Allenatore di grande cultura e spiccata personalità… «Edizione particolarissima, noi ne facemmo le spese»… «Si scatenarono gli Dei della mitologia»…
Valerio Bianchini è nato a Torre Pallavicina (paesino della Bassa Bergamasca), il 22 luglio 1943. Cresciuto a Milano, fin da giovanissimo si è dedicato all’attività di allenatore di basket, e il primo stipendio – come ama ricordare – lo ebbe a 23 anni, guidando una squadra femminile a Villasanta, nei pressi di Monza. Le esperienze più importanti per la sua maturazione professionale sono state quelle che lo hanno visto come assistente di Dido Guerrieri a Vigevano e di Arnaldo Taurisano a Cantù. Il trasferimento a Roma, per sedere sulla panchina della Stella Azzurra, fu una ardua scommessa più che un salto professionale; e fu la prima da lui vinta, perché in sette stagioni (dal ’72 al ’79) portò la squadra dalla serie B a un sorprendente quarto posto nella massima serie. Allo scudetto sarebbe arrivato appena due anni dopo, quando fece ritorno a Cantù come allenatore capo: con l’allora marchio Squibb conquistò anche la Coppa delle Coppe e la Coppa dei Campioni. Exploit che riuscì a ripetere negli anni successivi a Roma, con la Virtus: scudetto, Coppa dei Campioni, anche la Coppa Intercontinentale. Non contento, un altro titolo tricolore lo andò a vincere a Pesaro, nell’88, ottenendo così il primato dei tre scudetti in tre squadre diverse (poi eguagliato da Carlo Recalcati sedici anni dopo). Chiamato in Nazionale al posto di Sandro Gamba, vi è rimasto per due anni, dal Mondiale ’86 di Barcellona all’Europeo ’87 di Atene (un sesto e un quinto posto). Tornato ai club, avrebbe ancora girovagato a lungo, cambiando altre undici volte e aggiungendo anche una Coppa Italia (con la Fortitudo Bologna nel ’98) al suo già ricco palmares. A 65 anni l’ultima sua apparizione in panchina, a Varese. Allenatore dotato di grande cultura (cestistica ed extra) e di spiccata personalità, ha dato sempre una impronta tecnica e psicologica alle sue squadre, frutto di una ostinata applicazione in allenamento.
“Ancora oggi mi viene chiesto come si fa ad arrivare quinti in un Europeo, vincendo sette partite e perdendone solo una…? Cosa volete che vi dica, sono le bizzarrie delle formule! Davvero quella di Atene ’87 fu una edizione particolarissima, successero cose che andarono quasi al di là delle umane previsioni, e noi fummo i primi a farne le spese…”.
“Per la Nazionale che io stavo guidando era tempo di un deciso cambio generazionale, iniziatosi già col Mondiale dell’anno prima; in più, in quell’Europeo, per scelta o per necessità, feci esordire parecchi giovanissimi… Insomma, non partivamo proprio con i favori del pronostico, eppure sorprendemmo tutti con un girone di qualificazione entusiasmante di tutte vittorie, che ci proiettò al primo posto… Poi? Poi arrivò la Grecia! Una sorpresa sì, ma fino a un certo punto; io sapevo che il basket da quelle parti stava vivendo un momento di grande popolarità, sull’onda soprattutto dei successi dell’Aris Salonicco, dove giocavano Galis e Giannakis… Temevo proprio questo clima di esaltazione, tant’è che alla vigilia della partita dei quarti contro di loro feci una dichiarazione un po’ incauta ai giornalisti locali, dicendo che per vincere dovevamo tenere Omero fuori dal Palazzo, intendendo appunto che non dovevamo subire proprio quel clima…”.
“Altro che tenerlo fuori! Si scatenarono tutti gli Dei della mitologia greca! Quel Palazzo dello Sport del Pireo, là sulle rive del Mar Egeo, era una bolgia di ventimila anime urlanti, e cantanti; mi ricordo che prima dell’inizio della partita sparavano a tutto volume un loro inno di incitamento, che faceva tremare solo a sentirlo: in realtà, altro non era che l’attacco di “The final count down” degli “Europe”, come dire il rock in soccorso della mitologia greca… Con una scenografia simile, ovviamente, tutti i giocatori di casa rendevano al massimo… Galis poi, non ne parliamo! Che grande personaggio, e che grande atleta! Dopo averci sommerso di canestri, riuscì a ridicolizzare anche i campioni della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica: saltava in testa ai 2 metri e venti di Tkacenko, pensate…”.
“Dopo quell’unica sconfitta siamo stati capaci di battere una seconda volta sia la Polonia che la Germania; solo che più in su del quinto posto era ormai impossibile andare… I ragazzi rimasero un po’ mortificati, ma davvero non avevano nulla da rimproverarsi; era una Nazionale giovane, motivata, ambiziosa, magari non tutti giocatori di gran classe, ma assolutamente tutti da lodare per l’entusiasmo e lo spirito di sacrificio con i quali avevano disputato le partite, compresa quella con la Grecia…”
“Mi è dispiaciuto lasciare la Nazionale proprio in quel momento; avrebbe potuto ancora crescere e io raccogliere qualche soddisfazione in più… Ma ho capito che era già arrivato il momento di cedere la mano… Forse anche la stampa – quella del Nord soprattutto – non è stata molto tenera nei miei confronti… Del resto è così: se alleni la Nazionale, e non raggiungi grandi risultati, vieni criticato da tutti… E poi, a essere sincero, mi trovavo molto più a mio agio ad allenare squadre di club, dove puoi avere tutto il tempo a disposizione per impostare il tuo lavoro e mettere in pratica le tue idee. Diciamo che ho lasciato senza rimpianti…”.
a cura di
Nunzio Spina
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