Le grandi novità dopo la dissoluzione degli stati dell’Europa dell’Est… Un’Italia chiusa dalle stelle del girone…
La Grecia ci aveva preso gusto. A ospitare l’Eurobasket, innanzitutto, che tornava ad Atene dopo solo otto anni. E poi anche a districarsi nelle alte sfere cestistiche, perché l’oro conquistato in casa nell’87 – davanti al quale tutti erano rimasti increduli e diffidenti – aveva allungato la sua scia positiva con un secondo, un quinto e un quarto posto nelle tre edizioni successive. La bella favola ellenica, insomma, stava durando più di quanto si potesse immaginare all’inizio, e adesso provava a riaccendersi, inseguendo nuovi sogni e nuove emozioni.
L’esaltazione era tale che il comitato organizzatore aveva volentieri accettato, in extremis, di fare spazio ad altre due squadre, da aggiungere alle dodici già regolarmente qualificate. Sappiamo cosa stava vivendo l’Europa in quegli anni, con i continui mutamenti della sua mappa geo-politica, e quindi anche sportiva. L’ultima novità arrivava dalla Jugoslavia (o meglio da quel che ne era rimasto, cioè Serbia e Montenegro), che era pronta a rientrare in scena, dopo quattro anni di reclusione. Fu per l’appunto una delle due squadre ripescate, e di questa scelta promozionale (più spettacolo, più onore!) qualcuno in Grecia si sarebbe pentito, perché avrebbe di fatto negato ai padroni di casa la riconquista di una medaglia.
La Jugoslavia (alias Serbia-Montenegro) piombò su quell’Europeo di inizio estate ’95 come una delle novità più clamorose. Un’altra veniva dalla Lituania, che tra tutte le repubbliche della ex Unione Sovietica era sicuramente quella che possedeva maggiori risorse cestistiche, e che non vedeva l’ora di affermarsi anche in campo continentale, dopo la medaglia di bronzo olimpica conquistata a Barcellona ’92. Si ritrovarono inizialmente insieme, Jugoslavia e Lituania, nello stesso girone eliminatorio a 7 in cui figurava anche la Grecia, oltre a Israele, Germania e Svezia. La settima squadra era proprio la nostra Nazionale, che non poteva certo dormire sonni tranquilli, nonostante fossero le prime quattro ad andare avanti.
Diciamo pure che di posti a disposizione ce n’era uno solo, il quarto, che appunto gli azzurri riuscirono ad acciuffare grazie alle iniziali (e molto sofferte) vittorie con Israele e Germania, e a quella (ben più tranquilla) con la Svezia, che faceva seguito alle prevedibili sconfitte con le altre tre avversarie. Ettore Messina era alla sua seconda panchina “europea”, più che mai determinato a riscattare la delusione di Monaco ’93. Per obbligo o per scelta, aveva notevolmente cambiato il volto della squadra, dando fiducia a una nuova generazione di giocatori, tra cui spiccava la classe e il coraggio della guardia Vincenzo Esposito (già scudettato nella sua Caserta e ora protagonista a Bologna sponda Fortitudo). La ricomposizione in azzurro della coppia con Nando Gentile (trasferitosi nel frattempo all’Olimpia Milano) diede buoni frutti.
Passare il turno come quarti era già un buon traguardo, ma si entrava in una seconda fase a eliminazione diretta, e quindi ci toccava affrontare la prima dell’altro girone. Che era la Croazia degli “americani” Kucoc e Radja, spietata fino ad allora con le avversarie del girone, tra cui Spagna, Russia e Francia, qualificatesi alle sue spalle. Niente da fare per gli azzurri, superati di dieci punti (71 a 61). Subito addio ai sogni di gloria – se mai qualcuno li avesse coltivati – e soprattutto addio alla possibilità di partecipare alle Olimpiadi di Atlanta (i pass erano quattro), competizione dalla quale mancavamo ormai dall’edizione di Los Angeles ’84.
Però fu proprio da quel momento che l’agguerrita banda di Messina riuscì a guadagnarsi la considerazione che voleva recuperare. Con la rinuncia di Myers, la formazione aveva in Pittis, Gentile, Coldebella, Rusconi, Frosini, Carera e nel rientrante Magnifico il suo gruppo storico. Debuttavano, oltre a Esposito, il play pesarese Federico Pieri, il centro di Varese Paolo Conti, la guardia Alessandro Abbio (proveniente, assieme a Coldebella e Carera, dalla Virtus Bologna vincitrice degli ultimi tre scudetti) e l’ala-centro Gregor Fucka, un ragazzo secco e lungo (2 e 15), di origine e scuola slovena, poi naturalizzato italiano. Vecchi e nuovi seppero tradurre in campo la determinazione del loro coach, e così realizzarono due piccole imprese: battere la Russia prima (80 a 70) e la Spagna poi (82 a 75), per ottenere alla fine un quinto posto che sapeva proprio di riscatto.
Alle semifinali andarono le favorite: Jugoslavia, Lituania, Croazia e Grecia, citate nell’ordine col quale si classificarono alla fine. Il caso volle (e fu una fortuna) che non si arrivasse a uno scontro diretto in campo tra le repubbliche balcaniche un tempo unite sotto un’unica bandiera, altrimenti chissà quale rigurgito di tensioni. Basti pensare che i giocatori croati si rifiutarono (forse obbligati) di partecipare alla cerimonia di premiazione, e di ritirare così la medaglia di bronzo, perché sarebbero stati costretti ad ascoltare le note dell’inno nazionale della ex Jugoslavia, che la rappresentativa serbo-montenegrina aveva fatto suo.
Epilogo ingiustamente triste di una edizione di altissimo livello tecnico, che cominciava sempre più a emanare il profumo della NBA. Oltre ai croati Kucoc e Radja, provenivano da quell’Eden anche i lituani Sabonis e Marciulonis e il serbo Divac. E tanti altri vi sarebbero approdati da lì a poco: nelle sole file della Jugoslavia (tanto per avere un’idea di quale fosse il valore della squadra) ricordiamo il play Djordjevic e le ali piccole Danilovic e Bodiroga, che poi in quegli anni militavano tutti e tre nel nostro campionato. La strada per gli States l’avrebbero subito presa anche due azzurri di quell’Europeo di Atene, Stefano Rusconi e Vincenzo Esposito, che sarebbero così stati i primi italiani a calcare ufficialmente i parquet della NBA.
L’oro della Jugoslavia faceva issare (accompagnata dal tanto discusso inno) una bandiera dai colori noti – blu, bianco e rosso a strisce orizzontali – ma senza la stella rossa al centro, simbolo del vecchio regime di Tito: l’ennesimo segnale di una nuova era. Si tornava all’antico, invece, con l’argento della Lituania, che aveva trionfato nelle ormai lontanissime edizioni del ’37 e del ’39. La terza, di bandiera, era ancora quella della Croazia, ma i suoi giocatori, come detto, non erano là a onorarla, forse più delusi dal risultato che veramente risentiti per motivazioni politiche. A quel gradino vuoto del podio, i greci rivolsero molti rimpianti…
Nunzio Spina
Monaco 1993 – Barcellona 1997
I ricordi di Ettore Messina, Claudio Coldebella e Vincenzo Esposito
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