Cathy Freeman, aborigena protagonista… La Vezzali, la Idem e la Sensini… Boscia Tanjevic e la Nazionale azzurra che rientra alle Olimpiadi…
Ci voleva un altro mondo per fare rinascere il puro clima olimpico. Qualcosa fuori dal tempo, libero da ingerenze politiche, svincolato dagli interessi commerciali, senza alcuna macchia di doping o di scandali. Un altro mondo! Che ovviamente non c’era. Ma Sidney, città di più di 4 milioni di abitanti, cuore finanziario e culturale dell’Australia, incrocio ben riuscito di tradizione e di progresso, si avvicinò molto a quella utopia. Le sue Olimpiadi aprirono il nuovo millennio, e sembrò proprio di entrare in una nuova dimensione di vita e di sport; o di riviverla, se mai qualcuno avesse ancora conservato il ricordo – e lo spirito – dei Giochi di un tempo.
Di boicottaggio non si parlava ormai da diverse edizioni, però si fece sentire e vedere una rinnovata voglia di pace. La espressero in maniera clamorosa, e del tutto inattesa, gli atleti delle due Coree, che decisero di sfilare insieme nella cerimonia inaugurale, tenendosi per mano sotto un’unica bandiera simbolica: in diretta TV, il gesto colpì l’animo di tutti, anche se purtroppo restò senza un seguito concreto. Persino l’Australia volle mettere in vetrina il suo desiderio di riconciliarsi con se stessa: ad accendere il braciere olimpico, in un suggestivo gioco di acqua e di fuoco, venne invitata Cathy Freeman, atleta aborigena, che incarnava gli ideali di libertà e di integrazione con i vecchi colonizzatori europei.
In primo piano sempre gli atleti, le loro capacità, il loro pensiero anche. Gli sponsor dietro, da supporto, non da protagonisti. Era la forma più elegante per sostenere le spese o recuperare quanto investito, e alla fine risultò ugualmente redditizia. Gli introiti della pubblicità non mancarono, ma si puntò di più sulla comunicazione e sul multimediale: così si mise insieme l’utile e il dilettevole, perché l’Australia sfruttò questi mezzi per offrire la sua bella immagine di paese civile e moderno. Stavolta niente veli, niente misteri: da questo punto di vista, l’Olimpiade di Melbourne ’56, la prima approdata sul Continente Nuovo, sembrò ancora più lontana degli anni realmente trascorsi.
L’apparato organizzativo stupì per maestria, precisione ed effetti speciali. Furono appositamente costruiti impianti molto avanzati, che oltre alle loro virtù architettoniche si facevano apprezzare per la tutela dell’ambiente, un valore prioritario da quelle parti. L’energia solare – tanto per fare un esempio di sviluppo e di sana economia – veniva utilizzata per alimentare gli stadi e l’intero villaggio olimpico. Collegamenti perfetti, ordine, puntualità: tutto il contrario del «circo» caotico di Atlanta, un confronto che, per vicinanza temporale, non poteva proprio sfuggire all’attenzione generale. In più c’era un’atmosfera speciale, quella che solo una nazione con la più alta percentuale di sportivi poteva dare.
Che l’Australia si mostrasse più vicina al resto del mondo di quanto non lo fosse stata in passato lo manifestò anche il numero delle nazioni e degli atleti partecipanti:199 le prime, 10651 i secondi; in questo campo i record non resistevano più di quattro anni. Lo stesso fenomeno riguardava l’elenco delle discipline (spazi nuovi al triathlon, al taekwondo) e la quantità delle gare, che arrivarono a quota 300. In certi casi si trattava solo di una semplice apertura alle donne, come per il pentathlon o per il (virile quanto mai) sollevamento pesi. Il fatto che su 32 specialità sportive solo quattro fossero rimaste esclusive del sesso maschile era un altro importante segnale di rinnovamento.
E dalle donne si potrebbe cominciare, nella rassegna dei campioni di questa Olimpiade. Riservando magari la copertina alla già citata Kathy Freeman. L’atleta aborigena, che con la sua tuta bianca integrale aveva acceso – di fuoco e di allegorie – la cerimonia d’apertura, fu protagonista anche nella pista dello stadio olimpico, aggiudicandosi con uno sforzo incredibile la gara dei 400 piani. Un intero paese aveva palpitato per quella medaglia d’oro, che sapeva tanto di orgoglio e di riscatto. La storia avrebbe reso più meriti a lei (peraltro unico caso di ultimo tedoforo che sia diventato campione olimpico nella stessa edizione) che alla californiana Marion Jones, la quale di medaglie riuscì a conquistarne ben cinque sulla stessa pista (tre d’oro, 100, 200 e 4 x 400, due di bronzo, salto in lungo e 4 x 100). All’atletica, la Jones, era arrivata dopo una felice esperienza da cestista (playmaker del North Carolina, un titolo universitario vinto), e a 25 anni trovava finalmente la sua prima opportunità ai Giochi. Sarebbe rimasta sempre su quell’altare di gloria, se a distanza di sette anni non avesse ammesso di essere entrata nel tunnel del doping, traviata dal marito, il pesista Hunter, che a Sidney non aveva gareggiato perché trovato positivo al nandrolone. Fu costretta a restituire le sue medaglie; cadde nella polvere!
