Cent’anni dalle prime Olimpiadi moderne… Le imprese degli americani… Il Dream Team III… Gli avversari della Jugoslavia…
Erano passati cento anni dalla ormai lontanissima prima edizione olimpica dell’era moderna, Atene 1896. Sarebbe stato bello tornare là, nella culla dei Giochi, a celebrare la ricorrenza vedendo il fuoco ardere sulla terra in cui viene acceso ogni quattro anni, a rivivere quello spirito di competizione e fratellanza che aveva sorretto la grande opera del barone De Coubertin. Bello, ma non conveniente. Non era solo trascorso un secolo, era cambiato il mondo! La Grecia e Atene proponevano storia, tradizione, poesia; gli Stati Uniti e Atlanta, progresso, sponsor, denaro. Questi ultimi, cioè i valori materiali, risultarono più attuali e stimolanti.
La città capitale dello stato della Georgia non era propriamente una metropoli, ma alle spalle (anzi, dentro di sé) si muoveva un autentico colosso commerciale, la cui sigla iniziava con Coca e finiva con Cola… Problemi per realizzare un evento universale come una Olimpiade? Economicamente, nessuno! Che importava se non c’era l’atmosfera giusta, se l’organizzazione non curava i particolari e per le strade regnava il caos? Lo show poteva andare avanti lo stesso, magari circondato da una campagna pubblicitaria e da uno sfarzo che rischiavano di soffocarlo. A contaminare l’animo puro della festa sportiva arrivò anche un attentato – si era nel bel mezzo dei Giochi – che con l’esplosione di una bomba nel Centennial Olympic Park, mentre era in corso un concerto rock, fece due vittime e più di un centinaio di feriti. Qui però c’entrava solo la stupidità e la cattiveria umana, che nell’arco di cento anni, purtroppo, non erano mai passate di moda.
In nome di interessi commerciali, le Olimpiadi dovevano assomigliare sempre più a un circo. Da questo punto di vista, Atlanta ’96 fu un successo già in partenza. Venghino siori venghino! Il richiamo produsse l’ennesimo record di partecipazione, con un numero di atleti che, per la prima volta, superò la soglia dei 10.000 (10.361), di cui un terzo donne. Che fosse passato un secolo lo dicevano chiaramente anche questi dati: ad Atene erano stati 285 gli atleti, e tutti maschi… Per aumentare le nazioni, poi, bastava affidarsi ai continui cambiamenti politici. Dodici in più vennero soltanto dal completo smembramento dell’ex Unione Sovietica: Russia in testa, poi Ucraina, Kazakistan, Bielorussia e via via tutti gli altri stati che a Barcellona avevano partecipato uniti (diciamo attaccati insieme per l’occasione) sotto la sigla CSI. Tornava la Jugoslavia, che teneva insieme soltanto Serbia e Montenegro; c’era spazio anche per la Palestina, che si ritrovava sullo stesso campo dei nemici storici dell’Israele; e poi ancora Eritrea e Cambogia dopo quasi trent’anni, l’Iran con la prima donna (di chador vestita).
Gli inviti allo spettacolo allargavano sempre più la loro cerchia: sia quella riguardante le discipline agonistiche (si era arrivati a quota 29, inserendo per la prima volta il calcio femminile, il beach volley e la mountain bike), che quella degli atleti professionisti (porte aperte, stavolta, ai calciatori e ai ciclisti). Per conquistare sempre più i favori del pubblico bisognava accettare queste novità, togliendo magari qualcosa a sport che erano radicati nella iconografia delle olimpiadi (vedi la lotta greco-romana) ma ormai abbandonati ad un anacronistico dilettantismo. Scelte obbligate per stare al passo coi tempi, o piuttosto per stare dietro alle esigenze di business: la catena televisiva NBC, a tal proposito, si prese volentieri tutto il pacchetto, ripagandosi dei tanti dollari spesi con i quattro miliardi di spettatori catturati in tutto il mondo.
In un tale scenario di magnificenza, l’immagine iniziale dei Giochi finì col creare un certo turbamento. Cassius Clay (diventato Muhammad Alì, il pugile trionfatore di Roma ’60, l’ex campione del mondo dei pesi massimi) accese il braciere olimpico col viso inespressivo e la mano tremante, segni del morbo di Parkinson che si era ormai impossessato di lui. Non si capì bene se fosse protagonista o piuttosto vittima di un copione; in ogni caso, colpì la coscienza di tutti con lo stesso impeto che lui aveva sempre riversato sul ring. Lo si guardò con ammirazione, ci si commosse, qualcuno provò anche pietà. Sentimenti. Per fortuna, ad Atlanta ci furono anche quelli.
