Dai successi a Cantù alle Olimpiadi da giocatore… La difficile eredità di Tanjevic… La medaglia d’argento ad Atene…
Il podio olimpico era rimasto un sogno. Lo aveva inseguito due volte da giocatore: prima con l’entusiasmo e la spregiudicatezza del debuttante, poi con la voglia di riscatto di chi era stato per un po’ messo da parte. Mai e poi mai avrebbe immaginato che la vita sportiva gli avrebbe riservato l’opportunità di realizzarlo (quel sogno), a quasi trent’anni di distanza. Era cambiato il suo ruolo, non il suo obiettivo. Quando, da allenatore della Nazionale, conquistò la medaglia d’argento ai Giochi di Atene 2004, si guardò indietro per un attimo, e compiacendosi realizzò che – proprio vero – i conti col destino non si chiudono mai!
La carriera cestistica di Carlo Recalcati non è tutta racchiusa in questa favola a lieto fine. Ma tra i tanti capitoli che l’hanno finora composta – e sottolineiamo finora – quello ambientato sulla scena delle Olimpiadi si presenta come uno dei più significativi ed esaltanti. Intanto per la sua durata: un periodo lungo cinque decadi che, in una veste o nell’altra, lo hanno visto protagonista delle vicende del basket italiano. Poi anche per i suoi contenuti: perché vi si può riscoprire il talento di un atleta in grado di emergere a livello internazionale e la sapienza di un coach che ha saputo infondere, con successo, la sua mentalità di combattente. Sullo sfondo, più che mai vivo, il colore azzurro, con i tanti valori che si porta dietro.
«La maglia della Nazionale ha sempre un richiamo particolare. Indossarla alle Olimpiadi è il massimo delle aspirazioni, una esperienza davvero unica nella vita di un atleta; e anche di un allenatore…». Che l’argomento lo avesse subito stimolato non c’erano dubbi. Tanto più che, dopo avere concluso brillantemente la sua stagione alla guida della Cimberio Varese (play-off e qualche fastidio alla favoritissima Siena), la mente di Recalcati si lascia facilmente trasportare dai ricordi. E se le tappe da ripercorrere sono quelle contrassegnate dai cinque cerchi, si tratta di andare indietro un bel po’, alla seconda metà degli anni Sessanta.
Debutto in azzurro l’11 maggio del ‘67, a Napoli: «Era una partita amichevole contro la Polonia, che vincemmo di un punto. Avevo ventidue anni; il professor Paratore era pronto a lanciarmi già l’anno prima, sennonché fui fermato da un elettrocardiogramma con qualche segno strano, eseguito all’ospedale di Gorizia… Dopo Napoli, comunque, entrai stabilmente in squadra. Fu una estate piena di impegni (ricordo anche tornei a Messina e Catania) in preparazione a ben tre competizioni internazionali: i Mondiali in Uruguay, i Giochi del Mediterraneo in Tunisia e gli Europei in Finlandia…». Erala Nazionale che Paratore stava ridisegnando in vista delle Olimpiadi di Città del Messico, col proposito di arrivare a quella medaglia che era già sfuggita a Roma ’60 e a Tokyo ’64 (quarto e quinto posto, rispettivamente).
Al gruppo dei veterani (Lombardi, Vittori, Vianello, Bufalini, Flaborea, Masini, Gatti) era stato affiancato quello dei giovani (Cosmelli, Bovone, Jessi, oltre a Recalcati). Essendo responsabile sia della prima squadra che di quella juniores, il prof. Paratore sapeva bene dove mettere le mani per inserire forze nuove. «Devo molto al Professore, e non solo perché ha creduto in me come giocatore… Era un allenatore molto serio e preparato, quasi austero, gli bastavano poche parole per infondere il suo credo cestistico. Fuori dal campo, poi, diventava una persona piacevolissima, che cercava di coinvolgerti in tante attività; non mi riferisco solo alle partite a bridge (di cui era notoriamente un esperto) ma anche ad altre iniziative più utili: una volta organizzò per la comitiva della Nazionale un corso di inglese!».
Nel ’68 Carlo Recalcati era già per tutti «Charly», il nomignolo che sapeva tanto di americano, secondo la moda cestistica del tempo. Già da qualche anno si era affermato nella squadra di Cantù, dopo essere stato sradicato da un oratorio della periferia di Milano (sua città natale) e da una famiglia che su di lui aveva fatto altri progetti. Il suo ruolo in campo era quello di guardia (quando ancora non si chiamava così), la sua qualità il tiro da fuori: rapido, elegante, preciso, spesso imprevedibile. «Penso di averlo acquisito da Bora Stankovic, uno dei miei primi allenatori: da buon jugoslavo mi ha insegnato non solo lo stile di esecuzione, ma anche l’intraprendenza nel cercare di sfruttarlo in qualsiasi situazione, anche in quelle apparentemente complicate…». E fu soprattutto grazie ai suoi canestri (mentre in difesa si ergeva il famoso «muro» Burgess-Merlati-De Simone) che la società brianzola, allora targata Oransoda, si aggiudicò il suo primo scudetto, proprio alla vigilia dell’appuntamento olimpico.
