Europei di basket: Parigi ’99
  Il ricordo di… Andrea Meneghin

 

La guardia di grande dinamismo… «Le nostre caratteristiche: armonia di squadra, intensità e organizzazione di gioco»…

Andrea Meneghin è nato a Varese, il 20 febbraio 1974, quando papà Dino aveva già conquistato quattro scudetti e tre volte la Coppa dei Campioni con l’Ignis e una medaglia di bronzo europea con la Nazionale. Giocare a basket fu per Andrea la più diretta delle trasmissioni ereditarie. Seguì le orme paterne anche in fatto di precocità: a soli 16 anni, infatti, esordiva in prima squadra con la Pallacanestro Varese. Da questa società si sarebbe allontanato solo per una breve parentesi a Bologna, nelle file della Fortitudo (con due secondi posti in campionato e uno in Eurolega). Guardia di 2 metri, grande dinamismo, capacità di adattarsi a vari ruoli (compreso quello di play), il suo tiro da fuori risultava spesso imprevedibile e determinante. Il ’99 fu l’anno dei suoi più grandi successi: un sorprendente scudetto con Varese, la medaglia d’oro agli Europei di Parigi in maglia azzurra, con la quale aveva disputato i Mondiali di Atene dell’anno prima. Ettore Messina lo aveva già convocato per qualche raduno o amichevole, ma fu Bogdan Tanjevic a inserirlo nella squadra titolare: con lui anche le Olimpiadi di Sidney e l’Europeo del 2001. Momenti significativi della sua carriera sono stati pure gli incontri in campionato con papà, come avversari, entrambi col numero 11 sulle spalle: come quello dell’ottobre del ’90, quando Dino, a 40 anni, militava nella Stefanel Trieste. Guai fisici hanno impedito ad Andrea di imitare il padre anche in fatto di longevità agonistica; attualmente si dedica all’attività di allenatore.

Andrea Meneghin in entrata a canestro all’Europeo del ’99; con la maglia della Nazionale ha disputato anche la successiva edizione del 2001(da Giganti del basket, n° 8-9, 1999).

“L’armonia di squadra! Quando mi viene chiesto qual è stata l’arma principale che ci ha permesso di vincere l’oro europeo di Parigi, dico l’armonia, l’unità di squadra! Che non era scontata, ve l’assicuro. Anzi, all’inizio c’era anche qualche attrito, qualcosa da ricucire… Una unità di squadra costruita giorno per giorno durante quell’Europeo, soprattutto quando si è trattato di reagire alle sconfitte… Quella partita di esordio con la Croazia, per esempio, che abbiamo perso malamente dopo essere stati in vantaggio di una ventina di punti… Era sufficiente per farsi prendere dallo sconforto, e invece è stato il momento in cui abbiamo trovato la forza di ricompattarci… Idem dopo la sconfitta con la Lituania, ma già lì ne avevamo vinto quattro di partite, ed è stato ancora più facile recuperare fiducia in noi stessi…”.

“Questo risvolto psicologico si traduceva in intensità e organizzazione di gioco, proprio quello che coach Tanjevic voleva dalla squadra. Un allenatore strepitoso, Boscia, non saprei come altro definirlo: sia dal punto di vista umano, che per la sua preparazione sul piano tecnico e tattico; lui aveva la grande capacità di ricreare in allenamento il clima, se non proprio lo stress, della partita… Eravamo, per così dire, addestrati alla battaglia, e in quell’Europeo in Francia ne dovemmo affrontare più di una…”

Meneghin festeggia sulle spalle di Sandrino De Pol l’oro di Parigi (da Giganti del basket, n° 8-9, 1999).

“Le partite rimaste memorabili sono quelle con la Russia, che ci regalò la qualificazione alle Olimpiadi di Sidney, e poi quelle vinte in semifinale e finale con Jugoslavia e Spagna. Ma io dico che ogni nostra vittoria è stata una piccola conquista per arrivare alla meta, ognuno di noi è risultato determinante tutte le volte che è entrato in campo… Alla fine Gregor Fucka, Carlont Myers e il sottoscritto siamo stati inseriti nel quintetto ideale, e credo che per questo riconoscimento almeno per quanto mi riguarda sia doveroso ringraziare tutti gli altri compagni di squadra…”.

“Del mio abbraccio finale con papà, rimasto famoso, devo invece in qualche modo ringraziare il centro spagnolo Reyes, che negli ultimi secondi della finale mi stese in campo per fermare una mia azione… A quel punto fui richiamato in panchina e, sicuro ormai della medaglia d’oro, mi ritrovai ad abbracciare papà, che era lì al tavolo come dirigente… Per me fu una cosa naturale, spontanea; poi, effettivamente, più mi capita di rivederlo più mi rendo conto del valore storico che gli è stato attribuito…”.

 

 

a cura di

Nunzio Spina

 

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