La premonizione di Lubiana… Le gare perfette… Un roster che cresceva di giorno in giorno di rendimento…
L’attesa, la lunghissima attesa per la riconquista di una medaglia azzurra, finì in una grigia città della Renania-Westfalia, stato federato della Germania Ovest. Essen, 18 settembre 1971. Nella finale per il terzo posto, la Nazionale italiana si trovava di fronte la “bestia nera” Polonia, e stavolta la batteva, conquistando un bronzo che valeva… oro! Erano trascorsi 25 anni dall’ultimo podio, l’argento del ’46 a Ginevra, quando il basket era praticamente un altro sport e sulla bandiera tricolore campeggiava ancora lo stemma sabaudo. Un quarto di secolo vissuto tra indifferenza e illusioni, con qualche occasione sprecata qua e là, ultima quella dell’Europeo organizzato in casa, a Napoli; circostanza favorevole, che a tante rappresentative nazionali (alla nostra no!) aveva permesso di volare in alto.
Per questo riscatto azzurro c’era stato, in realtà, un segnale premonitore, che non poteva passare inosservato: nella prima edizione europea del Campionato Mondiale, a Lubiana nel maggio del ’70, l’Italia era riuscita nella doppia impresa di sconfiggere gli Stati Uniti (mai successo fino allora) e di conquistare il quarto posto, traguardo che eguagliava quello di Roma ’60, cioè il miglior piazzamento in una competizione intercontinentale. Il silenzioso lavoro di ricostruzione di Giancarlo Primo, al quale era stato chiesto di puntare alle Olimpiadi di Monaco ’72, cominciava evidentemente a dare i suoi primi frutti.
L’assegnazione dell’Europeo alla Germania Ovest, allora cestisticamente piuttosto arretrata (30.000 praticanti, sì e no), era stata fortemente condizionata proprio dall’evento olimpico dell’anno dopo, e soprattutto dalla promessa che fosse inaugurato per l’occasione il nuovo e avveniristico Palasport di Monaco di Baviera (6000 posti, tetto sospeso). L’impianto, però, non era ancora pronto, e allora si ripiegò su Essen, dove si disputò un girone di qualificazione più la fase finale, e su Boblingen, cittadina del Baden-Wurttenberg a più di 450 km di distanza, dove si ritrovarono le squadre dell’altro girone. Tra queste l’Italia, in compagnia della Jugoslavia (reduce dall’oro conquistato nel Mondiale giocato in casa), della Cecoslovacchia (argento e bronzo nelle ultime due edizioni degli Europei), di una sempre ostica Bulgaria, delle più “morbide” Israele e Turchia.
Per accedere alle semifinali, c’erano forse due soli veri ostacoli da superare, quello della Bulgaria, col suo portentoso centro di 2 e 08 Golomeev, e soprattutto della Cecoslovacchia, che più di una volta ci aveva procurato un dispiacere in partite decisive. Entrambe furono superate con gare praticamente perfette: +9 alla prima, +14 alla seconda, grazie ai punti di Bariviera, ai rimbalzi di Meneghin, alla generosità di Giomo e Cosmelli, all’intelligenza di Iellini promosso play titolare. Qualificazione al sicuro. Che divenne matematica con il facile successo sulla Turchia, dopo l’esordio vittorioso con Israele. Si era fatto un pensierino anche al primo posto nel girone, a quel punto, ma non i conti con Kresimir Cosic, pivot jugoslavo dalle gambe secche e lunghe e dalle braccia tentacolari, dotato però anche di classe sopraffina (appresa in un college americano): non aveva ancora compiuto 23 anni, ma da quattro si era già affermato nella sua Nazionale, e in quell’europeo tedesco mostrò di avere raggiunto la giusta maturità, tanto da guadagnare la palma di miglior giocatore. Contro l’Italia fu incontenibile (24 punti in attacco, un muro in difesa), e se il 79 a 68 finale non era tutto merito suo, poco ci mancava.
Gli azzurri di Primo, comunque, ce l’avevano fatta a entrare in semifinale. Obiettivo minimo di una squadra che sembrava crescere di giorno in giorno nel rendimento. Da Napoli in poi, i punti fermi erano rimasti Masini, Recalcati, Cosmelli, Meneghin, Bariviera, Zanatta e Bisson. A Lubiana era stato richiamato “Capitan Uncino” Ottorino Flaborea e inserito il play Giorgio Giomo del Simmenthal Milano (soprannominato “Giometto” per distinguerlo dal fratello maggiore Augusto, olimpionico a Roma e Tokyo). Completavano la rosa tre nomi nuovi: Giulio Iellini, anche lui play del Simmenthal (che per la verità aveva già fatto debuttare in azzurro il prof. Paratore nel ’66, nella stessa tournée nella quale aveva lanciato Meneghin), Luigi Serafini, pivot di 2,10 della Virtus Bologna, e Pier Luigi Marzorati, talentuoso play del vivaio canturino, che 19 anni li avrebbe festeggiati proprio a Boblingen nel giorno in cui veniva battuta la Cecoslovacchia e centrata la qualificazione.
Il capolavoro della nostra Nazionale fu realizzato nell’ultima partita, lo spareggio per il bronzo, dopo che si era dovuto soccombere, inevitabilmente, in semifinale allo squadrone dell’URSS. Contro la Polonia venne messa in campo la concentrazione giusta per disputare un’altra “gara perfetta”, con un punteggio finale (85 a 67) che risultò lo specchio fedele della supremazia in campo. Sul podio, finalmente! Bronzo e sbornia, con fiumi di spumante fino a tarda notte in mezzo a tedeschi indifferenti…
Strepitoso, in quella partita, Renzo Bariviera, autore di ben 28 punti e capace di neutralizzare il tiratore polacco Jurkiewicz (che tuttavia vinse il titolo di miglior realizzatore del torneo e venne inserito nel quintetto ideale). Ottime anche le prove di un sempre più maturo Dino Meneghin (21 punti), di Zanatta, Flaborea e Bisson, cioè il blocco dell’Ignis Varese, vincitrice nelle ultime tre stagioni di altrettanti scudetti, una Coppa dei Campioni e una Coppa Intercontinentale.
La medaglia d’oro la vinse l’URSS (ottavo titolo consecutivo), che fino a quel momento aveva strapazzato tutti gli avversari, ma dovette sudare per avere ragione nella finalissima – solo 5 punti di scarto – di una Jugoslavia che le faceva sentire sempre più il fiato sul collo. Nella panchina sovietica, finita la (prima) era-Gomelsky, cominciava quella di Vladimir Kondrashin, e almeno all’inizio il risultato non cambiò. Con giocatori come Sergej Belov e Modestas Palauskas, inseriti ancora una volta nel quintetto ideale (dove continuavano a essere ignorati gli italiani), il compito di ogni allenatore veniva senz’altro agevolato. I tempi, però, stavano per cambiare…
Nunzio Spina
Napoli 1969 – Barcellona 1973
I ricordi di Renzo Bariviera e Dino Meneghin
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