Un privato si occupa di organizzare l’evento… Formula confermata… L’assenza dell’Unione sovietica… La finale contro l’ultima Jugoslavia…
Primeggiare in campo era una cosa che ci capitava raramente. Anzi, ci era riuscita una sola volta. Superare gli altri come capacità organizzativa, invece, era un risultato che si otteneva sempre, tutte le volte che l’Italia accoglieva i campionati europei. Erano gli ospiti a riconoscerlo, non noi a rivendicarlo. Così era andata a Napoli, nel 1969, quando un’intera regione come la Campania aveva riversato nel basket la sua inimitabile carica passionale; così pure a Torino, dieci anni dopo, quando il sostegno della FIAT aveva permesso di pianificare tutto con la stessa precisione con la quale venivano fabbricate le automobili.
Roma capitale, nel ’91, offrì di più e di meglio. L’idea di affidare l’intera organizzazione (non solo la sponsorizzazione) a un privato, che nel caso specifico era il Gruppo Ferruzzi, già proprietario della maggiore squadra di basket romana, la Virtus Messaggero, risultò vincente in termini di spettacolarità e di partecipazione di pubblico. Nel “di più” che venne offerto fu compresa anche la bella medaglia conquistata dalla Nazionale azzurra, ciliegina sulla torta che – con mille recriminazioni – ci era mancata nelle precedenti occasioni.
L’unico fastidio fu quello di dover accettare l’assenza dell’URSS, sempre protagonista e sempre sul podio (con 14 ori) nelle ventuno edizioni alle quali aveva preso parte. Quell’aria di cambiamento che si faceva sentire da qualche anno si era appena trasformata in vampata di rivoluzione nelle terre dell’Unione Sovietica, dove la Lituania e la Georgia avevano già dichiarato la loro indipendenza, presto seguite da Lettonia ed Estonia, e via via da tutte le altre. L’URSS stava per sgretolarsi, e l’Europeo di Roma fu la prima manifestazione cestistica a rimpiangerla.
In attesa che la geografia politica dell’Europa cambiasse radicalmente il suo volto, frammentandosi in stati e staterelli, si ritenne conveniente, se non inevitabile, confermare la formula dell’edizione precedente di Zagabria. Cioè solo otto rappresentative, divise in due gironi da quattro, con stesso meccanismo di qualificazione e di successiva eliminazione diretta. Il tutto concentrato, ancora una volta, in soli sei giorni. E questo fu un altro motivo di successo, perché si riuscì a far disputare tutte le partite al PalaEur (inaugurato per le Olimpiadi del ’60 e destinato ad assumere l’attuale denominazione di Palalottomatica); un vero e proprio tempio dello sport, che fece da degna cornice alla manifestazione, e che fece registrare il tutto esaurito nelle gare della nostra Nazionale, con livelli di tifo mai raggiunti prima.
Sandro Gamba aveva già ripreso saldamente in mano la guida della squadra, e dopo il promettente quarto posto di Zagabria ’89 aveva proseguito sulla strada della continuità nel gioco, ma senza trascurare le tante novità che il campionato proponeva. Esauritasi subito l’avventura di Mike D’Antoni, il tecnico aveva pensato bene di dare più spazio ai giovani, e al Mondiale in Argentina del ’90 si era presentato addirittura con otto debuttanti. Il risultato ottenuto (un poco gratificante nono posto) poteva far pensare a una partecipazione di tipo sperimentale, e invece – difficile davvero da credere – era maturato in seguito a una sola sconfitta, quella col Brasile, e a una sfortunata combinazione di differenza canestri, che ci aveva tagliato fuori.
Per l’appuntamento di Roma, dove il podio rappresentava un traguardo praticamente obbligato, Gamba cercò di mettere insieme esperienza e spregiudicatezza. Riva, Magnifico, Costa, Brunamonti, Dell’Agnello e Gracis facevano in qualche modo parte della vecchia guardia. A questi aggiunse i rientranti Roberto Premier (che lui stesso aveva lanciato a Stoccarda nell’85) e Nando Gentile (promosso da Bianchini e ora entrato anche nelle sue grazie, reduce dallo scudetto di Caserta, il primo a sud di Roma), più altri quattro al loro debutto europeo: Riccardo Pittis, ala molto duttile che avrebbe cominciato così la sua lunga militanza in azzurro, Stefano Rusconi, pivot di 2 e 08 che avrebbe vissuto una (breve) esperienza in NBA, il play Alessandro Fantozzi e l’ala-centro Davide Pessina.
Il cammino degli azzurri fu esaltante. Battute nell’ordine la neo-blasonata Grecia, la Francia e la Cecoslovacchia (nel girone eliminatorio), poi la Spagna in semifinale, e quasi tutte in rimonta, così da infiammare ancora di più il pubblico. Tra i maggiori artefici ci fu Gentile, che finalmente riusciva a esprimere anche con la maglia della Nazionale la sua personalità irruente e generosa; fu inserito nel quintetto ideale, riconoscimento che per la prima volta, in forma ufficiale, andava a un cestista italiano.
Disputare la finale per l’oro fu per noi il traguardo più ambito. Oltre l’argento era impossibile andare, pur nell’euforia del momento. La Jugoslavia aveva prenotato l’oro praticamente nello stesso istante in cui si era riservata i posti in albergo. Campione europea in carica, aveva trionfato anche ai Mondiali dell’anno prima, e per la giovane età dei suoi giocatori sembrava destinata a una lunga serie di successi, se la guerra civile – per la quale si era già acceso qualche fuoco – non l’avesse dissolta. Roma ’91 sarebbe passata alla storia come la prima manifestazione senza l’URSS e l’ultima con la Jugoslavia unita.
Per un fuoriclasse che mancava, Drazen Petrovic, tanti che si confermavano tali: i serbi Djordevic, Divac, Savic, Paspalj, i croati Kucoc (MVP del torneo e pronto a trasferirsi in Italia) e Radja (già in forza alla Virtus Roma), il bosniaco Danilovic, lo sloveno Zdvoc (che al termine della prima fase venne addirittura richiamato nella nuova patria, la Repubblica di Slovenia, la cui indipendenza dalla Jugoslavia era stata dichiarata proprio nel bel mezzo di quell’Europeo). Diverse etnie, stessa scuola cestistica, fatta di tecnica sopraffina, di iniziative individuali “uno contro uno” o “penetra e scarica”, ma sempre nel rispetto della semplicità (e quindi della spettacolarità) del gioco. Tutti insieme, appassionatamente, per l’ultima volta; presto si sarebbero ritrovati l’un contro l’altro…
La finale per il bronzo, con l’eliminazione della Grecia (ma Galis non perse occasione per vincere ancora la classifica marcatori), se la giocarono Francia e Spagna, con vittoria di quest’ultima: primi segnali di una crescita, che prima o poi li avrebbe visti emergere ad alti livelli.
Nunzio Spina
Zagabria 1989 – Monaco 1993
I ricordi di Nando Gentile, Sandro Gamba, Roberto Brunamonti, Tonino Zorzi, Riccardo Pittis
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