Gli esordi nello Sport Club, gruppo di amici… Palermo, Caltanissetta e Siracusa… Riscoperto da Rocchi… La Cstl e i quindici anni al San Luigi… Dalla salvezza della Virtus al progetto giovanile della Rainbow… «Il futuro passa dal reclutamento»…
In campo era irriverente e fantasioso, coraggioso e trascinatore. Il pubblico lo adorava quando vestiva la maglia dello Sport Club Catania e lui ricambiava con la sua simpatia e l’impegno; così diventò l’anima di una squadra che per circa un decennio rappresentò la città in Serie C. Il barbuto playmaker Pippo Famoso rappresenta un’epoca, l’ultima, in cui una squadra di ventenni catanesi poteva combattere ad armi pari in un campionato nazionale. È ancora nell’ambiente, con una carriera trentennale nell’allenamento, e segue con attenzione quella femminile a cui ha dato un grande contributo, soprattutto ad Acireale.
La carriera di un protagonista assoluto della pallacanestro catanese degli anni settanta non poteva non partire da un simbolo: la palestra Umberto I del monastero dei Benedettini, dove si era giocato a tempo pieno finché non era stato aperto il campo di Cibali. «Ho iniziato quasi per caso – racconta –. Frequentavo il quarto ginnasio, allo Spedalieri, e un mio compagno di classe, il futuro arbitro Piero Viola, mi chiese di fargli compagnia mentre andava a parlare con il professor Cazzetta, proprio nel secondo chiostro del monastero, la nostra palestra». È un nome importante, quello di Cazzetta: «Era un grande sportivo, allenatore di mezzofondo, che si era prestato alla pallacanestro con molta passione, anche se le sue basi tecniche non erano quelle di un tecnico specializzato». Famoso, che intanto giocava a pallavolo e a calcio, aveva solo visto altri ragazzi giocare quand’andava ai Salesiani di Cibali, ma non era interessato nel basket. «Eppure presi una palla e tirai a canestro. Il professore mi vide e volle a tutti i costi inserirmi nello Sport Club. Mi convinsi».
Lo Sport Club era una società che si era costituita l’anno prima, nel 1965-’66, con base proprio nel liceo Spedalieri. Il primo reclutamento aveva raccolto varie adesioni tra i ragazzi del quarto ginnasio, il secondo aveva creato un gruppo ampio e variegato di ragazzi 13-14enni, tra cui anche Famoso. «In breve diventammo amici, ci vedevamo sempre, d’estate e d’inverno. Lo zoccolo duro era formato da Claudio Sensi, Orazio Strazzeri, Alfio Maglia, Carmelo Barone, cui poi si aggiunsero Gino Vitale, Sandro Maugeri, Pino Campanelli, Vincenzo Bellini…» Il gruppo cresce curato da Cazzetta finché non arriva Santi Puglisi, diplomato all’Isef di Roma, ventisette anni, la Serie A con la Grifone nel suo palmarés. «Puglisi era un grande maestro che ci fece crescere parecchio – elogia Famoso –. Nel suo Sport Club, dopo la promozione in Serie D, inserì prima tre-quattro di noi ragazzi, poi svecchiò la prima squadra. Ottenne una salvezza, un secondo posto e nel 1970-’71 l’accesso allo spareggio promozione contro l’Intercontinentale, a Palermo».
È importante chiarire che la Serie D di quel periodo era il quarto livello del campionato italiano, anche se oggi equivarrebbe in realtà a una DNC: vi partecipavano anche Cosenza e Catanzaro («Dove giocammo con la neve a bordocampo», ricorda Famoso), oltre a un bel gruppo di siciliane. Eppure, un gruppo dall’età media di diciotto anni concluse in vetta insieme alla squadra messinese, allenata da quel Dispenzieri che segnò un ventennio del basket sullo Stretto. «È uno dei miei ricordi più belli, una grande partita vinta a cui “La Sicilia” dedicò un’intera pagina e addirittura ne scrisse il giovane Massimo Mangano, poi allenatore in Serie A. Ho in mente il suo commento: “Pippo Famoso, che si temeva fosse la nota stonata perché gioca a giorni alterni, invece è stato il tenore della situazione”». Lo Sport Club accedette così alla terza serie, in cui militava il Gad Etna da vari anni.
