Una squadra azzurra determinata ad avere un ruolo di primo piano… Una storica doppia sfida con la Jugoslavia…
Non c’erano che gli Europei, in quegli anni, a dare un senso alla vita della Nazionale italiana. Un senso e una speranza: quella di ritornare nelle zone alte della classifica, e di avere così anche maggiori opportunità di mettersi in mostra nelle varie competizioni intercontinentali. Le Olimpiadi erano solo un ricordo dell’84 (Los Angeles), e nel frattempo di edizioni se ne erano viste passare tre, due delle quali esaltate dal Dream Team statunitense, una festa alla quale sarebbe stato bello partecipare. Più breve l’assenza dai Mondiali, ma anche quell’ultima apparizione del ’90, in Argentina, sembrava appartenere a un lontano passato. Non c’erano che gli Europei, dunque; e su Barcellona ’97 – con una squadra che stava sempre più riacquistando considerazione e fiducia in sé stessa – bisognava assolutamente puntare tutto.
La Spagna aveva ospitato il torneo nel ’73, una edizione storica, perché era stato interrotto l’eterno predominio dell’URSS, superata nel podio dalla rampante Jugoslavia e dalla sorprendente squadra di casa. A scommettere su un altro successo organizzativo si lanciò ancora una volta la Catalogna, la regione iberica che più della altre ardeva di basket; fasi di qualificazione a Girona e Badalona, finali a Barcellona, dove da anni la compagine locale “blaugrana” vinceva titoli nazionali e inseguiva quello dell’Eurolega.
Formula nuova, anzi vecchia, perché veniva riproposta quella di Monaco ’93; solo che da allora non sarebbe stata più cambiata fino ai nostri giorni, e per certi versi anche questo sarebbe stato ricordato come un crocevia nella storia. Quattro i gironi, nei quali andavano a distribuirsi le sedici squadre partecipanti; alla seconda fase accedevano le prime tre, divise in due gironi da sei; quindi la fase finale, con partenza dai quarti.
Ettore Messina si presentava alla sua terza panchina “europea”. Non era stata fino allora una esperienza coronata da grandi risultati, e forse cominciava a farsi sentire in lui la nostalgia del campionato, con i suoi ritmi incessanti e il lavoro quotidiano in palestra. Ma se proprio doveva chiudere la sua parentesi azzurra, doveva farlo in bellezza; il suo temperamento non avrebbe accettato altro. L’aveva ricostruita la squadra, pezzo dopo pezzo, e lungo la strada aveva anche trovato gli uomini giusti per il rilancio azzurro. Le ultime sue “scoperte” in campionato erano state quelle del play Davide Bonora, dell’ala-pivot Giacomo Galanda, dei centri Denis Marconato e Dan Gay, quest’ultimo “naturalizzato” dopo aver vestito ben cinque maglie di formazioni italiane. Non c’erano più Magnifico, Rusconi, Gentile ed Esposito. Il veterano era Pittis (argento nel ’91 a Roma), rientravano Myers e Moretti, venivano confermati Coldebella, Frosini, Carera, e con loro i più giovani Abbio e Fucka, quest’ultimo ormai maturo per i grandi palcoscenici. L’avvincente finale scudetto, che la Benetton Treviso (con Pittis, Bonora e Marconato) si era aggiudicato solo alla quinta partita contro la Fortitudo Bologna (con Myers, Frosini e Gay), aveva contribuito a scaldare i motori.
Che stavolta gli azzurri fossero determinati a ottenere un buon risultato (almeno quinti, per andare ai Mondiali di Atene), lo si capì subito nel girone di qualificazione a Badalona. Prime tre partite in tre giorni, altrettante vittorie: con Lettonia e Polonia, ma anche con la Jugoslavia (Serbia-Montenegro) campione in carica e grande favorita. Sei punti come bottino da portarsi dietro nel successivo gruppo a sei, dove capitavano nell’ordine Spagna, Germania e Croazia: fatte fuori anche loro! Una Nazionale oltre le attese, con una difesa implacabile (concessi solo 69 punti ai bombardieri serbi, uno in meno a quelli croati) e un attacco con varie soluzioni (il tiro da fuori di Myers, tra le tante). Sarebbe stata bella a vedersi in diretta, questa Italia, se la RAI non avesse deciso, inspiegabilmente, di oscurarla!
Quando nell’imponente Palau Sant Jordi di Barcellona gli azzurri sconfissero ai quarti la Turchia (punti concessi stavolta appena 43!) si cominciò davvero a sognare a occhi aperti; nei primi quattro eravamo già, appena più su c’era una di quelle medaglie che ci mancavano da un po’ di tempo. Gli occhi li aprì anche la RAI, che dalla semifinale in poi decise di trasmettere. Meno male! Era in arrivo un’altra grande prodezza, tutta da vedere: la vittoria anche con la forte rappresentativa russa, allenata dalla vecchia gloria Sergej Belov, che aveva nell’ala grande Fetisov (approdato poi a Rimini) e nel centro Michajlov (“spagnolo” del Real Madrid) due dei suoi nuovi protagonisti. Ancora una difesa a maglie strette, e stavolta una rimonta incredibile, fino al 67 a 65 finale per noi.
Si andava a giocare per l’oro. Dove ad aspettarci – con un grugno che covava vendetta – c’era quella Jugoslavia che avevamo battuto in qualificazione (74 a 69). Erano loro i favoriti, perché i vari Danilovic, Bodiroga, Obradovic, Djordjevic (MVP del torneo), più gli “italiani” Savic (Virtus Bologna), Rebraca (Treviso) e Loncar (Varese), erano sempre là a cercare di dettare la loro legge. Dopo quella distrazione iniziale non avevano conosciuto più sconfitte, ma con i “cugini” della Croazia, nella seconda fase, era stata una autentica battaglia (64 a 62); poi 15 punti alla Lituania e 8 alla Grecia. Per ottenere la rivincita, i cestisti serbi (c’era un solo montenegrino in squadra, Bulatovic, che avrebbe poi vestito la maglia di Siena) la misero sul gioco duro, facendo soprattutto sentire i gomiti allo smilzo Fucka e le mani in faccia a Myers. Provarono a reagire gli azzurri, che ancora una volta fecero una difesa capolavoro, costringendo gli avversari al loro punteggio minimo (61 punti); il problema fu l’attacco, solo 49 punti! Dovevamo accontentarci – ma ci accontentammo, eccome – della medaglia d’argento. Eravamo tornati lassù, e volevamo restarci!
Il bronzo andava alla Russia, che batteva di 20 punti in finale la Grecia, ai piedi del podio per la terza volta consecutiva. Quinta la Spagna, che aveva sognato ben altro risultato davanti al proprio pubblico. Stavolta la scommessa era stata vinta, ma solo per quella metà che riguardava il successo organizzativo.
Nunzio Spina
Atene 1995 – Parigi 1999
I ricordi di Ettore Messina, Alessandro Abbio e Denis Marconato
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