Il cammino travolgente delle statunitensi… Gli italiani del basket rimangono a casa… I presupposti dei successi azzurri più dai singoli atleti che dalle squadre…
Nella sfida lanciata agli Stati Uniti per il primato del medagliere olimpico, la Cina non aveva messo in conto il basket. Non avrebbe potuto, tale il divario ancora esistente. Le bastò partecipare, e magari farsi trascinare nell’entusiasmo dal suo atleta-simbolo, il gigante Yao Ming, orgoglio cestistico di un’intera nazione per avere conquistato – col suo talento e la sua semplicità – il mondo patinato della NBA. Le cose andarono più o meno così anche sul versante femminile: USA ancora inarrivabili, in grado di conquistare agevolmente il loro quarto oro consecutivo; le cinesi dietro un bel po’, ma più competitive dei colleghi maschi, perché in grado di arrivare a ridosso del podio, sconfitte dalla Russia nella finale per il bronzo.
Se il cammino della selezione maschile statunitense era stato senza incertezze, quello della femminile fu addirittura travolgente. Nel girone eliminatorio, chi se la cavò meglio fu la Spagna, che rimediò «solo» 38 punti di passivo; poi nulla da fare per la Russia (67 a 52 in semifinale) e per l’Australia (92 a 65 nella finalissima). In questo quarto oro olimpico consecutivo brillò ancora – per la quarta volta – la stella di Lisa Leslie, a 36 anni sempre più brava e sempre più attraente (nel suo curriculum anche servizi fotografici da modella); centro di 1 e 96 per soli 77 kg di peso, era in possesso di doti fisiche e atletiche che gli avevano permesso una carriera lunga e piena di successi.
All’Italia del basket toccò assistere da lontano a questo trionfo americano. Tanto lontano da limitarsi a seguirlo da casa, davanti la TV. A Pechino non era riuscita a qualificarsi né la Nazionale azzurra maschile né quella femminile, e statisticamente – oltre che nella sostanza – il dato fu molto significativo: solo una volta, infatti, si era verificato un forfait del genere, vent’anni prima, ai Giochi di Seul. Le donne già da tempo avevano praticamente abbandonato lo scenario internazionale: dall’ultima partecipazione ai Giochi (Atlanta ’96), su sei edizioni degli Europei il bilancio era stato di tre mancate qualificazioni, due undicesimi e un nono posto (quest’ultimo strappato tra le mura amiche di Chieti nel 2007, in panchina coach Gianni Lambruschi). Quel che invece risultò difficile spiegarsi fu come la squadra maschile, capace di realizzare l’impresa della medaglia d’argento ad Atene, non fosse stata poi in grado neanche di guadagnare la qualificazione per il successivo appuntamento olimpico.
Ci fu probabilmente una sorta di appagamento dopo quel sorprendente risultato, se è vero che agli Europei del 2005 (disputati in Serbia) gli azzurri vennero eliminati agli spareggi dalla Croazia, dopo un girone eliminatorio niente affatto esaltante (vittoria con la Germania dopo un tempo supplementare, sconfitta pesante con Russia e Ucraina). Era stata riconfermata da Recalcati buona parte della rosa di Atene, con qualche inserimento che, sulla carta, avrebbe dovuto portare un valore in più alle potenzialità della squadra, come quello dell’oriundo Dante Calabria (guardia statunitense di nascita, cresciuto nella North Carolina University), di Angelo Gigli (centro di 2 e 09), della coppia di cestisti abruzzesi Stefano Mancinelli (ala della Fortitudo Bologna) e Marco Mordente (guardia girovaga del campionato italiano, anche una stagione con la Virtus Ragusa in A2). Con un po’ di fortuna, poteva andare decisamente meglio ai Mondiali dell’anno successivo in Giappone. Al posto di Pozzecco, Recalcati aveva lanciato un altro piccoletto terribile, Fabio Di Bella, mentre veniva dato spazio anche al giovanissimo Marco Belinelli, guardia imprevedibile nel tiro e nelle entrate a canestro. Secondi nel girone di qualificazione dietro gli USA, il cammino dell’Italia si fermò agli ottavi, dopo una combattuta partita con la Lituania. Ambizioni rinviate ai successivi Europei, quelli del 2007 in Spagna, che tra l’altro valevano la qualificazione olimpica. Andò ancora peggio: quattro sconfitte e due vittorie nella prima fase decretarono l’inattesa eliminazione, e addio Pechino. In squadra avevano fatto la loro comparsa, tra gli altri, Luigi Datome (ala piccola, cresciuto in Sardegna) e Andrea Bargnani (centro romano di 2 e 13, svezzato a Treviso con la Benetton e già approdato negli States alla corte dei Toronto Raptors): finalmente anchela Nazionale azzurra aveva la sua stella NBA da mettere in mostra, ma non servì a ottenere il risultato sperato. Il paradosso – almeno in apparenza – avrebbe raggiunto proporzioni maggiori negli anni a venire…
Il basket contribuì (senza partecipare) alla delusione azzurra negli sport di squadra. Nessuna medaglia da pallavolo, pallanuoto e calcio, seppure i pronostici di Pechino si presentavano alquanto favorevoli. Dopo solo quattro anni, un bilancio così contrastante (ad Atene, si era saliti sul podio in tutte e quattro le discipline) suscitava interrogativi e amarezza. La differenza col passato recente – se vogliamo – stava tutta lì: 28 le medaglie conquistate in totale, contro le 32 di quattro anni prima e le 34 di Sidney 2000. Risultato da considerare comunque soddisfacente, anche se nel panorama mondiale la posizione dell’Italia continuava a indietreggiare. E ancora una volta si ebbe la sensazione che era stato l’impegno di atleti solitari, più che una efficace programmazione a livello federale, a creare in molti casi i presupposti del successo.
