Il ritorno nella città più romantica… Il coronamento del lavoro dell’allenatore americano… Il Velodrome d’Hiver… Una finale con il risultato in bilico…
«Parigi, o cara…» Da quando, nel gennaio del ’48, la Nazionale italiana aveva battuto quella francese nella sua capitale – si trattava di una amichevole ma fece tanto scalpore –, tornare nella «più romantica città del globo» le procurava sempre uno stato di eccitazione e di ottimismo. La traccia di quella fortunata trasferta era addirittura rimasta, sotto forma di simbolo ricamato, sui bianchi pantaloncini della divisa da gioco: si trattava di una… carota, come quella che il tecnico Van Zandt vide su un marciapiede, appena la comitiva uscì dalla stazione ferroviaria della Gare de Lyon, e che si affrettò a raccogliere convinto che fosse il portafortuna per vincere contro ogni pronostico – come in realtà poi avvenne – la sfida di quella fredda sera d’inverno.
In effetti, il ritorno a Parigi, e addirittura nello stesso Velodrome d’Hiver che era stato teatro di quella impresa (impianto al coperto situato vicino la Tour Eiffel, destinato soprattutto alle gare di ciclismo), portò bene agli azzurri di Van Zandt, che riuscirono a riscattare, almeno in parte, i non brillanti risultati ottenuti fino allora. Dopo il nono posto dell’Europeo del ’47 a Praga, non si era andati al di là del diciassettesimo alle Olimpiadi di Londra dell’anno dopo, mentre le rinunce all’Europeo in Egitto del ’49 e ai Mondiali in Argentina del ’50 avevano solo lasciato incognite. Qualche vittoria, piuttosto, era arrivata in amichevole, dove la tecnica di gioco (che comunque migliorava con l’ostinata applicazione sui fondamentali) poteva non farsi sopraffare dalle strategie. Ed ecco finalmente il buon piazzamento in una competizione ufficiale: quinto posto al Campionato Europeo di Parigi, appunto, nel maggio del ’51. Fu salutato come il coronamento di un lungo lavoro di rigenerazione.
Fece piacere a tanti, non solo all’Italia, partecipare a quell’evento. Dal record minimo fatto registrare al Cairo nell’edizione precedente (solo sette squadre) si passò a quello massimo di diciotto. Né scuse politiche, né logistiche, stavolta; a una vetrina così importante, nel pieno centro dell’Europa, non si poteva proprio rinunciare. Si formarono quattro gironi, due composti da cinque formazioni e due da quattro. C’era di nuovo la strafavorita URSS assieme a una parte del blocco dell’Est (Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, assenti Ungheria, Polonia e Jugoslavia); erano al loro debutto Germania, Danimarca, Portogallo e Scozia; veniva registrato, tra gli altri, il ritorno della Finlandia, invitata diplomaticamente a partecipare a Kaunas ’39 in vista di quei Giochi Olimpici che, a causa della guerra, sarebbero stati rinviati proprio all’anno successivo, il ’52.
Alla nostra Nazionale toccò l’ingrato compito di esordire contro i padroni di casa, più che mai affamati di rivincita, e stavolta non si poté evitare la sconfitta (49 a 37). Nel girone di qualificazione, però, le altre avversarie erano tutt’altro che temibili, e infatti seguirono tre vittorie nette, contro Olanda (53 a 28), Lussemburgo (76 a 20), Svizzera (67 a 35). Alla fine risultammo primi del girone, in virtù dell’inaspettato successo dell’Olanda sulla Francia e di una differenza punti favorevole. Il cammino si fece in salita subito dopo: URSS e Cecoslovacchia erano praticamente due montagne invalicabili, ci rifilarono 12 e 32 punti di scarto rispettivamente, e a quel punto svanì il sogno di salire sul podio. L’unica vittoria della seconda fase, contro la Grecia (64 a 51), ci permise quanto meno di lottare per il quinto posto: e lì l’obiettivo fu raggiunto dopo avere sconfitto il Belgio (48 a 36) e l’ostica Turchia (43 a 38).
Van Zandt aveva mantenuto un nucleo di giocatori esperti. Li capeggiava Cesare Rubini, alla sua terza esperienza in un campionato europeo, dove non faceva mancare mai la sua presenza; ma quando si trattava di Olimpiadi, e c’era da fare una scelta tra pallacanestro e pallanuoto, optava sempre per la disciplina in acqua. Gli era andata di lusso a Londra ’48, con la conquista della medaglia d’oro (quella che fece nascere la leggenda del Settebello) e gli sarebbe andata bene anche a Helsinki, nel ’52, quando risalì sul podio per il bronzo. Intanto, alla testa della sua Olimpia Milano, di cui era allenatore e giocatore, aveva iniziato la serie di quattro scudetti consecutivi. Con lui in maglia azzurra erano stati riconfermati Vittorio Tracuzzi, che si era trasferito a Varese, anche lui giocatore-allenatore, e i romani Giancarlo Primo e Carlo Cerioni; mentre era stato richiamato Sergio Stefanini, tornato dal Brasile già da qualche anno, in tempo per conquistare due scudetti a Milano.
Attorno a questi vecchi marpioni, Van Zandt aveva lanciato un nutrito gruppo di giovani: Federico Marietti, Marco De Carolis ed Enzo Ferretti della Ginnastica Roma, Gianfranco Bersani e Dino Zucchi della Virtus Bologna, Giorgio Bongiovanni dell’altra squadra di Bologna, il Gira, Romeo Romanutti, Giuseppe Sforza ed Enrico Pagani dell’Olimpia Milano. Un tipo particolare, quest’ultimo: nato a Shanghai, era figlio di un ufficiale della Marina italiana e di una contessa russa; oltre che per il bel gioco da play-maker, si distingueva anche per il bell’aspetto, tanto da essere reclutato anche per interpretare un film. In realtà tutta la squadra, in quella occasione, si fece facilmente distrarre da cose che nulla avevano a che fare col basket: pare che la sera – puntualmente dopo la buonanotte – uscivano tutti alla chetichella a far visita ai locali di Montmartre, opportunità come quelle chissà quando sarebbero loro ricapitate!
Come ampiamente pronosticato, si aggiudicò l’oro l’Unione Sovietica, che tra le sue file aveva ancora i giganti del ’47, Lissov, Korkia, Batautas, Konev, Moiseev. Imbattuti, ma in finale se la videro brutta con la Cecoslovacchia del fuoriclasse Ivan Mrazek (oro nel ’46 a Ginevra, eletto miglior giocatore in quel torneo di Parigi): finì 45 a 44 grazie a un tiro libero di Batautas assegnato a fil di sirena, peraltro con i due arbitri in contrasto tra loro. Proteste a mai finire!
Bronzo alla Francia, che riuscì così a fare la sua bella figura davanti al pubblico parigino, vittoriosa in finale sulla Bulgaria di soli tre punti. Il podio non era una novità per i transalpini: era il terzo in sette edizioni degli Europei, e vi sarebbero tornati altre due volte nelle successive quattro. Il problema, per loro, era quello di raggiungere il gradino più alto, traguardo che sarebbe stato raggiunto solo dopo un’attesa di ben sessantadue anni, e non pochi altri piazzamenti d’onore.
Nunzio Spina
Il Cairo 1949 – Mosca 1953
il ricordo di Giorgio Bongiovanni
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