Europei di basket: Istanbul 2001
Il ricordo di… Alessandro De Pol

«Abbracci e baci di Tanjevic dopo la sconfitta»… «La squadra non aveva perso né talento né spirito battagliero»… 

Alessandro De Pol è nato il 15 luglio 1972, a Trieste. Era ancora nel vivaio cestistico di casa quando Bogdan Tanjevic ne fiutò le qualità e lo fece esordire in prima squadra a 17 anni. Entrò così a far parte di quella banda di “monelli” che col marchio Stefanel riconquistò subito la A1, e poi ne scalò le posizioni fino a una semifinale scudetto (oltre a una finale di coppa Korac); quella stessa Stefanel che, trasferitasi nel ’94 a Milano – armi, bagagli, giocatori e allenatore –, riuscì l’anno dopo nell’impresa di riportare l’Olimpia allo scudetto. Due metri e 04, muscoli ben distribuiti, De Pol era un giocatore eclettico, capace di esprimersi sia sotto canestro che come ala pura (se non di marcare la guardia tiratrice avversaria o di portare palla). Furono queste le virtù che gli permisero di affermarsi anche a Varese, dove riuscì a conquistare un altro scudetto, nel ’99. Esordio in Nazionale nell’ottobre del ’93 con Ettore Messina, che lo schierò nei Goodwill Games dell’anno dopo. La consacrazione in maglia azzurra arrivò più tardi, con la chiamata del suo scopritore Tanjevic, con cui disputò un Mondiale e due Europei. Altro Europeo nel 2003, appena iniziata l’era-Recalcati. La carriera di giocatore di club è proseguita fino a 37 anni, con presenze a Roma, a Bologna (Fortitudo), in Spagna (Gran Canaria), ancora a Varese, Rimini. Intrapresa la carriera di allenatore, da qualche anno è tornato nella sua Trieste, dove attualmente si dedica al settore giovanile. È anche commentatore TV per Raisport.

Sandrino De Pol ha disputato in azzurro tre Europei (dal ’99 al 2003), più un Mondiale (da Giganti del basket, n° 8-9 1999).

“La prima immagine che mi balza davanti agli occhi, ripensando all’Europeo di Istanbul? Boscia Tanjevic che entra negli spogliatoi al termine della partita persa con la Croazia – noi appena eliminati dai quarti di finale – e a uno a uno ci abbraccia e ci bacia… Lo conoscevo bene il coach, mi aveva praticamente cresciuto come un secondo padre, e una cosa del genere non mi era mai capitato di vedergliela fare… Lui, il freddo, l’imperturbabile, che si scioglieva in un gesto di grande umanità, che veniva addirittura a esprimerci la sua gratitudine, nonostante il deludente risultato sul campo… Sinceramente non so se in quel momento avesse già preso la decisione di abbandonare la panchina azzurra; di sicuro, fu l’ennesima dimostrazione del clima di complicità e di rispetto reciproco che si era riusciti a creare in quella Nazionale…”.

“Certo, dopo l’oro europeo di Parigi e il bel ritorno alle Olimpiadi dell’anno prima a Sidney (dove purtroppo io ero assente per un infortunio), tutti si aspettavano una conferma ad alti livelli… E vi assicuro che la squadra, nonostante un paio di rinunce importanti, non aveva perso nulla del suo talento e del suo spirito battagliero… Solo che ogni Europeo ha la sua storia, e quello del 2001 in Turchia obbligava per la prima volta a una partita secca tra seconde e terze dei gironi per poter andare avanti; eravamo appena alla quarta partita, ne avevamo persa una all’ultimo secondo e poi vinte due in maniera convincente: niente da fare, battuti dalla Croazia, siamo tornati subito a casa! Anche a Parigi avevamo perso due partite, ma nessuna delle due ci aveva impedito di andare fino in fondo e arrivare primi…”.

De Pol a canestro nel vittorioso incontro con la Repubblica Ceca, nell’Europeo ’99 (da Giganti del basket, n° 8-9 1999).

“La verità è che i valori si erano molto livellati in alto, e che la concorrenza aumentava di edizione in edizione, basta pensare alla medaglia d’argento che riuscì a conquistare la Turchia in quell’Europeo; per cui poteva bastare poco – una partita, appunto, se non un canestro – a portarti in alto o a farti precipitare… E se quella volta siamo precipitati, è evidente che la colpa è stata nostra, e che sicuramente potevamo fare di più…”.

“Comunque la Nazionale non ne uscì bocciata… Il lavoro di Tanjevic aveva dato i suoi frutti; duro sì, ma si accettava col sorriso, tutti noi non vedevamo l’ora di farci trovare pronti per il raduno della Nazionale… Si era formato un gruppo molto solido e unito, senza punte di diamante, giocatori in grado ognuno di interpretare funzioni diverse e di sacrificarsi per varie esigenze in base all’avversario o all’andamento delle partite… Una eredità che Recalcati ha poi saputo valorizzare, aggiungendovi la sua grande sapienza…”.

 

a cura di

Nunzio Spina

 

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