Dalle Olimpiadi di Roma a quelle di Città del Messico… La rinuncia a tante convocazioni… «Avremmo potuto fare di più»…
Paolo Vittori è nato a Gorizia, il 31 maggio del 1938. Ha fatto il suo debutto in Nazionale nel ’60, chiamato da Paratore per una tournée in Sudamerica in preparazione alle Olimpiadi di Roma dello stesso anno, alle quali poi partecipò. La successiva manifestazione intercontinentale fu il Mondiale di Rio de Janeiro del ’63, a cui fecero seguito, nella stessa stagione, i Giochi del Mediterraneo di Napoli (medaglia d’oro) e gli Europei di Wroclaw. Costretto a rinunciare per motivi di salute o di lavoro a varie altre convocazioni, ha preso parte solo alle due Olimpiadi successive (Tokyo ’64 e Città del Messico ’68). Giocatore molto duttile, un due metri dotato di forza fisica e di ottima visione periferica, si adattava a qualsiasi ruolo, e aveva nel tiro dalla distanza (preferibilmente dall’angolo) la sua specialità. Dopo gli esordi a Gorizia, ha militato a Bologna (Motomorini), a Milano (Simmenthal), a Varese (Ignis) e a Napoli (Ignis Sud), collezionando sei scudetti e due titoli di miglior marcatore.
«Potevamo senz’altro fare meglio al Mondiale in Brasile del ’63, il primo a cui partecipava la nostra Nazionale. Non dico arrivare sul podio, ma un quinto posto, invece del settimo, era sicuramente alla nostra portata, e il piazzamento avrebbe avuto un risalto ben diverso per il nostro ambiente, che era ancora in fermento per il sorprendente quarto posto delle Olimpiadi di Roma ’60. Le sconfitte con Francia e Portorico avremmo dovuto sicuramente evitarle…».
«Nel girone eliminatorio di San Paolo eravamo partiti col piglio giusto, battendo senza problemi Argentina e Messico, che non erano certo avversarie abbordabili. Anche contro gli Stati Uniti la squadra si era espressa bene, perdendo non di molto. Io però quest’ultima partita non l’ho praticamente giocata. Paratore mi ha lasciato in panchina, e ancora devo capire il perché (non gliel’ho mai chiesto, in verità), dato che nei due incontri precedenti qualche punto lo avevo messo a segno (top scorer in entrambi, 20 con l’Argentina, 31 col Messico, n.d.r.)… Forse tra me e il Professore non c’era un grande feeling…».
«Una volta ottenuta la qualificazione, è stato bello trasferirci a Rio de Janeiro… Ricordi bellissimi: il mare di Copacabana che stava proprio lì davanti al nostro albergo (ovviamente nessuno di noi si sognava di andare a fare il bagno…), l’atmosfera elettrizzante del Maracanãzinho, dove un giorno venne anche organizzata una grande manifestazione di scuole di danza… Purtroppo, in quel bel Palazzo dello Sport perdemmo tutte le partite del girone finale, a cominciare da quella col Brasile: loro, secondo me, erano dei veri fuoriclasse, come Wlamir, Amaury, Ubiratan, Rosa Branca; e poi avevano soprattutto il pubblico a favore, saranno stati quarantamila, tutti scatenati…»
«Ripeto, come Nazionale potevamo fare di più, e magari preparare meglio la spedizione, per onorare il Mondiale come si doveva… Vi racconto un aneddoto che può dare un’idea di come allora venivano organizzate queste trasferte. La nostra comitiva non aveva né medico, né massaggiatore. A San Paolo si fece male a una caviglia Augusto Giomo, e io chiesi al massaggiatore degli Stati Uniti se, per la partita successiva, poteva farci il favore di una fasciatura: per la prima volta vidi fare un taping, e da allora ho imparato a farla su di me e sugli altri… A Rio invece uno dei nostri, credo che si trattasse ancora di Giomo, aveva forti disturbi, con vertigini e male a un orecchio: cercammo uno specialista sull’elenco telefonico e andammo a consultarlo, era un medico tedesco… Insomma, tutto questo per dire che, mentre le altre Nazionali avevano già un’equipe di assistenza al loro seguito, la nostra sembrava ancora una specie di Armata Brancaleone…»
«Quello è stato il mio primo e ultimo Mondiale. Avrei dovuto essere presente anche a quello di quattro anni dopo, in Uruguay, ma a malincuore dovetti rinunciare, perché non potevo permettermi di perdere il lavoro (ero con la ditta di Bogoncelli)… A quei tempi le rinunce per motivi di lavoro o di studio erano all’ordine del giorno, e la Federazione, bisogna dire, non insisteva più di tanto…»
a cura di
Nunzio Spina
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