Limitandoci a considerare le medaglie d’oro, che furono otto per i colori azzurri, almeno metà dei vincitori erano praticamente sbucati fuori dall’anonimato. Andrea Minguzzi riportava la lotta greco-romana sul podio vent’anni dopo la doppietta (Los Angeles e Seul) del quasi concittadino Vincenzo Maenza. La livornese Giulia Quintavalle faceva familiarizzare il pubblico televisivo con koka e yuko (colpi leciti e ben assestati) vincendo le sue agguerrite sfide nel judo. Chiara Cainero si mostrava infallibile nel tiro, specialità skeet, prima donna italiana a salire sul gradino più alto in questa disciplina. Il venticinquenne Matteo Tagliariol dominava nella spada individuale, versante in cui per la nostra scherma il successo mancava da più tempo (Roma ’60, con Giuseppe Delfino).
Altri personaggi erano sicuramente più conosciuti, oltre che più carichi di ambizione. Il marciatore altoatesino Alex Schwazer si era già aggiudicato due bronzi in occasione di campionati mondiali; aveva l’oro olimpico tra i suoi obiettivi dichiarati, e ci arrivò al termine di una gara strepitosa sulla distanza dei 50 km, condotta in testa fin dall’inizio, addirittura in bella solitudine negli ultimi otto chilometri. Anche il pugile Roberto Cammarelle (190 cme 105 kg) aveva un bronzo – quello ottenuto nella Olimpiade di Atene – da trasformare in oro: il gioco di prestigio riuscì nella maniera migliore, mettendo in ginocchio proprio un avversario cinese nella categoria dei supermassimi.
Infine i due protagonisti annunciati, anzi le due protagoniste. Federica Pellegrini (che a 16 anni aveva già stupito ad Atene con la sua medaglia d’argento) conquistò il primo oro del nuoto femminile italiano nella storia dei Giochi, e per celebrarlo al meglio lo condì con un primato del mondo: 200 stile libero, 1’54”82 (ci avrebbe pensato lei stessa a migliorarlo…). Non era più una ragazzina Valentina Vezzali (34 anni, moglie e mamma), ma sulla pedana del fioretto saliva sempre con lo slancio e la grinta di un tempo; quarta Olimpiade per lei, terzo appuntamento consecutivo con l’oro nella prova individuale: chi le capitava contro non poteva fare altro che rassegnarsi. Eguagliò il record del tuffatore Klaus Di Biasi, e fu la prima schermitrice al mondo a raggiungere tale traguardo. Nelle interviste del dopo gara, Valentina non si mostrò proprio appagata: «Mi piacerebbe riprovarci ancora, chissà se ce la farò?»…
A caccia di record era anche il canoista Antonio Rossi. Nelle sue partecipazioni olimpiche tre medaglie d’oro le aveva già conquistate (due ad Atlanta, una a Sidney), ma c’era pure il bronzo dell’esordio a Barcellona ’92 e l’argento di Atene; salire ancora sul podio sarebbe stato il suggello della sua straordinaria carriera, e la maniera più bella per onorare, a Pechino, il ruolo di portabandiera. Non riuscì nell’impresa, anche perché dietro quell’eterno volto da ragazzino – che conquistava con i suoi sorrisi – c’era un atleta ormai alla soglia dei 40 anni… Eppure, fu proprio la canoa azzurra a dimostrare che non esistevano limiti invalicabili. Josefa Idem di anni ne aveva 44, cresceva i suoi due figli e continuava imperterrita a pagaiare. Settima Olimpiade per lei, la voglia di vincere come la prima volta, come sempre; arrivò ancora una sorprendente medaglia d’argento, che non fu oro per 4 millesimi. Anche nelle sue dichiarazioni non si sentirono pronunciare le parole «Basta, mi fermo qui!»; vuoi vedere che, dopo quattro anni, ci avrebbe provato per l’ottava volta?
