I passi storici della Nazionale di Gamba che arriva fino alla finale per l’oro contro la Jugoslavia… Le sconfitte dell’Urss… Il cammino delle ragazze guidate dalla Sandon…
Se c’era da indicare una disciplina sportiva nella quale il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca avrebbe pesato maggiormente, questa non poteva che essere il basket. Senza gli Stati Uniti, vincitori in quasi tutte le edizioni dei Giochi (tranne a Monaco dove erano arrivati secondi), si era praticamente liberato un posto sul podio. Due sembravano riservati all’URSS e alla Jugoslavia, negli ultimi anni al vertice di qualunque manifestazione internazionale; per il terzo erano tante le squadre che si sentirono in diritto di nutrire ambizioni, tenuto conto anche delle assenze del Canada (quarto a Montreal), dell’Israele (secondo agli ultimi Europei), della stessa Argentina. Ci poteva provare anche l’Italia.
Le qualificazioni pre-olimpiche in Svizzera, superate brillantemente con il primo posto nel girone, avevano rilanciato le quotazioni della Nazionale azzurra, alla quale il nuovo allenatore Sandro Gamba era riuscito già a dare una mentalità diversa (più aggressiva, più spregiudicata) e un nuovo modello di gioco (più tecnico e più veloce). Come uomini si era affidato, per buona parte, a quelli che aveva ereditato dalla gestione di Primo, rinunciando praticamente solo a Bariviera e Caglieris. C’erano ancora Meneghin, Marzorati e Della Fiori, che avevano fatto parte della precedente spedizione di Montreal. Poi un gruppo di esordienti a livello olimpico, ma già collaudati in campo internazionale: Renzo Vecchiato (pivot di 2 e 08, molto abile come rimbalzista), Marco Bonamico (ala, specialista nell’uno contro uno), Pietro Generali (un 2 e 07 che si adattava al ruolo di pivot, di post e di ala), Enrico Gilardi (guardia veloce, il primo prodotto del minibasket ad approdare nella Nazionale maggiore), Roberto Brunamonti (play longilineo e agile), Renato Villalta (ala dal buon tiro, oltre che ottimo difensore). A questi, Gamba aveva aggiunto l’oriundo Mike Sylvester (dal micidiale e stranissimo tiro in sospensione che partiva dietro la nuca), Romeo Sacchetti (una guardia dal fisico massiccio, molto redditizio in campo) e Marco Solfrini (un esterno con eccellenti doti da saltatore). Il club maggiormente rappresentato era, non a caso, la Virtus Bologna, vincitrice degli scudetti del ’79 e dell’80. Di atleti militari (che, per una ambigua decisione presa dal governo italiano, dovevano restare a casa) c’era il solo Domenico Zampolini, non ancora entrato in pianta stabile tra i titolari.
A Mosca venne modificata la formula del torneo: non più due gironi di sei squadre, ma tre da quattro; le prime due passavano nel gruppo che avrebbe assegnato i posti dal primo al sesto. Nel girone dell’Italia c’erano Svezia, Australia e Cuba: qualificazione che sembrava alla portata. L’inizio fu molto positivo: 92 a 77 contro la Svezia, che non era più la cenerentola di una volta. Poi uno stop inatteso contro l’Australia che ci sconfisse di 7 punti. Decisivo l’ultimo incontro con Cuba, che da parte sua aveva battuto sia la Svezia che l’Australia (di 6). Vincere non bastava, bisognava farlo con uno scarto di più di 6 punti: però – guardate un po’ la stranezza – se si vinceva di 7 ci si qualificava assieme a Cuba (portandosi dietro i due punti della vittoria), se lo scarto era maggiore si passava il turno assieme all’Australia, ma in quel caso il risultato già acquisito era negativo. Andò come meglio non poteva. A pochi secondi dalla fine, 4 punti sopra, Gilardi si inventò una azione da tre, che a quei tempi non era un tiro oltre i 6 e 70, ma un canestro realizzato più tiro libero per fallo subito: finì 79 a 72. Se di credito con la fortuna se ne era accumulato tanto negli anni, la quota restituita in quella circostanza fu davvero consistente.