«A Città del Messico eravamo arrivati carichi di entusiasmo e convinti di far bene. Quella era, a mio avviso, la migliore formazione che Paratore aveva allestito da quando si trovava alla guida della Nazionale; nessuno si aspettava che ci si fermasse a quel deludente ottavo posto…». Proprio inaspettato, soprattutto dopo le prime quattro vittorie di fila del girone eliminatorio; Recalcati, tra gli altri giovani, si era messo in luce, andando in doppia cifra (12 punti) nella partita inaugurale. Poi l’episodio che invertì la rotta… «Già, la partita con la Jugoslavia del grande Korac persa al supplementare… Che occasione sprecata per noi! Ogni volta che capita di incontrarsi con i compagni di squadra di allora, riviviamo quei momenti, e soprattutto quel contropiede fallito al termine dei tempi regolamentari, che invece di regalarci la vittoria (e da lì poteva venir fuori una medaglia) mise addirittura nelle loro mani il pallone per pareggiare…».
Non ci fu fortuna ma neanche voglia di reagire, e la squadra si sfaldò, perdendo altre tre partite. La spedizione in Messico venne così giudicata un fallimento, con conseguente esonero di Paratore. Sotto questo punto di vista, un debutto olimpico non proprio felice per Recalcati. «Per la verità, ebbi anche un malanno che mi impedì di giocare le ultime due partite, ma forse fu provvidenziale, perché mi risparmiò l’onta di quelle inattese sconfitte…. Comunque, al di là del risultato, fu per me una avventura straordinaria: per la prima volta vivevo le emozioni di un villaggio olimpico, che ti fa davvero crescere perché ti insegna a stare insieme a tutti gli atleti (di ogni sport e di ogni nazione) e a rispettarli… Ricordo anche quella atmosfera un po’ pesante per le strade di Città del Messico, con manifestazioni e polizia dappertutto; però la gente del posto fu molto cordiale e amichevole con noi…».
Nel passaggio di consegne da Nello Paratore a Giancarlo Primo le cose non cambiarono in azzurro per Recalcati. Almeno nei primi anni. Restò uno dei pochi punti di fermi in una formazione completamente rivoluzionata, che era stata invasa dalla nuova corrente lombarda (Meneghin, Ossola, Bisson, Bariviera, Zanatta, e poi Iellini, Marzorati). Carlo c’era – eccome! – agli Europei di Napoli del ’69, ai Mondiali di Lubiana del ’70, ai successivi Europei del ’71 in Germania Ovest con medaglia di bronzo annessa. Pronto a disputare la sua seconda Olimpiade consecutiva a Monaco, e invece… «Invece, dopo aver fatto tutta la preparazione fino all’estate del ’72, al termine del “Trofeo Lo Forte” di Messina il mio nome non figurò tra i convocati… Ci rimasi molto male allora, non posso nasconderlo, ma poi ho capito che bisognava accettare tutto serenamente. L’ho capito soprattutto quando sono diventato allenatore, un incarico che ti obbliga spesso a delle scelte spiacevoli, ancor più se ti trovi alla guida di una rappresentativa nazionale…».
Addio maglia azzurra, addio Olimpiadi! A 27 anni non bisognava essere proprio pessimisti per lasciarsi prendere da certi pensieri. Per fortuna la mano di Charly, in campionato, si era mantenuta ben calda. Cantù era sempre più la sua roccaforte; col nuovo allenatore Arnaldo Taurisano e con i «fratellini» Marzorati e Della Fiori poteva lanciarsi verso un futuro di successi, altro che rimpiangere il passato! Dopo avere arricchito la bacheca della società con tre Coppe Korac consecutive, una Coppa Intercontinentale e un altro scudetto (la gloriosa Forst dei primi anni Settanta), Giancarlo Primo pensò che forse sarebbe stato meglio farci due chiacchiere con quel «vecio» trentenne che continuava a perforare la retina da tutte le posizioni. Richiamato in Nazionale, partecipò agli Europei del ’75, e i suoi canestri evitarono l’eliminazione per mano dell’Olanda, prima che arrivasse un altro bronzo; a quel punto si ritrovò un biglietto gratis per le Olimpiadi di Montreal dell’anno dopo.
«Tornare a vivere l’atmosfera dei Giochi fu davvero una gioia immensa… Quella volta volli assaporare tutto, a cominciare dalla sfilata di apertura che mi era mancata a Città del Messico… E poi di nuovo il villaggio olimpico, le stesse sensazioni di otto anni prima…». La squadra azzurra ancora alla ricerca del podio, dopo averlo sfiorato a Monaco. Le buone premesse c’erano tutte, specie dopo il brillante pre-olimpico di Edimburgo, dove venne battuta anche la Jugoslavia campione d’Europa. «E dire che stavamo per batterla pure a Montreal, eravamo sedici punti avanti… Il solito canestro beccato all’ultimo secondo (ce l’ho ancora davanti agli occhi quel tiro di Slavnic), e un’altra medaglia che abbiamo visto volare via… ». Di certo, in quella partita non furono sufficienti i suoi 8 punti, lui che si sentiva un po’ slavo per quelle caratteristiche da cecchino. «Peccato! Primo aveva in mano una squadra che sembrava ormai matura per un grande traguardo, solida in difesa come piaceva a lui, ragionatrice in attacco… Devo ammettere, però, che il rendimento in Canada non fu all’altezza delle nostre possibilità, e sicuramente ci mancò anche un po’ di fortuna…». Il buon quinto posto non bastò a placare le recriminazioni.