L’Italia fece la sua bella figura in questa sorta di festival dell’emancipazione. Delle tredici medaglie d’oro portate a casa, ben sei furono al femminile, un risultato mai raggiunto, né prima né dopo. Per quasi tutte si trattava di repliche, e quindi di imprese ancora più meritevoli, se è vero che il trascorrere del quadriennio poteva aumentare il peso della responsabilità, oltre che della concorrenza. Paola Pezzo si ripeté nella mountain bike, stavolta con una maglietta accollatissima, perché non le andava di essere divenuta famosa più per quella zip slacciata davanti che per le sue capacità agonistiche. La collega Antonella Bellutti volle dimostrare che su una bici da pista era in grado di vincere pur cambiando specialità: dall’inseguimento di Atlanta alla corsa a punti di Sidney. Riuscirono addirittura a migliorarsi le ragazze della scherma: Valentina Vezzali, stavolta, scalò anche il gradino più alto del podio nella prova individuale di fioretto, dove confermò il bronzo la concittadina Giovanna Trillini; a braccetto poi si ripresero l’oro nella prova a squadre, insieme alla milanese Diana Bianchedi, che l’anno successivo sarebbe stata eletta vicepresidente del CONI.
A proposito di attese non tradite, quello di Josefa Idem fu l’oro che suggellava una carriera ormai lunga, ma nella quale non si riusciva ancora a intravedere la fine. Aveva già 36 anni la tedesca naturalizzata italiana (per il matrimonio con il suo allenatore Guglielmo Guerrini) e un figlio di cinque anni; cinque, come le sue partecipazioni olimpiche. Nel K1 500 giunse finalmente il suo trionfo, e l’inno di Mameli riuscì a far commuovere pure lei… A trasformare nel metallo più pregiato il bronzo di Atlanta ci pensò anche Alessandra Sensini, toscana dal carattere forte, in grado con la sua tavola da windsurf di domare onde e avversarie: prima nella classe Mistral, e di lei si sarebbe sentito ancora parlare.
Tanto per completare il quadro delle medaglie azzurre al femminile, Ylenia Scapin vinse uno dei tre bronzi che portarono alla ribalta il judo, mentre con Deborah Gelisio scoprimmo che il double trap era una specialità del tiro a volo (il trap più famoso a livello sportivo era stato fino allora… il mister Giovanni Trapattoni) e che un argento olimpico procurava molta più popolarità di ben tre titoli mondiali vinti in precedenza. Era già invece al centro dell’attenzione la saltatrice in lungo Fiona May: lo era per l’oro ai Mondiali di Goteborg nel ’95, per l’argento ad Atlanta ’96 e, perché no, anche per il colore nero della sua pelle, che aveva in qualche modo aperto una nuova epoca nel processo di evoluzione multirazziale del nostro paese. Nata in Inghilterra da genitori giamaicani, naturalizzata anche lei per matrimonio (con l’atleta Gianni Iapichino), Fiona aveva tutte le qualità – straordinarie quelle fisiche – per inseguire a Sidney l’oro olimpico: si fermò ancora una volta all’argento, e il rammarico crebbe ancor più l’anno dopo, quando fu in grado di rivincere i Mondiali.
Un segnale forte, in tema di colore di pelle e di integrazione etnica, lo sport italiano lo aveva voluto dare già nella cerimonia di apertura, affidando a Carlton Myers – cestista di carnagione nera per i geni giamaicani trasmessi dal papà – il ruolo di alfiere. Inevitabili le polemiche, altri atleti onorati da medaglie olimpiche avrebbero potuto, legittimamente, trovarsi lì al suo posto. Era stato il presidente del CONI, Gianni Petrucci, a mettergli praticamente in mano la bandiera tricolore, incurante delle critiche e forse un po’ influenzato dal suo passato di presidente FIP. Myers non aveva mai partecipato a una Olimpiade, ma il suo tenero sorriso, la sua accattivante inflessione romagnola, il suo impegno sociale a favore dei più deboli (senza tener conto delle doti di giocatore completo e spettacolare) lo avevano reso un personaggio simpatico e comunicativo. Una scelta di immagine, sostanzialmente, e di messaggi che vi si potevano leggere: ognuno aveva i suoi da lanciare al mondo!