Si entrava nel girone finale con due punti già in tasca, ma il calendario proponeva subito Jugoslavia e URSS, in due giorni il sogno poteva già svanire. Nella Jugoslavia, affidata nel frattempo alle cure del nuovo allenatore Ranko Zeravica, c’erano i soliti tiratori terribili, Dalibagic e Kicanovic, che viaggiavano alla media di 24 punti a partita, e che furono ancora una volta spietati con gli azzurri: 102 a 83 il risultato finale. Poi con l’URSS accadde quello che nessuno si sarebbe aspettato. La Nazionale italiana disputò una gara perfetta, Meneghin annullò Tkachenko sotto canestro, Sacchetti fece altrettanto con Sergej Belov nel tiro da fuori, Villalta, Marzorati e Sylvester giocarono ad alti livelli: con due sole lunghezze di scarto (87 a 85) arrivò una vittoria di ben più grandi proporzioni nei risvolti pratici. L’Unione Sovietica era ancora imbattuta in quel torneo di Mosca, e in casa – tenendo conto di qualsiasi manifestazione internazionale – aveva perso una sola volta, tanti anni prima per mano dell’Ungheria. La prodezza della formazione di Gamba colse di sorpresa gli stessi giornalisti italiani, che in quel pomeriggio si erano riversati sulle tribune dello Stadio Lenin per assistere alla finale dell’alto con Sara Simeoni.
Dalla polvere all’altare, per tornare subito alla polvere. Il Brasile spense subito l’esaltazione del momento, superandoci nettamente: 90 a 77. Questa sconfitta avrebbe potuto vanificare tutto se anche la Jugoslavia non avesse inflitto una dura lezione ai padroni di casa, ancora sotto choc per lo smacco subito dagli azzurri. Nella nuova formula di svolgimento non erano previsti incontri a eliminazione diretta: le prime quattro avrebbero guadagnato l’accesso alle finali, le prime due per l’oro, terza e quarta per il bronzo. Tutto si decideva all’ultima giornata. L’Italia doveva a tutti i costi vincere con la Spagna, e riuscì a farlo al termine di una partita tutt’altro che facile (95 a 89). A pari punti al secondo posto con l’URSS, ma col vantaggio dello scontro diretto, c’era da sperare che la Jugoslavia giocasse la sua onesta partita contro il Brasile (che in caso di vittoria sarebbe balzata al secondo posto). Ci fu da soffrire, sembrava fatta per i sudamericani, poi Cosic e compagni la spuntarono di un punto. Jugoslavia-Italia la finale per l’oro; URSS-Brasile per il bronzo.
A quel punto la Nazionale azzurra aveva compiuto la sua grande impresa. Uscì sconfitta ma a testa alta dalla finalissima (86 a 77), e questo era il massimo che le si potesse ancora chiedere. Tante volte si era stato sul punto di agguantare un bronzo alle Olimpiadi, a Mosca arrivò addirittura un argento, al di là di ogni più ottimistica previsione (pur considerando l’assenza dell’USA). Le partite vinte erano state quattro, tante quante le sconfitte. A Tokyo ’64, tanto per fare un confronto, con un bilancio di 6 vittorie e 3 confitte, Paratore aveva rimediato un misero quinto posto… Era un argento frutto di contingenze favorevoli, sicuramente irripetibili. Ma valeva tanto, e il basket italiano lo festeggiò come era giusto che fosse, prendendosi tutto quello che di buono poteva portare un risultato così importante in termini di immagine e di crescita. L’unico rammarico, forse, fu quello di vedere sollevare la bandiera olimpica al posto del tricolore nella cerimonia di premiazione. Storica, comunque, quell’immagine dei giocatori allineati sul secondo gradino del podio con la medaglia al collo, in testa il capitano Dino Meneghin; davanti a lui Sandro Gamba impeccabile nella sua divisa, che poggia la mano sinistra su Misha, l’orsacchiotto mascotte di quei Giochi; un po’ più indietro spicca, a dispetto della sua piccolezza, la figura di Galleani, massaggiatore di Varese e della Nazionale, riuscito a violare il cerimoniale chissà con quale sotterfugio.
L’Unione Sovietica fu la grande delusione di quel torneo. Era reduce dalla vittoria agli Europei, aveva il vantaggio di giocare in casa, i rivali americani di sempre non c’erano. Più favoriti di così! La fiaccola olimpica in mano a Sergej Belov, che come ultimo tedoforo aveva acceso il braciere davanti ai centomila dello Stadio Lenin, era apparsa come l’immagine di un felice presagio, che si trasformò invece nel più amaro dei disinganni. Gran parte delle colpe – inevitabilmente – ricaddero sull’allenatore, il colonnello dell’Armata Rossa Alexandr Gomelsky, tornato a guidare la squadra dopo le Olimpiadi di Tokyo (argento) e di Città del Messico (bronzo). Soprannominato «volpe bianca», per la furbizia e la bianca chioma, era in realtà un profondo conoscitore del basket (di cui predicava soprattutto tiro, palleggio e preparazione atletica), e nella sua interminabile carriera avrebbe ancora avuto modo di riscattarsi. Quella di Mosca, tuttavia, restò una macchia indelebile. Nella cerimonia di premiazione il pubblico di casa sommerse di fischi i propri beniamini, mentre veniva loro consegnata la medaglia di bronzo: la netta vittoria sulla Spagna nella partita conclusiva (117 a 94) era servita solo a inasprire gli animi. L’URSS aveva perso due sole partite, l’Italia quattro. Stavolta era andata bene a noi!