Certi nomi, in Italia, tornavano puntualmente di attualità ogni volta che si accendeva il braciere olimpico. E allora tutti a tifare, ad esempio, per Alessandra Sensini o per Giovanni Pellielo: nel windsurf e nel tiro a volo, rispettivamente, erano sempre riusciti a centrare l’obiettivo della medaglia, e stavolta arrivò per entrambi l’argento, che era già abbastanza per rubare immagini TV e titoli di giornali a colleghi più famosi e più remunerati (come i calciatori, tanto per non far nomi). Che poi anche loro, i calciatori, si erano messi alla ricerca di una gloria olimpica a Pechino. A disposizione dell’allenatore Casiraghi c’erano individualità come Montolivo, Marchisio, De Ceglie, Nocerino, Giuseppe Rossi, insomma una Nazionale ben attrezzata che sembrava potesse agevolmente portare a casa quella medaglia tanta inseguita: l’inizio fu promettente, ci si illuse anche, poi eliminazione ai quarti e addio sogni di gloria.
Lo sport italiano, comunque, se la cavò. Era sempre più difficile competere con le «grandi», anche perché in questo gruppo bisognava ogni volta fare spazio a qualche nuovo ingresso. La Gran Bretagna, da questo punto di vista, fu davvero una sorpresa, col suo quarto posto nel medagliere (19 ori): risaliva dalla decima posizione delle ultime due edizioni, ad Atlanta ’96 era stata addirittura trentaseiesima, con una sola medaglia d’oro vinta. L’assegnazione a Londra dei Giochi del 2012 aveva evidentemente creato già un certo fermento. Per il resto, arrivarono conferme, come il terzo posto della Russia, o sorpassi già annunciati, come quello della Cina nei confronti degli USA in testa alla classifica.
La rappresentativa di casa ebbe naturalmente tanti protagonisti da applaudire, ma quelli che si rivelarono i veri, grandi personaggi di Pechino 2008 non erano con gli occhi a mandorla. Ne ricordiamo tre. Al nuotatore statunitense Michael Phelps era ancora rimasto lì, in gola, il proposito di battere il record delle sette medaglie d’oro in una sola Olimpiade, appartenente al connazionale Mark Spitz fin da Monaco ’72. Dopo avere perso – di poco – la scommessa ad Atene, Phelps centrò in pieno l’obiettivo, per la gioia sua e dei suoi sponsor: otto medaglie d’oro (400 misti, 4×100 stile libero, 200 s.l., 200 farfalla, 4×200 s.l., 200 misti, 100 farfalla, 4×100 misti), con ben sette nuovi primati del mondo. Una prova di forza a dir poco sensazionale! Per dimostrarsi di gran lunga superiore agli avversari, faticò molto meno la saltatrice con l’asta Yelena Isinbayeva: un solo salto, a 4,85, fu sufficiente alla russa per aggiudicarsi l’oro; gli altri tentativi servirono solo per arrivare alla nuova misura record (5,05), prodezza che le era già riuscita ad Atene e ben altre ventidue volte. Da quest’aura di imbattibilità sembrava avvolto anche il nuovo fenomeno della velocità nell’atletica: Usain Bolt, 22 anni, figlio di una terra – la Giamaica – dove pare sia custodito il corredo cromosomico tipico dello sprinter. Le sue vittorie erano attese, la maniera giocosa e quasi irriverente con le quali le ottenne, un po’ meno: primo nei 100, e record del mondo (9,69); primo nei 200, e record del mondo (19,30); primo nella 4×100 (con i «fratelli» giamaicani Carter, Frater e Powell), e… record del mondo (37.10). Negli anni a seguire, si sarebbe poi divertito (con sorrisi, smorfie e movenze varie) a batterseli da solo i primati personali!
Il sipario calava su Pechino con una cerimonia di chiusura – se possibile – più spettacolare di quella di apertura. Mentre Hu Jintao, presidente della Repubblica Popolare Cinese, si compiaceva del successo pieno raggiunto dal suo paese (sul piano organizzativo e sportivo), un tipico bus inglese double-decker di colore rosso (con su scritto London-Beijng-London) faceva irruzione nello stadio olimpico tra figuranti e atleti a proclamare, in maniera del tutto originale, il passaggio del testimone. Cominciava la lunga vigilia di Londra 2012!
Nunzio Spina
[27 – prosegue dalla prima puntata di Pechino 2008, segue con l’anteprima di Londra 2012]