Una squadra sperimentale… Il primo progetto a lungo termine… Un risultato bugiardo… L’Est Europa domina ancora la competizione…
Non c’era pace per la Nazionale azzurra. Nel senso che la guida tecnica cambiava volto con ritmo, a dir poco, frenetico. Proprio i campionati europei sembravano scandire questo continuo avvicendarsi sulla panchina. Van Zandt nel ’51, Tracuzzi nel ’53, McGregor nel ’55 (senza contare gli intermezzi fugaci di Marinelli, Penzo e Ferrero); ed ecco, nel ’57, il quarto cambio in altrettante edizioni. Incarico affidato a Nello Paratore, promosso da vice a primo allenatore secondo un disegno che per lui, probabilmente, era stato già tracciato dal momento in cui aveva lasciato la terra d’Egitto per piantare radici in quella dei suoi progenitori.
Il torneo continentale maschile, giunto alla sua decima edizione, approdava a Sofia, capitale della Bulgaria; ancora una volta, dunque, in un paese dell’Est, in una di quelle «democrazie popolari» dove lo sport, e il basket in particolare, era concepito e vissuto alla stessa stregua di una questione di stato. La Bulgaria come l’URSS, come la Cecoslovacchia o l’Ungheria, tanto per citare le maggiori potenze cestistiche europee del momento. Il quarto posto conquistato a Budapest nel ’55, ma soprattutto la grande divulgazione della disciplina a livello popolare, avevano legittimato il diritto, per la Bulgaria, di organizzare la manifestazione. Solito stadio calcistico (il Levski, nella circostanza) a fare da gigantesca cornice all’evento, solito successo di pubblico; ci mancò poco che il tifo trascinasse la squadra di casa alla conquista del titolo, così come era successo per l’Ungheria nell’ultima edizione.
Paratore aveva ricevuto pieno mandato all’indomani delle Olimpiadi di Melbourne (cioè a dicembre del ’56), dove peraltro l’Italia del basket non si era presentata, un po’ per evitare deplorazioni da parte del CONI (che aveva deciso di sostenere solo chi avesse concrete possibilità di medaglia), un po’ per non compromettere l’andamento del campionato, che in quegli anni sicuramente godeva di maggior seguito rispetto alla Nazionale. L’avventura italiana del «rosso» McGregor si era fermata proprio là, in Australia, dove era stato inviato dalla Federazione in qualità di osservatore; ebbe problemi alla dogana sulla via del ritorno, e da qui il pretesto per silurarlo. Punto e a capo.
L’obiettivo che fu messo davanti al nuovo commissario tecnico, stavolta, non era a breve distanza. Non gli Europei in Bulgaria, in programma nel giugno prossimo venturo; e neanche quelli che si sarebbero disputati due anni dopo, nel ’59. No! Lo sguardo doveva puntare più in là, alle Olimpiadi di Roma del ’60. Che lungo il cammino di avvicinamento ci si trovasse di fronte a partite amichevoli o a competizioni ufficiali non faceva praticamente alcuna differenza: si prendeva quel che si trovava. La prima ripercussione di questo programma fu una tregua annunciata nel turnover degli allenatori; Paratore poteva lavorare tranquillo per almeno quattro anni. Lavorò così tranquillo che ne avrebbe fatti trascorrere addirittura dodici, di anni, prima di cedere il testimone…
La Nazionale che si presentò a Sofia, dunque, non era che il primo abbozzo di una nuova concezione di squadra e di gioco. Tanto più che continuavano a essere di moda le rinunce alle convocazioni, a volte anche per legittimi motivi di studio o di lavoro (extrasportivo). Le conferme rispetto alla precedente edizione erano pochine: Posar, Gamba, Costanzo, Macoratti, più il ritorno di Alesini. Per il resto, debuttanti o quasi: Gianni Zagatti, Marcello Motto, Cesare Volpato, Vittorio Pomilio, Rolando Rocchi, Giancarlo Sarti (futuro da dirigente, artefice dell’exploit della Juve Caserta negli anni ’80), Paolo Conti (ci sarebbe poi stato un omonimo in maglia azzurra, 40 anni dopo). Particolare significativo: delle due squadre che in quegli anni lottavano per lo scudetto, Olimpia Milano e Virtus Bologna, c’erano solo due rappresentati, i milanesi Gamba e Volpato, quest’ultimo un pivot con buoni doti fisiche.
Il decimo posto rimediato alla fine fece purtroppo registrare il peggiore piazzamento azzurro nella storia ancora recente degli Europei (più del nono di Van Zandt nel ’47), ma a parte l’attenuante della squadra sperimentale, ci fu di che recriminare. Nel girone eliminatorio, dove ci toccava lo scontro proibitivo con la Bulgaria (72 a 45 per loro) e quello abbordabile con la Germania Ovest (73 a 52 per noi), diventava decisiva la partita con la Francia: vinsero i transalpini di soli due punti (61 a 59), ma dopo un tempo supplementare e dopo un «furto» di due punti perpetrato da una giuria di commissari, nonostante il referto parlasse a nostro favore.
Due punti che aprivano una voragine. Scaraventati nel cosiddetto girone di consolazione, a nulla valsero – per consolarsi – le larghe vittorie su Belgio, Scozia, ancora Germania, Finlandia, Austria e Albania (alla sua seconda e ultima presenza); non si poteva andare al di là del nono posto, arrivò il decimo con la sconfitta di sette punti per mano della Turchia. Un piazzamento bugiardo, a prima vista; in realtà, erano state battute solo le sei avversarie che restarono dietro in classifica.
Lassù, nel girone finale a otto (la formula era rimasta immutata da tre edizioni) si concentrarono i sette soliti squadroni dell’Est, con la sola intrusione della Francia, alla quale – guarda caso – fu lasciato l’ottavo posto. Tornò in vetta l’URSS, rispolverando il vecchio percorso netto di vittorie, ma non si trattò proprio di una passeggiata: due soli punti di scarto per sconfiggere la coriacea Cecoslovacchia (62 a 60), appena uno in più (60 a 57) per avere ragione della Bulgaria, che arrivò sul punto di compiere l’impresa «tutta pervasa dai fremiti di un dirompente entusiasmo iniettatole da un pubblico tifosamente pazzo», come riportato da una pomposa cronaca dell’epoca.
Oro all’URSS, dunque, che lanciò il nuovo fuoriclasse Victor Zubkov, pivot ventenne destinato a una lunga carriera di successi; argento alla Bulgaria, che toccava così il punto più alto, per poi non risalirvi più; bronzo alla Cecoslovacchia, che raccoglieva ancora consensi per il suo bel gioco, ma doveva sempre imprecare alla sfortuna (di due soli punti perse pure con i padroni di casa, oltre che con i sovietici). Cecoslovacco, comunque, fu il miglior giocatore del torneo, Jiri Baumruk, un personaggio che avrebbe anche calcato i parquet italiani tra gli anni ’69-’71 come allenatore della Candy Brugherio.
Sotto il podio, nell’ordine, l’Ungheria (una buona conferma la sua), la Romania, la Jugoslavia e la Polonia. Il vento dell’Est non accennava a placarsi!
Nunzio Spina
Budapest 1955 – Istanbul 1959
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