Gli Azzurri in mano ad Ettore Messina… Le azzurre si tolgono qualche soddisfazione… Miguel Indurain… 13 ori per gli italiani… Il signore degli anelli, Yuri Chechi…
Dopo Seul, Barcellona; e poi Atlanta. Per la terza edizione consecutiva l’Italia maschile del basket non rispose all’appello del torneo olimpico. Accanto alle inevitabili preoccupazioni, suscitate già quattro anni prima, aumentò anche il rimpianto di non avere ancora una volta preso parte – pur da comprimaria – al festival del Dream Team americano. Se fosse il nostro livello cestistico ad avere accusato un calo o piuttosto quello delle altre nazioni a essere progredito è ancora oggi questione dibattuta. Una cosa è certa: la concorrenza a livello europeo era cresciuta notevolmente, quanto meno in termini numerici, per via della disgregazione politica dell’ex URSS e della ex Jugoslavia. Se poi ci si metteva di mezzo un regolamento di qualificazione olimpica che, di fatto, penalizzava i paesi del Vecchio Continente, il quadro delle attenuanti diventava abbastanza esauriente.
Chiusa definitivamente l’era-Gamba, sulla panchina azzurra era stato promosso il giovane Ettore Messina (nascita a Catania, infanzia e adolescenza a Mestre, primi successi da allenatore a Bologna). A soli 33 anni aveva già messo in bacheca una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe e uno scudetto; preparato, serio, coraggioso e determinato nell’inseguire le sue ambizioni, la Federazione puntò su di lui per cercare di dare una scossa all’ambiente. Altalenanti i primi risultati. Subito un oro all’esordio, ai Giochi del Mediterraneo del ’93 in Francia; ma appena gli orizzonti geografici si allargarono un po’ – Campionato Europeo in Germania pochi giorni dopo – ecco una mancata qualificazione nei primi otto posti, dopo aver ceduto a Lettonia (di 1 punto), Grecia, Spagna e Russia. Poi un’altra medaglia, d’argento, ai Goodwill Games di San Pietroburgo del ’94, manifestazione a livello mondiale, creata quasi in antagonismo alle Olimpiadi per allentare le tensioni della Guerra Fredda (letteralmente «Giochi delle buone intenzioni»). Nel successivo Europeo in Grecia del ’95 si riuscì a riscattare l’edizione precedente con un buon quinto posto (stavolta sconfitte Russia e Spagna nelle ultime due partite), che però non bastò a far guadagnare il pass per Atlanta.
Intanto la squadra si rinnovava. Uscivano di scena Brunamonti, Riva, Premier, Costa, Dell’Agnello; a rappresentare la continuità col passato restavano Gentile, Pittis, Rusconi e Magnifico; tra i numerosi giovani lanciati, Carlton Myers e Gregor Fucka lasciavano intravedere un futuro interessante. Singolare la loro storia, che in qualche modo li accomunava. Meyers era nato a Londra, da padre caraibico e madre pesarese, con la quale si trasferì in Italia, a Rimini, all’età di 9 anni. Il papà ne voleva fare un musicista, ma al flauto, Carlton, preferì ben presto lo sport: provò varie discipline, poi qualcuno capì che col pallone di basket il suo rapporto era quasi ancestrale. Sotto la guida di Claudio Papini, istruttore con la mania dei fondamentali, fece la sua scalata nelle giovanili del Basket Rimini, riuscendo ad aggiudicarsi il titolo tricolore in tutte le categorie (caso unico in Italia): Propaganda, Ragazzi, Allievi, Cadetti e Juniores. Quest’ultimo successo venne ottenuto nel ’91, battendo in finale la Stefanel Trieste di Gregor Fucka. Anche lui classe ’71, era nato a Krani, in Slovenia; se Carlton aveva ereditato il colore mulatto delle isole caraibiche, Gregor si portava dietro i lineamenti tipici della etnia slava. Col trasferimento a Trieste (dove era pronto ad accoglierlo e a lanciarlo Bogdan Tanjevic) arrivò a 19 anni anche il cambio di cittadinanza. Le strade dei due oriundi erano destinate a incontrarsi: in Nazionale prima, poi nella Fortitudo Bologna dove si sarebbero ritrovati a esultare per la conquista dello scudetto nella stagione ’99-2000. Proprio l’anno in cui, anche per loro, il sogno olimpico sarebbe diventato realtà.
Di basket italiano si parlò comunque, ad Atlanta. Merito della squadra femminile, che per la seconda volta consecutiva riuscì, per così dire, a colmare il vuoto. Il tecnico delle Olimpiadi di Barcellona, Franco Novarina, si era dimesso dopo l’amarezza degli Europei di Perugia del ’93, quando invece di un possibile trionfo era arrivato un deludente quarto posto, con due sconfitte all’ultimo secondo (Francia in semifinale e Slovenia nella finale per il bronzo). Al suo posto era stato chiamato Riccardo Sales, allenatore di lungo corso nel settore maschile, sia in importanti squadre di club, che in Nazionale come vice di Sandro Gamba. Portò tanta di quella esperienza (e di serietà professionale) da sospingere presto la squadra verso traguardi prestigiosi. Nel ’95, un oro alle Universiadi di Fukuoka e un argento agli Europei di Brno: per trovare un piazzamento migliore in questa competizione bisognava andare indietro nientemeno che alla prima edizione, quella del lontano 1936 a Roma, quando il basket femminile era praticamente un altro sport; poi solo un bronzo, nel ’74 a Cagliari.