«Si unì al gruppo solo Emanuele Lo Presti e arrivammo terzi, dietro Messina e Gad Etna, che furono promosse in Serie B». Una squadra di soli catanesi compie un’impresa da neopromossa, con un’età media da formazione juniores, arrivando dietro agli squadroni del campionato. «Eravamo un pugno di amici: questa era la nostra forza. Il mio più grande amico era Claudio Sensi, che ora vive sul Lago d’Iseo, dov’è rimasto a insegnare. Era anche una squadra anomala: accanto a me, giocava da play Orazio Strazzeri, che aveva il fisico e la volontà, ma mentre io sono alto 176 cm, Lo Presti non ci arriva e i pivot Sensi e Cavaletti sono 188 e 192 cm, lui è alto 186 cm. Era il più forte e presto sarebbe andato a giocare al Nord».
Ma non è solo questo il segreto di quello Sport Club. «Ogni tanto ragiono con amici come Carmelo Carbone su come siano cambiati i tempi: a 15 anni ho esordito in Serie D, ero il leader della squadra a 18 anni, a 19 ci consideravamo già arrivati. Certo, è anche una pallacanestro diversa oggi… Ma allora avevamo un punto di incontro, quella piazza Santa Maria di Gesù attorno a cui abitavamo e che poi sarebbe diventata il punto di riferimento della pallacanestro catanese, insieme agli amici del Gad Etna. Nessuno possedeva un motorino, a parte Strazzeri, si camminava con gli autobus. Così andavamo alla Plaia, nei lidi più sgangherati, dieci per ogni cabina. E giocavamo dalle quattro alla notte partite interminabili ai salesiani, e lì sono cresciuti i fratelli Calì, La Fauci, Nicolosi, Leonardi…»
L’anno dopo lo Sport Club ebbe l’opportunità di incontrare l’Ignis Varese in Coppa Italia: fu una passerella dei campioni d’Italia e d’Europa, ma i granata riuscirono a far sognare i tifosi che gremivano il PalaSpedini, e Famoso fu protagonista di uno straordinario avvio fermato da una gomitata di Dino Meneghin, che non lo mise k.o. ma gli procurò tre punti di sutura alla testa, a notte inoltrata, dopo aver continuato a giocare contro i propri idoli. «Questa è una storia nota» si schermisce Pippo Famoso. Di lì a poco, però, Puglisi partì per allenare la Stella Azzurra e lo Sport Club cambiò guida. «Il compianto Elio Alberti, un amicone più che un allenatore, ci diresse in Serie B, poi alcuni anni in Serie C. Lasciai un anno, perché seguivo il secondo anno di Isef a Palermo: con la squadra del capoluogo disputammo anche la Poule A contro quel BancoRoma che arrivò poi nella massima serie e non la lasciò più».
Il ciclo dello Sport Club si avviava alla conclusione, arrivata nel 1978 con la rinuncia all’iscrizione in Serie C. «Continuai a giocare, passai una stagione a Caltanissetta con Valerio Cavaletti, ancora in C. Poi dovevo andare a Portogruaro per il militare, ma mi videro a un torneo estivo e José Motta mi propose di rimanere. “Vorresti fare il militare ad Augusta e giocare a Siracusa?” mi chiese. Accettai con felicità, l’onorevole Concetto Lo Bello mise una buona parola e così non dovetti andare in Veneto». Famoso aveva appena 27 anni, ma era già considerato un veterano e sembrava doversi guadagnare la fiducia di qualcuno ad ogni estate. «Tornai anche a giocare con lo Sport Club in Serie D, ma per degli screzi rimasi solo mezza stagione. Avevo deciso di allenare, ero subentrato a Camillo Sgroi alla Cstl femminile, così per sei mesi non scesi in campo».
