L’eredità dell’Olimpiade, pensando a Tokyo… L’esordio di Gomelsky, il gigante Krumins… I padroni di casa…
L’exploit ai Giochi di Roma faceva ancora venire i brividi al basket italiano. Erano trascorsi appena sette mesi da quel magico settembre del 1960, quando i cestisti azzurri avevano conquistato un sorprendente quarto posto olimpico alle spalle di USA, URSS e Brasile (con tante recriminazioni per il bronzo sfuggito). La dodicesima edizione del campionato europeo, di scena per la prima volta nella vicina Jugoslavia, arrivò troppo presto per avere il tempo di smaltire l’ubriacatura di quel successo e poi ripartire da zero per una nuova avventura. Quindi? Meglio restare a casa!
Era la seconda volta che la Nazionale azzurra non prendeva parte alla competizione continentale, dopo il forfait fatto registrare nel ’49 in Egitto (con ben altre motivazioni e con molto meno scalpore). E la cosa si sarebbe ripetuta soltanto mezzo secolo e ventiquattro edizioni dopo, in Polonia, quando ormai si era entrai nell’epoca in cui (ci arriveremo!) costituiva un problema anche la semplice qualificazione alla fase finale. Questa di Belgrado, insomma, fu una rinuncia che non passò inosservata, e per niente gradita agli organizzatori, che vedevano così spegnersi un sicuro motivo di interesse.
L’accusa di volere bearsi del buon piazzamento olimpico e di non mettere a repentaglio la recente gloria ci piovve addosso da più parti. In realtà, c’erano stati i soliti problemi di convocazione (e i soliti scambi di accuse tra Federazione e società), per cui gli “eroi” di Roma non avevano praticamente avuto la possibilità di rispondere, tutti uniti, alla chiamata di coach Paratore. Bisognava reinventare una Nazionale di giovani rincalzi, prepararli in fretta, e poi buttarli nella mischia. E per dare una continuità al risultato olimpico, ci si sarebbe dovuti classificare alle spalle dell’Unione Sovietica. Impresa ritenuta impossibile. Tra il torto sicuro, ma in parte giustificato, degli assenti e la probabile magra dei perdenti, si decise di scegliere la prima soluzione.
Fu un peccato! Intanto perché, finalmente, si tornò a giocare al coperto, e il basket poteva così esprimere a pieno i progressi tecnici degli ultimi tempi, senza farsi condizionare dalle intemperie del clima. Il Padiglione centrale della Fiera di Belgrado – con la sua capienza di dodicimila posti a sedere, il terreno di gioco in lucido parquet di quercia e i tabelloni in plexiglas – risultò una cornice più che degna. E poi c’era anche la bella novità della formula di svolgimento, meno selettiva, con le diciannove squadre partecipanti (l’adesione a quei tempi era ancora libera) suddivise in sei gironi di qualificazione (cinque da 3 e uno da 4), e la possibilità per ben dodici di loro di accedere alla seconda fase. Anche un’Italia rimaneggiata, chissà, avrebbe potuto dire la sua.
Non c’erano dubbi sul fatto che l’URSS potesse ancora una volta imporre la propria supremazia. Spazzò via gli avversari nella prima e nella seconda fase, infliggendo passivi pesanti a Belgio, Spagna, Germania Est, alla stessa Ungheria (93 a 31!), e trattando con un po’ più di riguardo la Polonia, la Bulgaria in semifinale e la Jugoslavia in finale, battuta di soli sette punti (60 a 53) davanti al suo pubblico, dopo averla già superata più largamente nelle semifinali. Sulla panchina sovietica esordiva Aleksandr Gomelsky, figura mitica del basket internazionale, che proprio là a Belgrado inizio la sua lunga serie di allori, con ben sette ori, due argenti e un bronzo agli Europei, tre medaglie olimpiche e due titoli intercontinentali, per non parlare delle cinque volte in cui si aggiudicò la Coppa dei Campioni con una squadra di club.
Apparve migliorato dal punto di vista tecnico il basket sovietico, non più superiore agli altri solo perché fisicamente potente. Il confronto con quello statunitense nel recente torneo olimpico lo aveva decisamente dirottato verso una nuova interpretazione del gioco, più vario, più tattico, più intelligente. Il tiro piazzato come valida alternativa alle giocate dei pivot sotto canestro, il pressing tutto campo per scoraggiare sul nascere le iniziative degli avversari. Persino il gigante Krumins, boscaiolo lettone che in campo si muoveva come Gulliver nell’isola dei lillipuziani, era riuscito ad affinare il suo ruvido stile di passo e tiro.
Il secondo posto della Jugoslavia non fu solo frutto della contingenza favorevole per la squadra di casa. Che fosse una Nazionale in crescita lo si era capito già da qualche anno, e presto sarebbero arrivate ulteriori conferme. A condurre questa scalata si era impegnato, ormai da un decennio, l’allenatore di Sarajevo Aza Nikolic, anche lui come il collega russo entrato poi nella galleria dei grandi personaggi del basket internazionale. In campo brillava ancora la stella di Radivoj Korac, nuovamente capocannoniere (alla media di 21,6 punti a partita, non da poco per l’epoca) e stavolta eletto anche miglior giocatore del torneo; sfoggiava una barba rossa che sicuramente attirò ancor più su di sé l’attenzione.
Un podio tutto per l’Est, con il terzo posto della Bulgaria, conquistato dopo diverse vittorie di misura (con Israele, Turchia e Cecoslovacchia), una sconfitta con la Francia (poi superata nella partita decisiva) e una differenza canestri favorevole. Medaglia stentata e sofferta, ma di grande valore, non fosse altro perché sarebbe stato l’ultimo colpo d’ali di una rappresentativa destinata a un lento ma inesorabile declino.
All’Italia del basket non restò che consolarsi con le emozioni del campionato appena concluso. Varese aveva conquistato il suo primo scudetto, con la Ignis dell’industriale Giovanni Borghi. In quella formazione c’erano solo due azzurri reduci dai Giochi romani, il pivot Gavagnin e l’esterno Vianello. Cinque erano nella Virtus Bologna (Alesini, Calebotta, Canna, Lombardi, Sardagna), altri cinque nella Simmenthal Milano (Gamba, Pieri, Riminucci, Vittori, Giomo), entrambe formazioni classificatesi al secondo posto. Ci fu fino all’ultimo una avvincente lotta fra le tre contendenti, e questo sicuramente condizionò la poca disponibilità dei giocatori per raduni e amichevoli. Paratore dovette fare buon viso a cattivo gioco. E intanto, gli venne rinnovato l’incarico di pilotare la Nazionale verso il successivo appuntamento olimpico, Tokyo ’64. Era quello il nuovo, importante traguardo da raggiungere. Ma sulla strada ci sarebbe stato ancora un altro europeo, e rinunciare non si poteva più.
Nunzio Spina
Istanbul 1959 – Wrocław 1963
Il ricordo di Gianfranco Pieri
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