Giunta di slancio al torneo di Atlanta, la Nazionale di Sales ottenne subito un risultato storico. Nella partita d’esordio batté la Cina (75 a 72), squadra che si era peraltro aggiudicato l’argento a Barcellona: era il primo successo delle azzurre alle Olimpiadi! Sulle ali dell’entusiasmo, ne arrivarono altre due di vittorie, con Canada e Giappone; dopo l’onorevole sconfitta con la Russia (75 a 70), stava per scapparci un’altra prodezza contro le fortissime brasiliane, che alla fine ebbero la meglio per un solo punto (74 a 73). Fu comunque raggiunta la qualificazione ai quarti, ma lì si ruppe l’incantesimo. Di fronte ci si ritrovò la «bestia nera» Ucraina, che alle azzurre aveva negato l’oro nell’europeo di Brno: era la partita decisiva, che avrebbe potuto spianare la strada verso la semifinale e, perchè no, verso una possibile medaglia; invece, capitò la giornata no, peraltro in una partita giocata male da entrambe le parti, e una sconfitta senza attenuanti (59 a 50). Non fu facile smaltire la delusione; si arrivò tanto demoralizzati alla finale per il 7° posto (dopo la sconfitta con Cuba) da perdere anche quella, addirittura col Giappone già sconfitto nel girone eliminatorio. Risultato finale: 8° posto, lo stesso di Mosca ’80 e di Barcellona ’92; ma stavolta non si trattava dell’ultimo, perché le squadre partecipanti erano dodici, e qualche soddisfazione in più c’era sicuramente stata.
Tra le azzurre, quattro giocatrici avevano già respirato aria di Olimpiadi, a Barcellona ’92: erano Mara Fullin, Catarina Pollini, Elena Paparazzo (che nel frattempo si erano ritrovate tutte e tre insieme nella Comense, aggiudicandosi gli ultimi due scudetti) e Pina Tufano (la «due metri» lanciata da Priolo, poi trasferitasi ad Avellino e a Cesena). Attorno a loro, Sales aveva ridisegnato la squadra, lasciando spazio a giovani che, per caratteristiche tecniche e atletiche, si avvicinavano di più alla sua filosofia di gioco. In bella evidenza il gruppo delle «piccolette», abili soprattutto in contropiede e nelle conclusioni a canestro, formato da Viviana Ballabio, Nicoletta Caselin, Valentina Gardellin e Susanna Bonfiglio. Una play-guardia di grande talento, quest’ultima; Santino Coppa, profeta di Priolo, aveva visto bene nel portarsela via, ancora quindicenne, dalla natia Liguria: a 17 anni era già una protagonista del massimo campionato, a 20 arrivava la prima chiamata in Nazionale e di lì a poco i primi successi con la gestione Sales. Artefice del secondo scudetto di Priolo (nel 2000), Susanna sarebbe diventata la prima giocatrice italiana a militare, seppure per poco tempo, nella Women NBA, con la divisa della Phoenix Mercury, e sicuramente tanti altri titoli avrebbe potuto collezionare se gli infortuni non l’avessero perseguitata fin da giovanissima.
In quel torneo femminile di Atlanta dominò la squadra USA, che a buon diritto avrebbe potuto sottrarre ai colleghi maschi l’appellativo di Dream Team. Non si trattava solo di una selezione di tutte professioniste; pur di raggiungere l’oro (sfuggito a Barcellona) i dirigenti decisero di organizzare una preparazione di dieci mesi, bloccando per un’intera stagione anche le giocatrici impegnate all’estero. Il loro successo fu strepitoso: otto vittorie su altrettante partite, fino alla finalissima con l’imbattuto Brasile, con una media spettatori di più di 25.000, cifre mai registrate nel settore. Teresa Edwards, georgiana, beniamina di casa, era alla sua quarta Olimpiade (e non sarebbe stata l’ultima); Lisa Leslie, formidabile saltatrice che riusciva a schiacciare a canestro, realizzò il record individuale di 35 punti: sarebbe stato quello, per lei, il primo di quattro ori olimpici consecutivi; in questa felice avventura, l’avrebbe in parte accompagnata Sheryl Swoopes, guardia di 1 e 82, giunta poi a Taranto nel 2005-06.
