In rassegna le quattro manifestazioni della bandiera di Cantù: Essen, Barcellona, Belgrado e Liegi… Un record ormai infrangibile?…
Pierluigi Marzorati è nato Figino Serenza (in provincia di Como) il 12 settembre 1952. Nella sua lunga vita cestistica, una sola casa di club, la Pallacanestro Cantù, dove entrò a 13 anni e dove rimase fino alla soglia dei 40 (per poi tornarvi per un ultimo saluto nel 2006, a 54 compiuti). Il suo esordio in prima squadra a 17 anni; tra il ’73 e l’83 un decennio colmo di titoli, con due scudetti, due volte la Coppa dei Campioni, tre la Coppa Korac, quattro la Coppa delle Coppe, due la Coppa Intercontinentale; chiusura in bellezza, con un’altra Coppa Korac nel ’91. Più che giocare nel ruolo di play-maker (col suo metro e 87 e un fisico agile), Marzorati fu un modello di play-maker: veloce, elegante, implacabile contropiedista, assistman, col tempo anche ottimo tiratore dalla distanza; in una parola, completo! Il numero 14 che portava sulla maglia diventò una icona del basket italiano. In Nazionale, quel numero, lo ereditò da Bisson, e lo indossò fino a stabilire il record di presenze in maglia azzurra (278), attraversando ben sette edizioni dei campionati europei, quattro Olimpiadi e due Mondiali. Con la Nazionale maggiore è salito cinque volte sul podio, conquistando un oro e tre bronzi europei, più un argento olimpico.
“Che emozione provai quando Giancarlo Primo mi convocò per l’Europeo del ’71 a Essen! Mi aveva chiamato al raduno di preparazione a Pesaro, io partii dicendo ai miei genitori che li avrei presto raggiunti al mare; e invece, dopo un po’, li salutai per telefono e presi la strada della Germania… L’esordio fu bagnato dai festeggiamenti per i miei 19 anni; giocai poco, ovviamente, ma mi sembrava di essere in estasi, anche perché fui trascinato dall’euforia generale per la tanto attesa conquista di una medaglia… Il più ebbro (e non solo di gioia!) era Flaborea!”.
“A Barcellona ’73 mi ero già ritagliato il mio spazio in squadra. Si può dire che facevo ormai parte di un gruppo abbastanza affiatato, e anche attrezzato per raggiungere nuovamente il podio. Solo che sulla nostra strada trovammo una Spagna in vena di prodezze davanti al proprio pubblico e una Jugoslavia predestinata – diciamo così – a vincere il suo primo titolo europeo… Pensare che con loro perdemmo solo di due, dopo un supplementare! Eppure, trovammo subito la forza di ricompattarci e di vincere le altre tre partite, ottenendo così un onorevole quinto posto… Mi viene ancora da sorridere se penso alla maniera con cui sdrammatizzammo, quella stessa sera, la delusione della sconfitta con gli slavi… Tornando in albergo, trovammo la piscina svuotata d’acqua, e a quel burlone di Iellini venne in mente di sdraiarsi sul fondo pancia in giù, simulando un tuffo alla Fantozzi: Meneghin e Zanatta capirono l’antifona dello scherzo, e andarono di corsa a chiamare, disperati, il nostro medico… Non vi dico le scene dopo…”
“A livello personale, credo che il miglior Europeo da me disputato sia stato quello di Belgrado ’75. Stavo bene fisicamente, ero cresciuto dal punto di vista tecnico, e poi l’impostazione del gioco data da Primo, tutto imperniata sulla difesa per sfruttare il più possibile il contropiede, mi era molto congeniale… Ho avuto una buona media realizzativa in quel torneo (19 punti con la Jugoslavia, 14 con l’URSS, addirittura 26 con la Spagna, 17 nella finale per il terzo posto con la Bulgaria, n.d.r.), e questa seconda medaglia di bronzo, sinceramente, la sentii un po’ più mia… C’erano fior di play-maker, allora, dal sovietico Sergej Belov allo jugoslavo Slavnic, allo spagnolo Corbalan; diciamo che ho fatto anch’io la mia parte, naturalmente con l’aiuto dei miei compagni, e soprattutto di Dino Meneghin, che per me era un punto di riferimento sicuro…”.
“Due anni dopo a Liegi perdemmo l’occasione di scalare ancora i gradini del podio! C’era ancora il gruppo storico di quegli anni, al quale Primo era rimasto fedele, con l’inserimento di qualche giovane interessante; disputammo un girone di qualificazione strepitoso, e per la prima volta ci passammo lo sfizio di battere l’Unione Sovietica in una competizione ufficiale (che poi arrivò ancora una volta seconda alle spalle della Jugoslavia). Il quarto posto per noi, quella volta, fu veramente una delusione… Speravamo proprio di incontrare la Jugoslavia nella finale per l’oro, invece ce la trovammo in semifinale, e non ci fu nulla da fare… Però con la Cecoslovacchia nella finale per il bronzo potevamo fare sicuramente di più… Erano sicuramente alla nostra portata, ma ricordo che la guardia Brabenec e l’ala Pospisil ci fecero neri (29 punti uno, 27 l’altro, n.d.r.)…”.
“Col Mondiale dell’anno dopo a Manila avrei chiuso il mio primo ciclo in Nazionale, quello appunto degli anni settanta nell’era di Giancarlo Primo… Alle Olimpiadi di Mosca ne avrei cominciato un altro, abbastanza lungo da potere raggiungere il record delle presenze in maglia azzurra; un record secondo me ormai imbattibile, per il semplice motivo che ai miei tempi la Nazionale godeva di molto più spazio (e forse anche più seguito) rispetto a oggi, e con i tanti tornei che venivano disputati in giro per il mondo, oltre le manifestazioni ufficiali, le occasioni per vestirla, quella maglia, erano sicuramente maggiori…”.
a cura di
Nunzio Spina
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