Il muro di Cantù e il libero alla Korac… La soddisfazione di giocare con i migliori… Gli infortuni… L’amicizia con Raga… Il viaggio apripista per il futuro…
Alberto Merlati è nato a Cuneo, il 4 luglio del 1943. Ha debuttato in Nazionale a Napoli, maggio del ’67, nella amichevole Italia-Polonia. In quell’anno sono concentrate le sue presenze in azzurro: Mondiali in Uruguay, Giochi del Mediterraneo a Tunisi, Europei a Helsinki. Da quest’ultima manifestazione ne uscì anticipatamente col naso rotto (per una gomitata di un giocatore bulgaro). Un altro infortunio (frattura a una caviglia) gli impedì all’ultimo momento di partecipare alle olimpiadi di Città del Messico. Pivot di 2 e 04, vecchio stampo, di quelli che andavano sempre alla ricerca del tiro da sotto, magari in avvitamento. Caratteristico il suo tiro libero, alla “Korac”, cioè a due mani dal basso (sosteneva, e sostiene ancora adesso, che secondo un principio di fisica è la maniera più conveniente per centrare il canestro!). Quanto alla difesa, basti dire che era uno dei tre componenti (assieme all’argentino Alberto De Simone e allo statunitense Bob Burgess) del famoso “muro di Cantù”, retrovia insuperabile di tre lunghi, che l’allenatore Stankovic sperimentò con successo con l’Oransoda, vincitrice del primo scudetto della squadra brianzola, nella stagione ’67-’68. Merlati ha poi giocato a Venezia e ad Asti, con la società che poi si è trasferita a Torino.
«Come faccio a dimenticare il Mondiale del ’67 in Uruguay? Si trattava della mia prima uscita importante con la maglia azzurra. Ero così emozionato che quando sentivo la voce dell’altoparlante negli aeroporti (prima a Rio de Janeiro, dove facemmo scalo, poi a Montevideo), mi sembrava quasi di essere nel bel mezzo di un sogno… Tale la contentezza che quando all’arrivo venni a sapere dello smarrimento della mia valigia, quasi ci risi sopra… Mi dissero poi che era andata a finire addirittura a Tokyo, e mi fu recapitata al penultimo giorno del torneo; fino allora mi dovetti arrangiare con indumenti presi in prestito dai compagni o magari comprati sul posto… Ma chi se ne fregava, l’importante per me era esserci e scendere in campo…».
«Le prime partite a Mercedes furono contro Stati Uniti, Jugoslavia e Messico: tre sconfitte, ma vuoi mettere la soddisfazione di giocarci contro? Ricordo che contro gli americani capitan Lombardi fece uno dei suoi slalom in attacco mandando a vuoto tutti gli avversari, e poi sotto canestro mi consegnò la palla per metterla dentro… Forse furono i miei primi due punti; tornando in difesa mi fece un buffetto e mi prese in giro dicendomi: “Difficile, vero?”…».
«Io volevo fare di tutto per ricambiare la fiducia che aveva riposto in me il prof. Paratore. Pensate che mi aveva convocato la prima volta per un raduno dopo avermi visto giocare in una insospettabile partita di campionato universitario a Napoli, tra CUS Milano e CUS Torino, dove giocavo io. Avevo segnato un bel po’, quella volta, e lui venne nello spogliatoio a parlarmi: mi trovò intento a fumare una sigaretta e mi fece una ramanzina per questo (proprio lui che era praticamente una ciminiera!); comunque mi disse di tenermi pronto… Una persona di grande intelligenza e bontà, Paratore, gli ho voluto un gran bene… Peccato che la mia avventura in azzurro con lui, per via degli infortuni, sia durata poco…»
«Tornando al Mondiale del ’67, ci siamo poi trasferiti a Cordoba, e là per fortuna è arrivata qualche vittoria che ci ha tirato su di morale… Anche perché c’erano tanti italiani che ci hanno accolto e ci hanno festeggiato in maniera davvero commovente; ricordo una festa organizzata in nostro onore, con una quantità e varietà di carne alla brace davvero esagerata…Potevamo chiudere in bellezza, se non ci fosse stato quel famoso canestro di Manuel Raga all’ultimo secondo… E dire che con Raga, che avevamo incontrato anche a Mercedes, avevo fatto amicizia; mi chiedeva continuamente informazioni dell’Italia, evidentemente pensava già che sarebbe venuto da noi, o forse questo era il suo desiderio…»
«Sapete come andò a finire per me quella trasferta in Sudamerica? Recuperata in extremis la mia valigia, decisi di non tornare con la squadra e di restare là per un po’: quattro giorni a Buenos Aires, una ventina in Brasile, suscitando l’invidia dei miei compagni, e anche di Paratore: “A saperlo prima, quasi quasi sarei rimasto anch’io” mi disse… Per me era un’occasione da non lasciarsi scappare, e devo ammettere che quella zingarata è stato in un certo senso il primo passo per la mia futura attività di imprenditore in quei paesi…»
a cura di
Nunzio Spina
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