Jugoslavia vincitrice predestinata… Nuova era in azzurro: Primo e una Nazionale giovane… Senza paura contro i grandi… La prima vittoria sugli Usa…
La prima novità fu un ritorno al passato. Restringendo l’intervallo dalla precedente edizione, il Mondiale si rimise nella carreggiata degli anni pari, con la scadenza quadriennale alternata a quella delle Olimpiadi. Stavolta confermati sede e periodo che erano stati decisi da tempo; quasi un evento, visti gli spostamenti e i rinvii delle recenti esperienze.
Maggio 1970. Non poteva passare inosservato – e quindi non poteva palesare indecisioni – il debutto di un paese europeo ospitante, dopo le prime cinque puntate “girate” in Sudamerica. Tanto più se si trattava della Jugoslavia, dove lo sport (e il basket in particolare) era ormai considerato una risorsa sociale, da coltivare e da esibire agli occhi del mondo. Per cui il primo obiettivo era quello di mostrare capacità organizzative; il secondo, ma solo perché successivo in ordine di tempo, quello di vincere!
Pretese legittime. La Jugoslavia era pronta a esplodere da un momento all’altro. Seconda negli ultimi due Mondiali (Rio ’63 e Montevideo ’67), seconda alle Olimpiadi del ’68 e agli Europei del ’69, aspettava solo un momento favorevole come questo – giocare ed esaltarsi davanti al proprio pubblico – per raggiungere finalmente il più alto gradino del podio. Impresa poi riuscita, sotto gli occhi compiaciuti del Maresciallo Tito, suo presidente, che di quella cultura sportiva era il massimo fautore.
La capitale serba Belgrado era stata già gratificata con gli Europei del ’61; stavolta si cercò di coinvolgere buona parte degli altri stati confederati, con i tre gironi di qualificazione di scena a Sarajevo (Bosnia), Spalato e Karlovac (Croazia), il girone finale a Lubiana (Slovenia), quello di consolazione a Skopje (Macedonia). Dodici squadre partecipanti, quattro per girone; le prime due nel round finale a sette, con posto riservato alla formazione di casa. Quanto alla formula, tutto vecchio. Piuttosto qualche new entry: come Cuba, Panama, Corea del Sud, Australia (per la prima volta rappresentata l’Oceania). L’Egitto, sotto le mentite spoglie della Repubblica Araba Unita, portava la bandiera dell’Africa.
L’Italia era presente per la terza volta consecutiva. Ma era finita un’era, quella di Nello Paratore, e ne era cominciata un’altra, quella del suo vice Giancarlo Primo, che si sarebbe rivelata altrettanto lunga e con qualche alloro in più. Dopo Città del Messico, il rinnovamento e il ringiovanimento dei ranghi era stato rilevante, e la squadra era ancora in fase di maturazione, dopo la prima – non felicissima – apparizione agli Europei di Napoli del ’69 (sesto posto e tante recriminazioni).
Con queste premesse, nessuno forse si sarebbe aspettato l’exploit che la Nazionale azzurra fu in grado di compiere, riuscendo a battere per la prima volta nella storia una rappresentativa statunitense e ottenendo alla fine un sorprendente quarto posto, risultato che, nella stessa competizione, sarebbe stato solo eguagliato (ancora con Primo in panchina). Anzi, per come andarono le cose, c’è ancora il rammarico, a distanza di anni, di aver perso sicuramente l’occasione più propizia per guadagnare quella che sarebbe rimasta l’unica medaglia “mondiale”.
Il più anziano tra gli azzurri aveva trent’anni, ed era stato ripescato da Primo dopo essere stato anche lui vittima del repulisti generale: si trattava di Ottorino Flaborea, soprannominato Flabo dai compagni e Capitan Uncino dai tifosi (per ovvie caratteristiche di tiro a canestro), e della sua esperienza non si poteva fare ancora a meno. Il più giovane, vent’anni, era Dino Meneghin, che Paratore aveva lanciato in qualche amichevole, ma lo aveva voluto proteggere (si diceva) da un esordio troppo precoce, mentre lui già scalpitava e mostrava i muscoli. In mezzo tutti gli altri, quasi tutti dai venticinque in giù, compresi Masini (che c’era a Rio ’63), Cosmelli e Recalcati (unici reduci di Monteviodeo ’67); con loro Marino Zanatta, Renzo Bariviera, Ivan Bisson e gli esordienti Dodo Rusconi, Eligio De Rossi, Antonio Errico, Giorgio Giomo (fratello minore di Augusto che aveva giocato a Rio).
Avevano tutti una voglia matta di lottare, soprattutto in difesa (come piaceva a Primo), e di mostrare il loro coraggio. Iniziarono con questo spirito, lo portarono avanti fino all’ultima partita. Il girone di Spalato, con Brasile, Canada e Corea del Sud, lasciava la porta aperta a qualche speranza. Debutto da ruggito con i cariocas: due tempi supplementari e sconfitta di un solo punto (94 a 93). Dall’altra parte c’erano giocatori del calibro di Wlamir, Ubiratan, Rosa Branca, il diciottenne 2 e 09 Marquinhos (poi in Italia, a Genova e Bologna). Nessun timore da parte di Masini, Meneghin, Bariviera, Recalcati e Cosmelli. Se mai, qualche esitazione nelle altre due partite, comunque poi vinte nettamente, contro Canada (qui l’esperienza di Flabo, 29 punti) e Corea.
Trasferimento alla “Tivoli Hall” di Lubiana per il girone finale, e subito la Jugoslavia di fronte. Problemi per loro, che scendevano in campo per la prima volta e che non si aspettavano un’Italia così agguerrita. Vinsero solo di 3, grazie soprattutto all’imprendibile Cosic (27 punti), mentre Recalcati ci provò anche lui a fare lo…slavo (22 punti). Dopo la sconfitta bis col Brasile, due successi incoraggianti per gli azzurri, con Cecoslovacchia (+12) e con Uruguay (+11). Ma il capolavoro arrivò con gli Stati Uniti, dove giocavano gli “italiani” Joe Isaac (All’Onestà Milano) e Jim Williams (Fides Napoli), Bob Wolf (ex Simmenthal di Coppa) e altri giovani di belle speranze (l’ancora diciassettenne Bill Walton tra questi); partita punto a punto, fino a quando uno storico gancio di Bariviera regalò il primo successo sugli USA (66 a 64). Tutti in campo a esultare, giocatori, dirigenti, giornalisti, tifosi!
Per parlare di trionfo ci si poteva fermare qui, eppure stava per scapparci anche la prodezza contro l’Unione Sovietica di Sergej Belov e Zarmuhamedov: sconfitta di soli 4 punti alla fine (62 a 58, con Masini e Meneghin ancora sugli scudi).
Primo oro alla Jugoslavia, come detto; argento al Brasile (sempre sul podio da cinque edizioni), bronzo all’URSS, che all’ultima giornata si prendeva lo sfizio di battere in casa loro gli slavi, ma quando ormai i giochi erano fatti. La nostra Nazionale, quarta, spingeva al quinto posto gli USA, mai così indietro.
Per la prima volta un sovietico MVP del torneo, la guardia tiratrice Sergej Belov, che assieme al compagno Paulauskas, a Cosic, a Ubiratan e allo statunitense Washington andava a comporre la rosa del miglior quintetto. Anche qui l’Italia vicinissima al podio, con Dino Meneghin eletto miglior secondo centro dopo Cosic.
Nunzio Spina
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