La regia statunitense non voleva farsi sfuggire nulla. Soprattutto, non voleva e non poteva mancare, in casa propria, l’ennesimo trionfo nella conquista delle medaglie. Più di 100 alla fine, con 44 ori, e un primato facilmente prevedibile. Alle spalle, ma distante un bel po’, le 65 della Germania, tornata ai successi di un tempo dopo la riunificazione. Per il terzo posto della Russia di medaglie se ne contarono soltanto 61, ma furono abbastanza per lasciare una recriminazione: aggiungendo tutte quelle conquistate dagli altri stati dell’ex Unione Sovietica, si poteva arrivare lassù, a guardare tutti ancora una volta dall’alto in basso. Una valutazione forse fuori luogo, oltre che fuori tempo, ma aveva un suo significato.
Agli USA spettò anche la paternità dell’eroe numero uno di quella edizione. Si chiamava Michael Johnson, velocista texano, aveva già gareggiato a Barcellona prendendosi un oro nella staffetta 4 x 400, ma a 29 anni la sua fame di vittorie, e di record, non era ancora stata appagata. Strano il suo fisico, con il baricentro basso, e ancor più il suo modo di correre, sempre impettito, con la falcata breve e ad alta frequenza, da sembrare un soldatino. L’effetto visivo non era proprio ammirevole, quello sul cronometro assolutamente vantaggioso: realizzò una doppietta inedita, oro nei 400 e nei 200, con un prodigioso primato mondiale in quest’ultima distanza, 19’32, ben 40 centesimi in meno dello storico tempo di Mennea di Città Del Messico. La scena sarebbe stata tutta per lui, se un po’ non gliela avesse rubata il connazionale Carl Lewis, ancora lui, il «Figlio del Vento», quarta Olimpiade a 35 anni, in grado di vincere il quarto oro consecutivo nel salto in lungo (eguagliando così il primato di Al Oerter nel disco), che sommato a quelli già conquistati nelle gare di velocità faceva un totale di nove medaglie d’oro. Meglio di lui nessuno mai nell’atletica; come lui solo il finlandese Paavo Nurmi, in sole tre edizioni dei Giochi, tra il ’20 e il ’28: ma quelli erano altri tempi!
Per vincere tanto, gli Stati Uniti la spuntarono sia su terreni a loro congeniali, che su altri di recente esplorazione. La ginnastica artistica, per esempio. Nella gara a squadre femminile arrivò il primo oro, storico anche per il valoroso contributo della diciottenne Kerri Strug, che volle a tutti i costi disputare l’ultima prova, pur avendo una caviglia fratturata… Non ci fu bisogno di stringere i denti, invece, nel tennis (che problemi poteva avere il fuoriclasse Andrè Agassi?) e nel basket, dove ormai il tappeto rosso per i professionisti NBA era stato accuratamente steso. Una volta infranto il tabù nelle Olimpiadi di Barcellona, non ci furono più ostacoli di carattere normativo, né tanto meno di natura etica. La Nazionaledi basket USA era ormai un Dream Team, la squadra dei più forti in assoluto. Così si presentò ai Campionati Mondiali in Canada del ’94, pur di riconquistare il primato perso nella edizione precedente; figuriamoci se ad Atlanta, in casa propria, si poteva rischiare un nostalgico ritorno agli «studentelli» delle Università!
Ecco allora scendere in campo il Dream Team III, come venne ribattezzato. In panchina Lenny Wilkens, una carriera già ricca di allori nella NBA, come giocatore e ancor più come allenatore. Nella sua lista di convocati c’erano cinque reduci di Barcellona ’92: Charles Barkley, David Robinson, Scottie Pippen, John Stockton e Karl Malone. Poi altre sette stelle di prima grandezza, tra cui Hakeem Olajuwon (2,13, centro degli Houston Rockets, nigeriano di nascita, naturalizzato per meriti sportivi), Gary Payton (play dei Seattle Supersonic, soprannominato the glove, il guanto, per la sue capacità difensive), Reggie Miller (guardia degli Indiana Pacers, un vero killer nel tiro da fuori) e Shaquille O’Neal (centro di 2,16 degli Orlando Magic, destinato a diventare, con la maglia dei Los Angeles Lakers e di diverse altre squadre professionistiche, uno dei giocatori più forti e longevi del basket statunitense). Curiosità di… colore: John Stockton era l’unico bianco della compagnia, così come a Londra ’48 Don Barksdale era stato l’unico nero. Altro segno che il mondo era cambiato, ma in questo caso era bastato mezzo secolo!
