Il kosarka è dominato dagli slavi… La Nazionale confermata per 9/12 rispetto a Barcellona… Convincenti ma non entusiasmanti…
Era il grande momento della Jugoslavia! Protagonista assoluta, perché tornava a ospitare il Campionato Europeo dopo avere conquistato il primo oro nella precedente edizione di Barcellona. Un paese al centro dell’attenzione, una squadra favorita dai pronostici. Da quelle parti il basket (kosarka in lingua slava) era vissuto come un autentico fenomeno di stato. Basti pensare all’obbligo istituzionale di costruire un campo all’aperto e una palestra in ogni nuovo isolato di case; o anche solo alle visite – rituali e non proprio di cortesia – che il capo del governo, il Maresciallo Tito, riservava alla Nazionale in ritiro, prima di ogni manifestazione importante. In quel giugno del 1975, c’erano davvero tutte le premesse affinché il “grande momento” si trasformasse in mera esaltazione.
Il cambio della formula del torneo diede intanto una spinta notevole al successo di pubblico. Non più due gironi da sei, ma tre da quattro; di conseguenza non più due sedi di svolgimento, ma tre; anzi quattro, perché si decise che la capitale, Belgrado, dovesse ospitare solo la fase finale (resa più lunga e più interessante dalla novità introdotta), mentre per la qualificazione vennero elette altre tre città, Spalato, Karlovac e Fiume, tutte appartenenti a una regione, la Croazia, che attendeva di essere coinvolta anch’essa nel festival cestistico. Le prime due classificate andavano a formare un gruppo di sei, per un girone all’italiana con partite di sola andata (tranne con l’avversario già incontrato in qualificazione) che decretava le posizioni finali senza passare attraverso la “forca” degli spareggi.
L’Italia si ritrovò nel girone della Jugoslavia, a Spalato, assieme a Olanda e Turchia. Come dire: qualificazione più o meno assicurata, ma già due punti da recuperare nel girone finale. Questo almeno sulla carta. La Nazionale di Primo si era mantenuta fino allora su posizioni di tutto rispetto in ogni competizione; ma appena sfuggiva una medaglia, erano più le critiche che le piovevano addosso che i consensi per il buon risultato comunque ottenuto. Il quarto posto alle Olimpiadi di Monaco o il quinto agli Europei di Barcellona, per esempio, avevano suscitato una reazione del genere. Quindi non restava che dichiarare come obiettivo la medaglia di bronzo (di più non era possibile, con Jugoslavia e URSS), altrimenti le critiche si sarebbero sentite prima ancora di cominciare. Che poi si trattava di confermare il risultato di Essen ’71, ma la concorrenza europea (con la rampante Spagna in testa) si stava ripopolando.
Primo aveva dato una certa personalità alla squadra, con una struttura solida dove gradualmente andava inserendo qualche elemento nuovo. Per nove dodicesimi era la stessa formazione di Barcellona (Meneghin, Zanatta, Iellini, Bisson, Marzorati, Bariviera, Bertolotti, Ferracini, Della Fiori); si aggiungevano due giovani, Lorenzo Carraro (play della Reyer Venezia, contropiedista e buon realizzatore) e Renato Villalta (ala grande di talento, che aveva trascinato la Duco Mestre in serie A); più un “ripescato”, quel “Charly” Recalcati, ormai trentenne, lasciato fuori nelle ultime edizioni di Olimpiadi ed Europei. Non fosse stato per lui, saremmo andati – sconsolati – nel girone di consolazione. Sotto di 20 con l’Olanda, il suo ingresso in campo (e i suoi canestri, oltre a quelli di Bisson) ci permisero di rimontare fino al successo finale (+5), che dopo la passeggiata con la Turchia (+ 18) ci assicurò la qualificazione. Andammo avanti con zero punti all’attivo, perché i due a disposizione se li presero, come previsto, i padroni di casa della Jugoslavia che ci superarono 83 a 69.
Nel girone finale a sei di Belgrado entravano col vantaggio dei punti già acquisiti anche le teste di serie degli altri due gironi, Spagna e URSS; dietro di loro, Bulgaria e Cecoslovacchia. L’Italia si comportò benissimo contro i sovietici, vittoriosi solo di 4 (con zero punti di Belov, ma 28 dell’astro nascente Salnikov, ala ucraina); ma la vera prodezza azzurra fu la vittoria nettissima contro la Spagna di Brabender (89 a 69, con 26 di Marzorati), che ci permise poi di superarla nell’arrivo a pari punti, dopo il vistoso successo sulla Bulgaria (91 a 70) e nonostante la battuta d’arresto con la Cecoslovacchia (68 a 72). Alla fine – con un pizzico di quella fortuna che ci era mancata tante altre volte – ci ritrovammo terzi e con una medaglia di bronzo in mano.
Gli azzurri avevano convinto ma non entusiasmato. I più positivi erano risultati Recalcati e Marzorati (eletto tra i migliori play, ma non nel quintetto ideale, dove il posto era sempre occupato da Belov); bene anche Meneghin, seppur limitato dai postumi di un infortunio, Bisson e Bertolotti. E dal momento che non tutte le potenzialità erano state espresse, ci fu chi, tra i giornalisti, invitò addirittura Primo a dimettersi all’indomani delle Olimpiadi di Montreal dell’anno dopo…
Il calendario delle partite era stato abilmente pilotato in maniera che l’ultima in programma fosse quella che vedeva opposte Jugoslavia e URSS: una finalissima, di fatto. Vi arrivarono infatti entrambe imbattute, con qualche incertezza forse da parte sovietica. Vinsero i padroni di casa (90 a 84), come stavolta ampiamente pronosticato, bissando così l’oro di Barcellona. Ma non fu un’impresa facile. Dall’altra parte c’era stavolta un Belov scatenato, nonostante i suoi 31 anni, che a un certo punto sembrò in grado di potere opporsi da solo all’impeto slavo; il che la diceva lunga sulla necessità di un valido ricambio in quella che fino a pochi anni prima era considerata una Nazionale imbattibile.
Per la Jugoslavia di Mirko Novosel arrivò il successo pieno, su tutti i fronti. In campo fu ancora una volta Kresimir Cosic a dettare legge: un altro premio come MVP (sarebbe rimasto l’unico a vincerlo due volte, se proprio nell’ultima edizione del 2015 non lo avesse eguagliato lo spagnolo Pau Gasol). Attorno a Cosic cresceva la nidiata di tiratori: oltre ai già conosciuti Slavnic, Dalipagic e Kicanovic, anche Delibasic e Zizic (e bastava che ci fosse la “ic” finale per far paura agli avversari!). Veniva premiata senz’altro la migliore scuola cestistica europea, basata su pregevoli fondamentali, sull’uno contro uno o sui giochi a due, sull’ottima percentuale da tiro da fuori. Scuola di strada, da play-ground. Negli Stati Uniti aveva funzionato così!
Nunzio Spina
Barcellona 1973 – Liegi 1977
Il ricordo di Vittorio Ferracini, Ivan Bisson e Carlo Recalcati
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