Il basket azzurro non aveva mai sfilato così in prima linea in una Olimpiade, neanche ai tempi in cui era solita lottare per una medaglia. La presenza di Myers come portabandiera volle in qualche modo festeggiare il ritorno della Nazionale maschile dopo l’ormai lontana edizione di Los Angeles ’84, quando in campo c’erano ancora Meneghin e Marzorati. Un forfait che si era protratto per tre edizioni; troppe! Sulla panchina, da allora, si erano avvicendati tre allenatori; in campo, altrettante generazioni di giocatori. Un periodo sfortunato, non proprio di decadenza. A livello europeo si era rimasti quasi sempre a buoni livelli, solo che la selezione si era fatta più dura, e quelle volte in cui si era riusciti a conquistare una medaglia (il bronzo nell’85, l’argento nel ’91) non era servito a guadagnare la qualificazione per i Giochi.
Un cambiamento di rotta sarebbe arrivato già col tecnico Ettore Messina, che dopo avere mancato l’appuntamento con Atlanta ’96, aveva riportato sul podio la Nazionale agli Europei di Barcellona dell’anno successivo: argento di valore, battendo in semifinale la Russia e perdendo in finale con la Jugoslavia. Carlton Meyers e Gregor Fucka erano già punti di forza della squadra; attorno a loro, altri giovani avevano trovato il loro spazio, tra cui Alessandro Abbio (guardia scattante della Virtus Bologna), Denis Marconato (centro di 2 e 11, cresciuto cestisticamente nella sua città, Treviso), Giacomo Jack Galanda (2 e 10, pivot con buona adattabilità al gioco da esterno).
Messina, come altre volte gli sarebbe successo nella sua ancora inarrestabile carriera, lasciò l’incarico sul più bello, in cerca di nuovi stimoli e di nuove avventure. Al suo posto venne chiamato Bogdan Boscia Tanjevic, tecnico montenegrino, che dopo avere guidato il Bosna Serajevo alla conquista della Coppa dei Campioni nel ’79 e la Nazionale jugoslava all’argento europeo del ’91, trovò – per così dire – l’America in Italia, con positive esperienze a Caserta e Trieste (promozione in A1 e lancio di giocatori come Gentile e Bodiroga), e a Milano (uno scudetto e una Coppa Italia nel ’96). Dopo Elliot Van Zandt e Jim McGregor, era la terza volta che la Federazione si affidava a un allenatore straniero (escludendo ovviamente il prof. Nello Paratore che veniva dall’Egitto); ma se ai tempi deltenente nero e del gitano rosso c’era ancora bisogno di apprendere fondamentali e metodiche di allenamento dai maestri statunitensi, stavolta l’esigenza era di trovare un tecnico di spiccata personalità, in grado di valorizzare i giovani e di trasmettere grinta alla squadra. Tanjevic aveva questi requisiti, e poi di straniero – dopo quindici anni trascorsi nel nostro paese – aveva ormai solo l’accento slavo che sgorgava dalla sua irruente loquacità.
L’esordio di Boscia sulla panchina azzurra fu incoraggiante. Ai Mondiali del ’98 in Grecia arrivò il sesto posto, ottimo piazzamento se si tiene conto che per trovarne uno simile bisognava andare indietro di dodici anni. Al blocco ricevuto dalle mani di Messina (Meyers, Fucka, Abbio, Galanda, Marconato), Tanjevic aveva aggiunto i giovani Andrea Meneghin (figlio del grande Dino, cresciuto a Varese nel ruolo di ala), Roberto Chiacig (centro di 2 e 10 in forza a Treviso e poi a Bologna sponda Fortitudo), Gianluca Basile (talentuoso play-guardia, dall’imprevedibile tiro dalla lunghissima distanza), Alessandro De Pol (ala di 2 e 04 poco appariscente ma molto redditizia) e Marcelo Damiao (un pivot di stazza, brasiliano naturalizzato). La squadra messa su aveva fantasia, grinta e compattezza. Con questi ingredienti, l’anno dopo, riuscì a confezionare il suo capolavoro, andando a vincere l’Europeo in Francia, dopo avere nettamente battuto la Russia ai quarti (102 a 79), la Jugoslavia in semifinale (71 a 62) e la Spagna in finale (64 a 56). Tra le scene di esultanza di quella indimenticabile serata di Parigi, il lungo abbraccio tra Dino Meneghin (divenuto team manager della Nazionale) e il figlio Andrea (uno dei protagonisti in campo) fu l’espressione più bella e significativa del grande riscatto ottenuto dal basket italiano.
Si esultò e si proiettò in avanti lo sguardo: all’orizzonte c’erano le Olimpiadi, dove si tornava finalmente dopo una lunga assenza. Sidney cominciò a far sognare…
Nunzio Spina
[22 – segue Atlanta 1996, continua con la seconda puntata di Sydney 2000]