Un’edizione super ristretta, con sole otto partecipanti… L’aria di cambiamento da Berlino a Urss e Jugoslavia… D’Antoni e la finale per il bronzo…
Squadre partecipanti: otto. Durata del torneo: sei giorni. Il ritorno degli Europei in Jugoslava fece registrare numeri da anteguerra, quando il basket era lusso di pochi, e non si doveva dar conto alle TV o agli sponsor. Il fatto è che, proprio in termini di spettacolo, il coinvolgimento di più squadre e la dilatazione dei tempi non produceva sempre i risultati voluti. Nell’arco di un torneo c’erano ancora molte partite che non riuscivano ad attirare il grande pubblico. Per cui si pensò di restringere.
E poi, in Europa cominciava a sentirsi qualcosa di strano, un’aria di cambiamento che dal mondo politico avrebbe investito anche quello sportivo, paralizzandolo un po’, almeno all’inizio. Il Muro di Berlino era destinato a cadere da lì a qualche mese, e intanto la Germania era momentaneamente scomparsa dalla scena; sarebbe toccato poi anche all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia, prima che la loro disgregazione non provocasse l’effetto contrario di una moltiplicazione.
Se la Jugoslavia si faceva avanti per organizzare la manifestazione, l’obiettivo era quello di propagandare sé stessa. E quindi anche di vincere! Non vi riusciva più da sei edizioni, quando a Liegi nel ’77 aveva conquistato il suo terzo oro di fila, e il recente bronzo di Atene (dopo due anonimi settimi posti) sembrava il trampolino giusto per il rilancio. C’era anche una favorevole tradizione casalinga da salvaguardare. A Belgrado, nell’ormai lontano ’61, era stata conquistata la prima medaglia (d’argento); mentre nel ’75, sempre a Belgrado, non era stata persa l’occasione di festeggiare l’oro davanti al proprio pubblico.
Stavolta era Zagabria, capitale di quella Slovenia che per prima avrebbe inseguito i suoi sogni di indipendenza, ad ospitare il torneo. Due gironi da quattro squadre, le prime due alle semifinali per le medaglie. Formula sbrigativa; ma intensa, almeno così ci si augurava. Da una parte URSS, con Spagna, Italia e Olanda. Dall’altra i campioni uscenti della Grecia, con Jugoslavia, Francia e Bulgaria.
Con l’abbandono di Valerio Bianchini, all’indomani del quinto posto di Atene, la Nazionale azzurra aveva riaperto le porte a Sandro Gamba, reduce da due anni di campionato alla guida della Virtus Bologna. In quel momento sembrava ancora l’uomo col carisma giusto per affrontare un incarico così importante, e forse la sua fame di successi, nonostante i tanti già conseguiti, non era stata ancora pienamente saziata. Un avvicendamento, comunque, nel segno della continuità, visto che in formazione vennero confermati alcuni dei giovani lanciati dal suo predecessore, come il centro Flavio Carera, la guardia Massimo Iacopini, le ali Riccardo Morandotti e Sandro Dell’Agnello, quest’ultimo impiegato nel Mondiale dell’86.
C’era però una novità che da sola sembrava dare un volto nuovo alla squadra, ed era l’inserimento di Mike D’Antoni, play statunitense naturalizzato italiano, che da dodici stagioni ormai deliziava il pubblico di Milano, dove aveva contribuito alla conquista di cinque scudetti, due Coppe dei Campioni, una Coppa Korac e una Coppa Intercontinentale. A 38 anni venne promosso play titolare della Nazionale da Gamba, che nell’80 aveva già lanciato come oriundo un altro Mike, Sylvester. Completavano la rosa i confermati Brunamonti, Riva, Magnifico e Costa, i rientranti (da Stoccarda ’85) Bosa e Binelli, il debuttante play Andrea Gracis.
Tutt’altro che facile la qualificazione per l’Italia. Tagliata fuori dall’URSS (contro cui venne disputata comunque una grande partita, persa di soli 3 punti), bisognava giocarsi tutto con la Spagna. Arrivò lì il capolavoro: 97 a 76, con la sapiente regia di D’Antoni e i canestri di Antonello Riva (33 punti) e Walter Magnifico (19). Ancora più pesante lo scarto inflitto all’Olanda (89 a 66); e via in semifinale! Dove non riuscimmo a evitare il ciclone Jugoslavia, che aveva strapazzato tutti fino ad allora, e contro cui limitammo quanto meno lo svantaggio a soli… 17 punti. Nella finale per il bronzo fummo costretti a fare i conti con l’assenza per infortunio di Riva e con la rabbia dei sovietici, ancora una volta battuti dai greci, e qui rimediammo un pesante 104 a 76, che non dava adito a recriminazioni. Quarto posto, comunque. Veramente il massimo che si potesse chiedere al primo impegno ufficiale della seconda era-Gamba. Un buon auspicio per la successiva edizione, che si sarebbe disputata proprio in Italia. Chissà?
La finale per l’oro contro la Jugoslavia (non vi erano dubbi che i padroni di casa ci arrivassero) la disputò la Grecia, e questo confermava che il risultato di Atene non era stato affatto il frutto di una semplice combinazione favorevole. La squadra ellenica aveva ripetuto la prodezza di due anni prima, battendo di un punto l’URSS. C’era ancora Nikos Galis a bombardare il canestro avversario in tutte le maniere e a vincere – per la terza volta – la classifica cannonieri, con 35,6 di media (appena 14 decimi in meno del precedente record). In finale, però, non ci fu storia: 98 a 77, il trionfo della squadra di casa era arrivato senza alcun patema.
Il nuovo tecnico slavo, Dusan Ivkovic, aveva ereditato da Cosic un gruppo di veri fuoriclasse, in grado di dare vita a un nuovo ciclo di successi. Ancora in mostra l’imprendibile guardia Drazen Petrovic, premiato come miglior giocatore del torneo; poi i pivot Dino Radja (pronto a sbarcare in Italia, nelle file della Virtus Roma) e Zarko Paspalj, entrambi inseriti nel quintetto ideale; tra gli altri, Toni Kucoc e Sasha Danilovic, anche loro poi approdati nei nostri lidi.
Non mancava di fuoriclasse l’URSS (i lituani Sabonis, Kurtinaitis, Chomicius, Marciulonis, gli ucraini Bjelostjennyj e Volkov, che giocò poi a Reggio Calabria), ma coach Garastas (lituano) non aveva forse la stessa astuzia di Gomelski, e non riusciva quindi a ottenere il massimo dai suoi giocatori in campo. Qualche segnale di insofferenza nel clan sovietico era cominciato a trapelare; nulla in confronto a quello che, di lì a poco, sarebbe avvenuto in un altro campo, quello politico, con il crollo del regime, e il progressivo ritorno all’indipendenza dei vari stati dell’Unione. Sarebbe stato questo l’ultimo Europeo dell’URSS!
Nunzio Spina
Atene 1987 – Roma 1991
I ricordi di Massimo Iacopini, Walter Magnifico e Sandro Gamba
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