Che fosse una squadra imbattibile, non potevano esserci dubbi. Ma non si rivelò propriamente «da sogno». Intanto perché le sue vittorie in campo non furono così schiaccianti come quelle di quattro anni prima (32 punti di distacco in media, contro i 43 e passa di Barcellona); e poi per il fatto di non avere mai dato l’impressione di affrontare l’impegno col dovuto entusiasmo e la voglia di divertire il pubblico. Snobbato il villaggio olimpico (i campioni alloggiavano in un lussuoso albergo), anche le partite venivano affrontate con una certa aria di sufficienza, lasciando che l’avversario si avvicinasse nel punteggio per poi mortificarlo con parziali tremendi. Gioco e spettacolo a sprazzi: non era la maniera migliore per entrare nel cuore della gente. A furia di scherzare, poteva scapparci la sorpresa: nella finale per l’oro, controla Jugoslavia, i punti di vantaggio alla fine del primo tempo erano soltanto cinque, e si dovette provare qualche brivido – di quelli veri – a inizio ripresa, prima di prendere in mano la partita e condurla a una vittoria meno netta del risultato numerico, 95 a 69.
Finirono così col guadagnare simpatie anche le altre squadre. Innanzitutto la Jugoslavia, più precisamente la Repubblica Federale di Jugoslavia, rappresentata solo da Serbia e Montenegro dopo la disgregazione politica del ’92 e la con seguente rinuncia a Barcellona. In realtà si poteva già parlare di una Nazionale serba, vista la provenienza dei giocatori. C’erano alcuni reduci dell’argento di Seul ’88 (i tempi della Jugoslavia ancora unita): Zelimir Obradovic, 36 anni, era passato dalla guida in campo come playmaker a quella in panchina da allenatore, ruolo che avrebbe rivestito l’anno dopo in Italia con Treviso; Zarko Paspalj, esterno di 2,06, un passato da girovago in tutto il mondo e un futuro nel nostro campionato, con la Virtus Bologna; poi soprattutto Vlade Divac, centro di 2,16, proveniente anch’egli – come gli atleti del Dream Team – dalla NBA, dove era diventato nientemeno che l’erede di Kareem Abdul Jabbar con la maglia dei Los Angeles Lakers.
Tra le nuove leve, emergevano tre giocatori praticamente adottati dal basket italiano. Aleksandar Djordjevic, guardia di 1,88, vincitore di una coppa Korac a Milano, poi passato alla Fortitudo Bologna; dopo Atlanta, una esperienza in USA, prima del ritorno in Europa (Barcellona, Madrid e di nuovo in Italia, dove concluse la carriera da giocatore per intraprendere quella da coach, a Milano e Treviso). Sasa Danilovic, guardia di 2 metri dal tiro micidiale, già tre scudetti alle spalle con la Virtus Bologna, dove sarebbe tornato dopo una parentesi americana. Dejan Bodiroga, ala di 2 e 05, abilissimo nel controllo di palla e nell’uno contro uno, ancor più fresco di scudetto tricolore, conquistato a Milano col marchio Stefanel. Particolare la storia di quest’ultimo: rifugiatosi in Italia allo scoppio della guerra civile in Jugoslavia, a soli 19 anni era stato ingaggiato dalla Stefanel Trieste per interessamento di Bogdan Tanjevic, l’allenatore montenegrino che aveva già lanciato in orbitala Juve Caserta e che sarebbe presto passato alla guida della Nazionale azzurra; Bodiroga, tra l’altro, era cugino del fuoriclasse croato Drazen Petrovic, il cui amaro destino (morte in un incidente stradale nel ’93, a soli 29 anni) negò la possibilità che i due si incontrassero in campo, anche come avversari.
Con la conquista dell’argento, la Jugoslavia (o se vogliamo la Serbia) si aggiudicò nettamente il derby dei Balcani con la Croazia, che fu l’autentica delusione del torneo – soltanto settima – nonostante avesse ancora tra le sue file giocatori come Toni Kucoc e Dino Radja (anche loro stelle NBA, rispettivamente con i Chicago Bulls e i Boston Celtics). Per la medaglia di bronzo, buona conferma della Lituania, forte del solito trio (Sabonis-Marciulonis-Kurtinaitis), ma anche di giovani rampanti, come Salius Stombergas e i due Zukauskas (Eurelijus e Mindaugas): anche per loro un futuro in Italia, dalle parti di Bologna e Siena. La Lituania ebbe ragione nella finale per il terzo posto dell’Australia (che fu invece la vera sorpresa in senso positivo per il suo basket molto atletico). Poi, nell’ordine, Grecia (che tornava a una competizione olimpica dopo l’unica apparizione del ’52 a Helsinki), Brasile (lontano dal podio ormai da Tokyo ’64),la Croaziadi cui si è detto, Cina, Argentina, Portorico, Angola, Corea del Sud.
E l’Italia dove era andata a finire?
Nunzio Spina
[20 – segue Barcellona 1992, continua con la seconda puntata di Atlanta 1996]