Eppure ancora Famoso aveva tanto da dire e qualcuno di importante se ne accorse. «Pippo Borzì mi chiese di giocare a un torneo estivo nel 1981. Mi vide Rolando Rocchi, una persona eccezionale, il nuovo allenatore del Gad Etna che aveva portato Liguori e Corbi: “Cerchiamo un playmaker quando ce l’abbiamo già a Catania: perché non giochi con noi?” Ero deciso a dire di no, ma alla fine accettai. Finì che salirono Marsala (la più forte) e Messina (che avremmo battuto dieci volte su dieci), mentre noi non entrammo nemmeno nei play-off perché Monte di Procida, con cui eravamo arrivati a pari punti, aveva un miglior quoziente canestri. Se non avessimo perso di misura contro le ultime tre…». Il colpo fu forte, non solo per lui, ma per l’intera società che sarebbe stata destinata al declino dopo anni di grandi sforzi senza arrivare alla promozione.
Pippo Famoso lasciò così l’attività per la seconda volta e decise di dedicarsi a tempo pieno all’allenamento del Cstl. «Per sei stagioni sono stato io il capo allenatore della squadra femminile, un gruppo di ragazze cresciute con la prof. Ferrullo dello Spedalieri e perfezionate da Sgroi. L’ho presa a zero punti, in fondo alla classifica di Serie C, e in tre anni siamo andati in Serie B: nel 1982 abbiamo perso negli ultimi secondi lo spareggio contro il Messina a Giarre, l’anno dopo abbiamo vinto in tre gare contro Trapani e siamo stati promossi». La Serie C era un campionato siculo-calabrese, mentre la Serie B (terza serie) arrivava fino al Lazio. «Era un bel campionato e la prima stagione andò bene, poi giunse il presidente Piero Dupplicato, che portò la sponsorizzazione di Teletna. Spesero un mare di soldi, facendo delle scelte che non condividevo. Quando lo sponsor si svincolò, eravamo destinati alla retrocessione: facemmo comunque un’onesta figura. A quel punto lasciai, il Cstl fu ripescato e arrivò Riccardo Cantone, che salì in A2». La squadra, però, era stata degnamente rinforzata da tanti elementi che poi disputarono anche l’A2.
Intanto si apriva un nuovo scenario per Famoso, che per la seconda volta tornò in campo dopo il ritiro. «Valerio Cavaletti allenava a Santa Maria di Licodia e mi chiese di giocare, in Promozione. Scherzando e ridendo, abbiamo vinto il campionato contro Priolo. Mi sono divertito soprattutto perché era stato introdotto il tiro da tre e in una partita ho fatto 5/5, con una tripla in contropiede. Sono rimasto poi come allenatore in Serie D e ci siamo salvati».
Ma è l’allenamento nella femminile che richiama la sua attenzione. «Nel 1988, mi ha chiamato Fratel Alberto dell’Istituto San Luigi. L’Acireale era in Serie C e Rosita Lorenzini e Lorella Pasquinucci sono venute con me. C’è voluto tempo prima che le ragazze assimilassero la mia filosofia: dopo il girone d’andata avevamo vinto appena due partite, nel girone di ritorno ne abbiamo persa una e abbiamo fatto i play-off». In 15 anni, tante ragazze gli passano davanti al San Luigi, da Valeria Puglisi ad altre che non sono arrivate tanto in alto. «Per tanti anni abbiamo militato in Serie B. Ricordo una stagione che finì il 4 giugno: trasferta a Sorrento, di sera tardi c’era ancora il sole dopo la partita. Forse la partita storica fu una trasferta a Potenza. L’autobus non poteva arrivare fino al campo, così dovemmo fare la strada in salita a piedi e sotto la pioggia, arrivando a venti minuti dall’inizio della partita. Sono un patito della zone-press, così dissi alle ragazze di iniziare così, visto che la facevano discretamente. Per 45 minuti adottammo questa tattica, vincendo dopo un supplementare e malgrado ci avessero rimontato 16 punti di vantaggio. Il pubblico ha poi invaso il campo, per congratularsi: erano quattro anni che non perdevano in casa. Eravamo riusciti a creare una famiglia. L’ultimo successo fu la vittoria in gara-3 dei play-off di C a Piazza Armerina, nel 2002, su un campo difficilissimo».
