Le celle frigorifere… Tanto equilibrio tra i migliori… USA ancora a sorpresa fuori dal podio… Una Nazionale italiana piena di esperimenti…
Sembrava che i Mondiali avessero preso fissa dimora in Sudamerica. Per la quinta edizione ci si ritrovò ancora là – appassionatamente – nella parte meridionale del Nuovo Mondo. Dopo Argentina, Brasile e Cile, fu la volta dell’Uruguay. Cestisticamente non proprio una potenza, ma erano bastate due medaglie di bronzo olimpiche negli anni cinquanta e discreti piazzamenti in tutte le altre competizioni per fare esplodere anche in questo piccolo stato latino l’amore per il basket, secondo solo a quello per il calcio (che per la verità era arrivato più in alto).
Successo di pubblico assicurato, anche se gli impianti non erano il massimo del comfort, e anche se c’era da sfidare l’inclemenza della stagione, come avvenne in quella circostanza. Si giocò tra la fine di maggio e i primi di giugno, quindi in vicinanza dell’inverno australe; per difendersi dalle temperature prossime allo zero si dovette fare ricorso persino a stufe e coperte. In particolare, il “Cilindro Municipal” di Montevideo, struttura di acciaio e cemento che ospitò il girone finale (originariamente adibita a locale fieristico), dava la sensazione di trovarsi più in una gigantesca cella frigorifera che in un’arena sportiva!
Il copione sudamericano aveva stavolta in serbo un finale inedito. Non più una rappresentante del proprio continente sul gradino più alto del podio (Argentina, Stati Uniti, due volte il Brasile, nei quattro tornei precedenti), ma finalmente una europea: l’Unione Sovietica, chi altri se no? La storia le era già debitrice di qualcosa, dopo che nel ’59, a Santiago del Cile, si era fatta togliere dalle mani – per una clamorosa rinuncia all’ultima partita – una medaglia d’oro che ormai le apparteneva. Fu praticamente l’inizio di una nuova epoca, perché da allora il vento del successo avrebbe soffiato per quattro edizioni al di qua dell’oceano.
Il riconfermato argento della Jugoslavia diede un’impronta decisa a questa nuova tendenza. Ma non si era trattato di un vero e proprio ribaltamento dei valori. Jugoslavia, Brasile e USA arrivarono alla fine a pari punti (quattro vittorie e due sconfitte a testa), e fu la differenza canestri negli scontri diretti a decretare le posizioni – così come citate nell’ordine – con gli statunitensi ancora una volta scalzati dal podio. Sul loro stato d’animo pesava anche la beffa di avere inflitto l’unica sconfitta (59 a 58) all’URSS campione, tanto per dire dell’equilibrio che ancora regnava lassù.
La formula era rimasta invariata. Tre gironi di qualificazione a quattro, le prime due alla fase finale, dove si aggiungeva direttamente la squadra di casa; che in questo caso, l’Uruguay, non riuscì a evitare il settimo posto (cioè l’ultimo), ma l’unica vittoria rimediata ebbe del clamoroso: 58 a 57 sulla Jugoslavia, al Cilindro Municipal ci pensò sicuramente il pubblico, quel 9 giugno, a scaldare l’ambiente!
La Nazionale italiana firmava la sua seconda presenza consecutiva; e stavolta se l’era proprio guadagnata sul campo, giungendo quarta agli Europei di Mosca di due anni prima. Era solo l’inizio di una stagione stipata di impegni: dopo i Mondiali in Uruguay, il ’67 aveva in calendario i Giochi del Mediterraneo in Tunisia e, quasi senza soluzione di continuità, gli Europei a Helsinki. Pane per i denti dell’infaticabile (e imperscrutabile) Paratore, che per scelta o per obbligo cambiava spesso formazione, puntando magari alle Olimpiadi di Città del Messico del ’68.
Rispetto ai Mondiali di Rio solo tre conferme: Lombardi, Bufalini, Pellanera; con loro, Cosmelli, Recalcati, Merlati, Bovone, Fattori, Fantin, Jessi, Villetti e Rundo, tutti esordienti o quasi. Entusiasmo tanto, pretesa nessuna! Anche perché, nel girone eliminatorio disputato nella cittadina di Mercedes, i primi due posti erano praticamente già occupati in partenza da Stati Uniti e Jugoslavia. Ben figurare contro questi giganti e vincere contro la terza avversaria, il Messico, era il massimo che si poteva chiedere alla prima fase del torneo; venne centrato il primo obiettivo (passivo finale di 11 e 9 punti rispettivamente, con coraggiose prestazioni di Lombardi, Pellanera e Bufalini), non il secondo (perché, svuotati di motivazioni, gli azzurri ne presero 18 dai messicani).
Le cose praticamente andarono all’opposto di Rio. Là due successi iniziali e qualificazione, poi solo sconfitte fino alla fine; qua subito eliminati, ma nel girone di consolazione (a Cordoba, in Argentina) arrivò una serie di nette e rigeneranti vittorie, con Paraguay (91 a 58), Giappone (74 a 57), Perù (68 a 46), Portorico (78 a 74); poi nuovamente battuti dal Messico nell’ultimo incontro, stavolta di misura, e con un incredibile canestro messo a segno da un “certo” Manuel Raga (dall’anno dopo, sette stagioni di trionfi con l’Ignis Varese). Risultato finale per l’Italia: nono posto e la scoperta di qualche giovane promettente (Bovone, Recalcati, Fantin). Di più non si poteva!
Chi invece avrebbe forse potuto dare di più era la formazione USA. Raccogliticcia e improvvisata, come al solito, due soli giocatori destinati a calcare i parquet della NBA (Charlie Paulk e Stan McKenzie, che in quella stagione aveva giocato con l’Ignis Varese allenata da Tracuzzi), era pur sempre formazione di buona levatura. Tanto da superare l’URSS e di cedere di un punto con la Jugoslavia. Se avesse vinto col Brasile nell’ultima partita del torneo, avrebbe conquistato l’oro. Invece fuori dal podio, per la seconda volta consecutiva. Si cominciò a pensare che forse era meglio non snobbare la manifestazione, anche perché venne istituito da allora il “James Naismith Trophy”, da assegnare alla squadra campione del mondo, in onore di colui che, in terra statunitense, aveva inventato il basket.
Premiata l’URSS, dunque, e l’ostinazione militaresca del suo allenatore, il maresciallo Gomelskij, che finalmente conquistava anche un titolo intercontinentale, dopo avere dominato in Europa ed essere rimasto alle spalle degli USA nel torneo olimpico. Qui non si snobbava mai nulla: vincere era anche, e soprattutto, una questione di stato. Dalla dura selezione della sterminata Unione Sovietica era facile poi tirar fuori, di volta in volta, dei fuoriclasse: a Montevideo brillarono il lituano Modestas Palauskas, ala tiratrice, il gigante Vladimir Andreev e l’emergente guardia Sergej Belov.
Come miglior giocatore del torneo fu invece eletto Ivo Daneu, asso di una Jugoslavia per la seconda volta consecutiva medaglia d’argento, dove oltre al già noto Radivoj Korać, si fecero notare anche Krešimir Ćosić e Petar Skansi (per entrambi, futuro in Italia, sia da giocatore che da allenatore).
Nunzio Spina
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