Nel basket come nelle altre discipline che avevano aperto le porte ai professionisti andava sempre più perdendosi il gusto di scoprire il campione; era lui piuttosto, già conosciuto e osannato, ad avere intorno a sé un’atmosfera di attesa. A qualcuno la cosa spaventava (parliamo di atleti, ma anche di federazioni) e preferiva declinare l’invito; altri non ci pensavano due volte a partecipare: una medaglia olimpica poteva anche non essere così remunerativa in maniera diretta, ma in fatto di immagine (e quindi anche di ritorno pubblicitario) ci si poteva guadagnare tanto. Un ragionamento del genere lo fece sicuramente Miguel Indurain, il ciclista spagnolo che aveva già vinto per due volte il Giro d’Italia e per ben cinque il Tour de France, corsa a tappe dalla quale era stato appena detronizzato. Volle rischiare sulla sua pelle e gli andò bene: oro nella prova a cronometro, adesso sì che poteva dare l’addio alla carriera!
L’Italia non ebbe di queste opportunità, e tutto sommato fu meglio così. Se arrivava sul podio, si trattava sempre di imprese; al massimo tra i favoriti, i suoi protagonisti, mai vincitori scontati, né tanto meno banali. Così le 35 medaglie conquistate, con ben 13 ori, fecero proprio un bell’effetto. Per ritrovare un bottino di proporzioni simili bisognava tornare indietro a Los Angeles ’84 (un oro in più, ma in totale tre medaglie in meno), e quelle erano Olimpiadi da boicottaggio. Si tornava nella parte alta del medagliere, con un sesto posto (dopo USA, Russia, Germania, Cina, Francia, nell’ordine) di grande prestigio per lo sport azzurro.
A suscitare le emozioni più forti fu la medaglia d’oro di Yuri Chechi. Aveva già vinto di tutto, il ginnasta di Prato: Europei, Mondiali, Universiadi, Giochi del Mediterraneo; a Seul era ancora troppo giovane (19 anni) per inseguire un successo, ma a Barcellona una medaglia sarebbe stata alla sua portata, se la rottura del tendine d’Achille non l’avesse messo fuori gioco appena un mese prima. Il podio olimpico gli mancava, e pur di raggiungerlo aveva stretto i denti per quattro lunghi anni di riabilitazione e di duri allenamenti. Ad Atlanta sembrò inizialmente farsi vincere dalla paura, tra cadute ed errori nel concorso generale, ma quando arrivò il suo momento – la prova individuale agli anelli – mise tutta la determinazione che aveva dentro e realizzò un esercizio quasi perfetto (9,887). Diventava l’indiscusso «Signore degli Anelli», parafrasando l’epico romanzo di Tolkien, ben prima che fosse reso ancor più popolare dalla saga cinematografica dei primi anni 2000.
In certi sport i nostri colori non tradivano mai. Nella scherma si scoprì che nella stessa palestra marchigiana di Jesi, resa famosa da Giovanna Trillini, era sbocciato un altro talento: si chiamava Valentina Vezzali, al suo debutto olimpico vinse un argento nel fioretto individuale, mentre insieme alla sua più anziana concittadina riuscì ad arrivare all’oro (il primo di una lunga serie) nella prova a squadre. Non da meno i maschi: oro nella spada a squadre e nel fioretto individuale, con un atleta dal cognome predestinato alla gloria, Alessandro Puccini. Ricco, come al solito, il forziere del ciclismo. Dopo la delusione delle prove su strada, le vittorie arrivarono su pista (Silvio Martinello, Andrea Golinelli e Antonella Bellutti) e sullo sterrato del cross, dove Paola Pezzo, oltre a tanta grinta, esibì una interessante scollatura della sua tuta, che a quanto pare fu apprezzata sugli schermi TV di tutto il mondo.
Belle conferme vennero anche dalla pallanuoto maschile (un bronzo dopo l’oro di Barcellona) e dalla pallavolo maschile (un argento che, per la verità, scatenò più imprecazioni che gioia, al termine di quella incredibile finale-maratona con l’Olanda, persa al quinto set col parziale di 17 a 15). Nel canottaggio c’era sempre un Abbagnale pronto a colpire: era Agostino, il più piccolo dei fratelli, già oro nel 4 di coppia a Seul, in grado di riprendersi quella medaglia ad Atlanta, nel 2 di coppia con Davide Tizzano, dopo una malattia che lo aveva tenuto fermo per cinque anni: la voglia di lottare come patrimonio di famiglia… Cominciarono da allora, però, a guadagnare più seguito i colleghi della canoa. Col suo bel fisico (e il suo sorriso da sciupafemmine) irrompeva Antonio Rossi, che tramutava il bronzo dell’esordio olimpico a Barcellona in un doppio oro (Kayak 1 500 e Kayak 2 1000); sul podio venivano trascinati due volte anche Daniele Scarpa e Beniamino Bonomi. Una bandiera tricolore si alzò in alto anche nel K1 500 donne, grazie a Josefa Idem, che da tedesca (per nascita) aveva partecipato a Los Angeles e a Seul, e da azzurra (per matrimonio) si era già presentata a Barcellona: ad Atlanta arrivò per lei (dopo il primo figlio) la prima medaglia (di bronzo) in una gara individuale. Stavolta, in Italia, qualcuno cominciò a curarsi di lei…
Nunzio Spina
[21 – segue la prima puntata di Atlanta 1996, continua con Sydney 2000]