La parentesi azzurra da giocatore, per Recalcati, si chiudeva definitivamente. Su altri fronti, strade ancora aperte. A Cantù rimase protagonista per tre stagioni, con altrettante vittorie in Coppa delle Coppe. Poi due anni in serie B a Parma, per un passaggio graduale verso la seconda parte della sua carriera cestistica: allenatore in campo, prima di diventarlo in panchina. E qui l’inizio di una lunga storia, non ancora finita. Lasciò le sue belle tracce a Bergamo, nella sua Cantù, a Reggio Calabria (gli anni d’oro della Viola), a Milano. Quando fece vedere che era in grado di vincere anche scudetti, e con squadre diverse (Varese, Bologna, sarebbe poi arrivato quello a Siena), la Federazione non poteva più restare indifferente, e lo invitò alla guida della Nazionale, in sostituzione di Boscia Tanjevic. Era il 2001.
Con l’abbandono di giocatori di grande personalità, come Carlton Myers, Gregor Fucka e Andrea Meneghin, bisognava avviare un nuovo ciclo. Recalcati si rimboccò le maniche per costruire una squadra di veri combattenti, distribuendo le responsabilità e incoraggiando tutti a esprimere il meglio di loro stessi. «La chiamarono “squadra operaia”, una definizione niente affatto riduttiva: quello di lottare su ogni pallone, di evitare in tutti i modi di subire un canestro o magari di realizzarlo senza ricorrere a una azione spettacolare, era in fondo un merito… Ma venne fuori anche la qualità: giocatori come Basile, Galanda e Soragna, tanto per citarne solo alcuni, dimostrarono di essere anche loro di ottimo livello… ».
Il bronzo agli Europei in Svezia nel 2003 aprì le porte delle Olimpiadi di Atene e accese i sogni di tutti. Recalcati ne aveva ancora uno di sogno (conquistare una medaglia ai Giochi) rimasto lì in sospeso, se non proprio dimenticato. Ambizioni ed esperienze da mettere al servizio degli altri… «Ho cercato innanzitutto di far capire ai ragazzi quale fosse il vero spirito olimpico; vivere nel villaggio, ad esempio, non era come stare in un albergo per una trasferta qualsiasi… E poi naturalmente ho puntato molto sulla loro determinazione; bisognava sempre dare il massimo, ma in un torneo come quello c’erano alcune partite (lo avevo imparato a mie spese da giocatore) che potevano risultare determinanti, e lì ci voleva la concentrazione giusta… ». Come quella che l’Italia mise in campo contro il Portorico nei quarti e contro la Lituania in semifinale: due capolavori, premiati dalla conquista dell’argento. «In quelle partite ci siamo proprio superati, soprattutto contro la Lituania, che era campionessa d’Europa e aveva tanti fuoriclasse… Poi la finale persa con l’Argentina: anche in quella occasione si è giocato alla grande, più di quello non si poteva… Negli ultimi secondi di gioco gridavo ai miei giocatori che non dovevano affatto dispiacersi: avevamo vinto l’argento, non perso l’oro! ».
Il podio, il tricolore che sale, la corona di ulivo in testa, una squadra che entra nella storia! Quelle immagini di trionfo provenienti da Atene erano destinate a chiudere un periodo felice. Da allora a oggi solo eliminazioni alle competizioni internazionali (le Olimpiadi tra queste): amarezze condivise dallo stesso Recalcati fino al 2009, quando ha lasciato l’azzurro per riprendere a Varese il suo rapporto esclusivo col campionato. «Proprio all’indomani del successo di Atene feci presente che sarebbe stato difficile avere una continuità di risultati: andava fatto qualcosa, alla base, per formare una nuova generazione di cestisti di valore, visto che nelle nostre squadre di club si lasciava sempre più spazio agli stranieri…». Non ci fu il salto di qualità neanche con l’apporto dei giocatori italiani emigrati in USA… «A volte l’inserimento di un NBA in un contesto diverso da quello in cui si è trovato per una intera stagione può rappresentare un problema, piuttosto che un valore aggiunto… Comunque, penso che il lavoro che sta impostando Pianigiani, ripartendo da una Nazionale sperimentale, riuscirà a dare i suoi frutti. Almeno è quello che gli auguro, per lui e per il nostro basket…». Sperando che sul prossimo treno olimpico, quello che porterà a Rio de Janeiro nel 2016, ci si possa finalmente risalire!
Nunzio Spina
[25 – segue Atene 2004, continua con Pechino 2008]