamente a Torino, Rieti e Cantù).

 

Nunzio Spina

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