Ci pensarono le donne sovietiche a evitare una débacle totale sul fronte cestistico. C’erano ancora i 2 metri e 11 della Semjonova a dettare legge sotto i tabelloni, con lei in campo ogni avversaria giocava praticamente a handicap. Tutte vittorie, senza alcuna difficoltà: lo scarto minore fu di 31 punti (104 a 73), contro la Bulgaria nella finalissima per l’oro. Il passivo più pesante di quel torneo toccò, purtroppo, alla Nazionale italiana, che faceva il suo debutto olimpico, dopo avere brillantemente superato le qualificazioni a Varna. Oltre che dall’Unione Sovietica (119 a 53), le cestiste azzurre subirono pesantemente anche dalla Bulgaria (102 a 65), ma con Jugoslavia, Ungheria e Cuba lottarono egregiamente: brave lo stesso; del resto, anche una sola vittoria faceva parte delle illusioni. La squadra era guidata da Bruno Arrigoni, un figlioccio di Gamba per essere stato suo assistente a Varese. Tra le giocatrici figuravano la pivot Wanda Sandon (che nel suo curriculum avrebbe incasellato dieci scudetti e tre Coppe dei Campioni con tre squadre diverse), la play Lidia Gorlin, e poi Bianca Rossi, Antonietta Baistrocchi, Marinella Draghetti, Mariangela Piancastelli, Nunzia Serradimigni (allora giovane promessa, come lo fu poi la sorella minore Roberta, alla quale è stato intitolato, dopo la sua prematura morte in un incidente stradale, il campionato nazionale femminile under 17).
Come sport di squadra l’Italia non riuscì a esprimere di meglio; motivo in più per esaltare il risultato del basket. Era davvero un momento d’oro, anche perchè il campionato richiamava sempre più pubblico con gli stranieri (saliti a due per squadra sotto la gestione Vinci), e a livello internazionale i club vincevano molto. Varese era stata finalista di Coppa Campioni per tre anni, dal ’77 al ’79, e aveva vinto una edizione della Coppa delle Coppe, dove Cantù aveva trionfato addirittura tre volte; Rieti si era appena aggiudicata la Coppa Korac.
Il boicottaggio non faceva piacere a nessuno, ma se c’era da guadagnarci qualche medaglia, e magari un po’ di morale per risvegliare un intero movimento sportivo, era bene accetto. Molti atleti erano così riusciti a guadagnare la scena e a mostrare le loro capacità. Come nell’atletica, per esempio. A parte le imprese dei nostri Mennea, Simeoni e Damilano, come non ricordare le grandi prestazioni dei britannici Sebastian Coe e Steve Ovett. Mezzofondisti, entrambi londinesi, un anno di differenza tra loro, avevano sempre cercato di evitarsi, così da sfruttare al meglio gli ingaggi nei meeting. A Mosca non poterono eludere lo scontro diretto. Ovett, meno favorito negli 800, riuscì sorprendentemente a superare il rivale; nei 1500 fu Coe a spuntarla, con un altrettanto imprevedibile cambio di velocità. Da allora, si impegnarono ancora di più nel tenersi lontano l’uno dall’altro… Intanto in pista erano tornati i neri africani dopo il boicottaggio di Montreal: l’etiope Miruts Yifter (36 anni, e forse anche di più perché la sua anagrafe restava misteriosa) fece esplodere tutta la grinta repressa in quegli anni, trionfando sia nei 5000 che nei 10000.
Dove effettivamente l’assenza americana si fece sentire fu nel nuoto. L’URSS ebbe in Vladimir Salnikov il suo protagonista (3 ori, nei 400, 1500 e 4×100 stile libero), mentre la DDR dominò come al solito in campo femminile con le sue atlete bene irrobustite – diciamo così – nell’apparato muscolare. Ma i nuotatori statunitensi fecero ugualmente sentire la loro voce: organizzarono in casa una sorta di contro-Olimpiade, e con i tempi registrati si scoprì che, se avessero gareggiato a Mosca, avrebbero tolto la bellezza di 30 medaglie agli avversari. Confronto ovviamente inattendibile: restavano dubbi, non certezze. Ed è trai dubbi e le paure che il 3 agosto, nella cerimonia di chiusura, venne dato un «freddo» passaggio di consegne a Los Angeles, sede statunitense dei Giochi dell’84. Il presentimento che con politica e boicottaggio le Olimpiadi dovessero ancora fare i conti era già allora molto forte…
Nunzio Spina
[14 – segue la prima parte di Mosca 1980, continua con Los Angeles 1984]