Nel 2003, quando il San Luigi non potè più gestire la squadra per ragioni economiche, la pallacanestro femminile acese entrò in crisi. Famoso si allontanò, anche se non venne dimenticato. «Ho ripreso quando Giuseppe Laneri e Carmelo Carbone mi hanno voluto con loro alla Virtus. Abbiamo vinto due anni il campionato provinciale Under-19, poi ero accanto a Morelli e Carbone quando tutti ci davano per spacciati e siamo riusciti a salvare la Serie B, vincendo a Rende contro San Severo. Insieme a Carbone e Vergani ho poi preso la Grifone, finché Vergani ha creduto bene di far fallire tutto e cederla alla Pallacanestro Catania». È l’addio di Famoso alla maschile: dal 2008 ad oggi torna ad impegnarsi nella femminile, con un ruolo importante nell’attività giovanile, prima da vice della prima squadra, poi da responsabile delle giovanili.
«Quando c’è stato il connubio Lazur-Rainbow mi ha chiamato Giuseppe Laneri e ora collaboro con la Rainbow, nei rapporti con le scuole, soprattutto». Proprio sui rapporti tra la pallacanestro e la scuola c’è da aprire una grande parentesi. «I ragazzi hanno alternative che non avevamo e non si è ancora capito che le società bisogna costruirle dalla base e non dal vertice. Ci vuole una società come si deve, con i dirigenti e l’organizzazione, poi dei buoni allenatori e istruttori. Ai miei tempi si faceva reclutamento, ora si basa tutto sui centri di addestramento. Nei centri d’addestramento si paga, nel reclutamento invece le ragazze vengono cercate, si va nelle scuole. Le società solitamente non lo fanno, anche se ora la Rainbow ha iniziato a riprendere questa strada. La pallacanestro si apprende a scuola, già dalla terza quarta elementare con il minibasket. Se si avesse l’appoggio di due-tre scuole o istituti comprensivi, magari nel centro della città, sarebbe l’ideale, ma non è facile perché non ci sono palestre e i presidi sono restii».
Dalla scorsa estate, la Rainbow ha avviato un nuovo progetto in seguito agli accordi con Priolo. «Ancora la Rainbow non è una squadra, lo sta diventando cementando il rapporto tra le ragazze di Catania e di Priolo. Sergio Cimellaro ha lavorato bene per creare l’amalgama, ora Salvo Coppa sta raccogliendo i frutti del suo lavoro e sta lavorando su un gruppo ancora più coeso. Ci sono tante giovani che devono imparare e possono migliorare nel momento in cui riusciranno a diventare gruppo e qualcuna si piglierà la responsabilità. Manca secondo me un leader propositivo: Salvo Coppa deve creare un leader in campo oltre a dare indicazioni dalla panchina, qualcuno che detti i tempi e a cui le compagne possano riferirsi, come lo erano Luana Squillaci nella Cstl o Matteo Gottini nell’ultima Virtus».
«Spero che questo progetto prosegua bene – conclude Famoso – perché abbiamo intrapreso un percorso non facile e non breve. Ferlito, Greco e tutta la società ci credono molto: il lavoro sarà sulle giovani che giocano per passione e non intendiamo sprecare energie fisiche ed economiche su giocatrici professioniste che, a questo livello, non lasciano niente». Un’ultimissima parola va rivolta alla situazione della pallacanestro maschile: «Al di là del Cus, mi sembra che ci siano sempre i soliti corsi e ricorsi storici, con i soliti errori: non si lascia niente dietro, si spreca denaro e si ricomincia daccapo. Ci vuole qualcuno come Ferlito che si convinca che si lavora dalla base, che le energie vanno là, poi tutto il resto va da sé».
Roberto Quartarone