La Jugoslavia ferma la serie positiva sovietica… Una città in cui il baloncesto accende l’entusiasmo… La Nazionale di Primo…
Che qualcosa avesse cominciato a stravolgere il mondo cestistico, lo si era già capito dal sorprendente esito delle Olimpiadi di Monaco dell’anno prima, quando l’Unione Sovietica aveva per la prima volta tolto agli Stati Uniti il predominio assoluto nella manifestazione, seppure al termine di una contestatissima finale. Quel che forse non ci si aspettava è che al diciottesimo appuntamento con i Campionati Europei, di scena in Spagna nell’autunno del ’73, fosse proprio il colosso URSS a impersonare la vittima di questo cambiamento, lasciando non solo la medaglia d’oro alla Jugoslavia – dopo averla conquistata ininterrottamente per otto edizioni e dieci volte in dodici partecipazioni – ma anche la piazza d’onore alla squadra di casa, che di medaglia non aveva mai vinto neanche quella di legno!
Barcellona sede principale, con un girone di qualificazione più la fase finale; la vicina Badalona per l’altro girone. Città dove il baloncesto, come denominato il basket in lingua spagnola, era in grado di accendere l’entusiasmo di un gran numero di appassionati, anche se per la verità era stato il Real Madrid, con ben quattro Coppe dei Campioni vinte negli ultimi dieci anni, a ottenere i risultati migliori. Invariata la formula, per la terza volta, con sei squadre da una parte e sei dall’altra, le prime due in semifinale a contendersi il podio. E siccome il mondo cestistico era cambiato, ci si rese conto che la formula era diventata inadeguata, perché non dava possibilità di appello a molte squadre, e in definitiva aumentava sempre più il numero delle partite inutili. Per la successiva edizione ci si era già inventata una ricetta nuova.
La Nazionale azzurra, ancora saldamente nelle mani di Giancarlo Primo, aveva buoni motivi per nutrire ambizioni. In tre anni, dal ’70, aveva messo in fila il quarto posto ai Mondiali di Lubiana, il bronzo agli europei di Essen e di nuovo un quarto posto alle Olimpiadi di Monaco, dopo aver ceduto di un solo punto contro Cuba. Si parlava di squadra in continua crescita, e arrivare quanto meno alle semifinali, in questi Europei di Barcellona, ne sarebbe stata la conferma. Avevano salutato la maglia azzurra Masini, Cosmelli e Flaborea (che si erano messo alle spalle un buon numero di Europei, Olimpiadi e Mondiali). A Monaco erano già stati promossi Pino Brumatti e Mauro Cerioni (rispettivamente guardia e ala del Simmenthal Milano). Ai riconfermati Meneghin, Bariviera, Zanatta, Bisson, Iellini, Marzorati e Serafini, vennero affiancati tre debuttanti: Fabrizio Della Fiori, ala di Cantù, Gianni Bertolotti, ala piccola della Virtus Bologna, e Vittorio Ferracini, centro di Milano.
La composizione del girone di Badalona non favorì certo gli azzurri. C’era la Jugoslavia, ormai decisa a togliere il primato europeo all’URSS, e c’era anche la Spagna, che giocava in casa e poteva essere capace di tutto. E difatti fu proprio la Spagna a metterci il primo ostacolo davanti. La incontrammo dopo le preannunciate vittorie contro Grecia e Francia (che non furono brillanti per niente, di 5 e di 9 punti) e si capì subito che, con l’aiuto del pubblico e con la voglia di riscatto maturata in tanti anni di anonimato, domare quelle “furie rosse” sarebbe stato davvero difficile per tutti. A noi ci inflissero un netto 77 a 65, dopo avere praticamente sempre condotto la partita. A quel punto non restava che inseguire l’impresa più difficile, quella cioè di battere la Jugoslavia, che il calendario ci proponeva subito dopo. Poteva riuscire, eccome! Azzurri praticamente sempre avanti nel punteggio, ma quei vecchi marpioni di Cosic e compagnia bella riuscirono a rimontare, a mandarci al supplementare e poi a batterci di un solo canestro (73 a 71). Gli 11 punti inflitti poi alla Bulgaria non fecero altro che fermentare il nostro rammarico.
Ci consolammo un po’ vedendo che la Spagna, approdata a vele spiegate alle semifinali di Barcellona, riuscì a far fuori anche l’Unione Sovietica (80 a 76), la quale ovviamente ci rimase malissimo e accusò di favoritismi gli arbitri. Il valore della squadra di casa, però, andava ben oltre le contingenze favorevoli. C’era un valido commissario tecnico, Diaz Miguel, che si vantava di essere un discepolo di Paratore e di Primo, e c’erano soprattutto dei giocatori dotati di buona tecnica e di grande temperamento. Il migliore era Waime Brabender, ala piccola, biondo statunitense naturalizzato, un cuore di ghiaccio ma una mano caldissima: fu premiato come MVP del torneo. Con lui, altri tre piccoletti terribili, come Ramos, Cabrera e Buscatò: quest’ultimo, beniamino di Barcellona, era stato richiamato per l’occasione, a 33 anni, dopo aver dato l’addio ufficiale alla carriera di giocatore.
Se noi ci consolammo, la Jugoslavia se la rise. Affrontare in finalissima l’URSS non era mai una cosa simpatica; meglio forse la Spagna, già battuta in qualificazione. Meglio sì, fino a prova contraria… La formazione slava, dove faceva il suo debutto in panchina il croato Mirko Novosel, vinse di 11 e andò così a prendersi il primo oro europeo della sua storia. Era da un po’ che allungava la mano, non c’era di che sorprendersi. Tanto più che, oltre a giocatori di provata classe ed esperienza come Cosic, cominciava a farsi strada una nuova generazione di grandi tiratori, come Slavnic, Dalipagic e Kicanovic, nomi destinati a diventare familiari anche nel nostro campionato.
La rabbia dell’URSS si riversò contro la malcapitata Cecoslovacchia nella finale per il bronzo: 90 a 58, dopo il 77 a 55 del girone di qualificazione. Belov e Palauskas erano ancora i trascinatori, ma nel reparto lunghi si sentiva il bisogno di un rinnovamento. Comunque, ancora sul podio i sovietici, come accadeva dal lontano ’47, cioè tutte le volte che avevano preso parte agli Europei.
Anche l’Italia, da parte sua, fu brava a non lasciarsi sopraffare dalla delusione. Batté nettamente l’Israele e di nuovo la Bulgaria, e alla fine ottenne un quinto posto che non poteva essere certo considerato un insuccesso. Qualcuno cominciò a criticare Primo, insinuando anche deficienze tecniche (sfrutta poco il contropiede!), ma la squadra, nel complesso, non aveva demeritato. Gli infortuni di Meneghin, Zanatta, Iellini e Serafini valevano bene qualche attenuante. E per un Bariviera un po’ dimesso, ci furono un Brumatti e un Marzorati all’altezza della situazione. Il futuro, insomma, era ancora a tinte rose.
Nunzio Spina
Essen 1971 – Belgrado 1975
Il ricordo di Pino Brumatti, Gigi Serafini e Marino Zanatta
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