Il primo e ultimo oro ungherese nel tempo dell’Honved… Le sorprese di Cecoslovacchia e Urss… Gli italiani unici del blocco occidentale in finale…
Il momento magico dell’Ungheria arrivò quando tutti se lo aspettavano. Era da qualche anno che il basket magiaro si era assestato ai vertici continentali, e il secondo posto negli Europei del ’53 alle spalle del colosso URSS (seppure con la complicità di una subdola differenza canestri), aveva legittimato le sue ambizioni. Giocare in casa nella edizione successiva si presentava come un’occasione talmente favorevole da immaginare che difficilmente si sarebbe ripresentata in seguito. E di fatto restò unica… Solo che per essere davvero magico, quel momento, c’era bisogno dell’aiuto di qualche strana congiuntura, che in quella circostanza si concretò nella inconcepibile altalena della Cecoslovacchia, in grado di bastonare sia URSS che Ungheria nel girone finale, ma anche di uscire sconfitta da due partite nelle quali, secondo i pronostici, avrebbe dovuto passeggiare.
Le tribune del Nepstadion di Budapest, tempio del calcio e della leggendaria squadra della Honved (Puskas & Co.), erano forse troppo grandi e dispersive per una manifestazione di pallacanestro. Ma era l’unico impianto che avrebbe potuto dare spazio ai 40.000 spettatori che si arrivarono a contare nelle partite di maggiore richiamo. Una cornice come questa faceva passare in secondo piano l’inconveniente del gioco all’aria aperta, seppure su un terreno fatto di tavoloni in legno; il successo di pubblico prima di tutto, se poi si accompagnava anche a quello della squadra di casa, ancora meglio! Era andata così anche a Mosca, due anni prima; la formula, cambiando luogo e colori, risultò ancora una volta vincente.
Per conquistare la loro prima medaglia d’oro all’Eurobasket (un bronzo e un argento in precedenza, di nessun metallo più in seguito), gli ungheresi si erano preparati a lungo, favoriti dal fatto di essere tutti giocatori di stanza a Budapest. Avevano affinato le loro armi migliori, che erano le virtù fisiche e atletiche, la velocità e l’elevazione, la grinta in difesa per recuperare il pallone e lanciarsi in contropiede; altrimenti gioco ragionato in attacco, molto ragionato (il limite dei «30 secondi» sarebbe entrato in vigore solo l’anno dopo), fino a cercare il passaggio più favorevole sotto canestro. Regia affidata a Janos Greminger, play-maker dotato di un colpo d’occhio e di un tempismo eccezionali, che sarebbe poi stato premiato come miglior giocatore del torneo.
Imbattuti nel girone eliminatorio, i cestisti di casa (in canotta bianca, cerchiata dal tricolore della bandiera nazionale) vinsero sei delle sette partite del girone finale, un bottino che risultò sufficiente per la conquista del primo posto. Dietro di loro si classificò la Cecoslovacchia dell’incontenibile «due metri» Skerik (miglior marcatore) e della stella «cadente» Mrazek; dopo avere battuto proprio l’Ungheria nel primo incontro del girone finale, i cechi si trovarono davanti un cammino in discesa, nel quale però incespicarono sui facili ostacoli della Polonia e della Jugoslavia. Terzo posto (solo terzo!) per l’Unione Sovietica, che nei tre precedenti Europei disputati non aveva conosciuto altro che vittorie e primati; l’imbattibilità gliela tolse proprio la Cecoslovacchia (81 a 74); l’altra batosta, la più mortificante, gli venne rifilata dall’Ungheria (82 a 68). C’erano ancora gli eroi del primo oro (Praga ’47), Korkia, Moiseev, Konev: forse era il caso di cominciare a svecchiare.
Chi invece aveva già imboccato la strada del rinnovamento, e da Budapest ne uscì in maniera più che dignitosa, fu proprio la Nazionale italiana. Con il romano Francesco Ferrero si era allungata la serie del continuo alternarsi in panchina di allenatori nostrani dopo l’era Van Zandt (Marinelli, Penzo, ancora Marinelli, poi Tracuzzi, che aveva portato a casa il settimo posto dall’Europeo di Mosca), fino a quando la Federazione, alla cui guida era salito nel ’54 Decio Scuri, volle nuovamente affidarsi a un tecnico di scuola americana. Ecco Jim McGregor (detto pel di carota, per via del colore dei suoi pochi capelli), fatto venire apposta dall’Oregon, nord-ovest degli Stati Uniti, a portare un po’ di novità tecniche. Si cominciò a parlare di pressing difensivo, di velocità in ogni zona del campo, di «dai e cambia», di passaggi ai pivot sotto canestro («se no cosa ci stanno a fare?», diceva). Voleva big boys (ragazzi grandi), ma soprattutto ragazzi di temperamento. Uno di questi si rivelò Sandro Gamba, allora ventiduenne, che si era messo in luce nella Borletti Milano vincitrice di quattro scudetti nei primi anni ’50.
Non era un periodo di grande popolarità per la Nazionale, neanche per gli stessi giocatori, che spesso rinunciavano alle convocazioni pur di risparmiarsi per gli impegni di campionato. Finì che agli Europei in Ungheria l’Italia si presentò con una formazione rimaneggiata, priva di uomini del valore di Calebotta, Canna e Alesini, e con tre sole conferme della edizione precedente: Margheritini, Posar e Riminucci. C’erano, oltre a Gamba, i friulani Elvio Bizzaro, Giordano Damiani, Silvio Lucev, Sergio Macoratti e Gianfranco Sardagna, il canturino Lino Cappelletti, il bolognese Germano Gambini, il livornese Vinicio Nesti, il pivot romano Tonino Costanzo, un vero big boy. Al fianco di McGregor, come vice allenatore, era stato chiamato dall’Egitto quel Nello Paratore di progenie siciliana, che aveva accettato di mettere la sua esperienza al servizio dell’Italia, dopo averle procurato non pochi dispiaceri.
Se l’ingresso nel girone finale a otto poteva essere considerato un regalo del sorteggio per i colori azzurri (fu sufficiente sconfiggere le modeste Finlandia e Turchia per superare il turno), la vittoria con la Jugoslavia (69 a 66), a parte l’onorevole sconfitta con l’URSS (48 a 54), diedero sul campo un valore effettivo al sesto posto finale. Che era forse il massimo obiettivo che si potesse raggiungere, in quella morsa di squadroni delle cosiddette «democrazie popolari» in cui la nostra Nazionale si era venuta a trovare: su otto finaliste, l’Italia era l’unica non rappresentante dell’Est. Un’altra bella soddisfazione fu quella di vedere Sandro Riminucci, miglior marcatore della squadra con 138 punti, valutato tra i primi cinque giocatori del torneo. Una élite in cui era stato preceduto soltanto da Sergio Stefanini, a Ginevra’46, ma evidentemente non si trattava ancora di un riconoscimento pienamente ufficiale, visto che per questa speciale classifica l’archivio della FIBA ha registrato i nomi solo a partire dal 1967.
Nunzio Spina
Mosca 1953 – Sofia 1957
I ricordi di Sandro Riminucci e Gianfranco Sardagna
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