“Black Jesus the Anthology” e lo scopo umanitario… Tutto il basket americano: la CBA, il lockout, la Cina, Iverson, Shaq e Kobe, Kidd e Nash, Lebron, Derrick Rose…
Se si ascolta Federico Buffa raccontare le sue esperienze dirette del basket d’oltreoceano, si può benissimo pensare di essere di fronte a uno di quei professori universitari innovativi, che rapiscono spiegando qualsiasi concetto con grande arte oratoria e facendo vivere anche alla platea quelle esperienze in prima persona.
Per due ore, il giornalista (telecronista di Sky in coppia con Tranquillo, per poco tempo anche a Sky Calcio Show) ha tenuto in pugno una folta platea di giocatori, allenatori e appassionati riuniti alla biblioteca comunale di Tremestieri Etneo per assistere alla presentazione dell’ennesima ristampa di “Black Jesus the Anthology”. Accompagnato dal direttore della “Rivista ufficiale NBA” Mauro Bevacqua e da Alessandro Pisa (titolare del negozio sportivo Dream Team e organizzatore dell’evento), Buffa ha incentrato l’introduzione sull’esperienza in Birmania, per spiegare a chi finiranno i proventi del libro.
«Quattro anni fa – racconta – sono stato in Birmania, il Paese che mi ha colpito di più insieme all’Iran. I birmani sono un popolo molto spirituale, ma sfortunato, che vive in un luogo meraviglioso. A Bagan ho incontrato una guida, un professore, che in un giorno intero di visita mi ha dato tantissimo. Lì ho conosciuto anche una donna che mi ha proposto di incontrare a Mandalay dodici ragazzi, studenti universitari provenienti da villaggi dove non c’è nulla, che hanno grosse difficoltà a pagarsi gli studi (quasi 1000$) ma che hanno ottimi voti. I ricavati del libro sono per loro, il mio obiettivo è una arrivare a una borsa di studio per ciascuno».
“Black Jesus” è un non-libro, come lo definisce l’autore, una raccolta di storie di grandi e piccoli personaggi della pallacanestro statunitense, scritte con uno stile frizzante e che strizza l’occhio all’inglese, appassionanti come quelle che Buffa racconta dal vivo. «Mi attraggono le storie di chi al bivio prende sempre la strada sbagliata, come Ronnie Fields. Ero andato alla Farragut Academy per vedere Kevin Garnett e vidi lui, che schiacciava malgrado fosse 180 cm, ma non aveva cognizione del basket. Le sbagliò tutte, finì in un campo minore della CBA e provò anche per Verona». E sulla lega americana scomparsa nel 2009 apre una parentesi: «C’era un livello mostruosamente alto, con allenatori come Phil Jackson e la coppia Cook–Daye, ma le regole erano incredibili, due squadre potevano arrivare a scambiarsi un giocatore durante l’interavallo!»
Buffa non vuole parlare del tira e molla di Kobe Bryant con Bologna, ma risponde alle domande sul lockout. «Il problema è complicato, c’è una torta da 4,3 miliardi di $, con un indotto che ora è in crisi. I giocatori vorrebbero mantenere i privilegi, ma per me è un problema interno ai proprietari, che quelli delle piccole squadre vorrebbero aumentare quella sorta di “mutualità” che obbliga le squadre che eccedono il Salary Cap a pagar loro una sorta di tassa. Ma si giocherà per forza, probabilmente già da fine dicembre, e sarà una stagione dai contenuti tecnici scarsi perché ci saranno troppe partite concentrate. Tra i giocatori che sono andati all’estero, ci sono chi sa che tornerà appena inizia la stagione e chi rimarrà fuori, come chi ha firmato per squadre cinesi». Interviene anche Bevacqua: «Le squadre europee più forti hanno comunque scelto di non prendere dei giocatori che rompono la chimica della squadra potendosene andare in qualsiasi momento».
Sulla Cina c’è un’altra grande parentesi da aprire: «Nel campionato cinese si gioca come nell’high school femminile anni ’40, senza blocchi e senza contatti. Ma loro sono inarrivabili: possono permettersi di umiliare Tom Newell, figlio del mitico Pete, tenendolo come assistant coach del tipico maestro dello sport sessantenne che al massimo incita: “Andate al cesto!” La loro pallacanestro ha un’altra mentalità: prendete Yao Ming e la sua storia, nato per essere il miglior giocatore, ma mai dominante malgrado sia molto intelligente e una persona meravigliosa. Lui è uno di quei talenti che nascono ogni cinquant’anni: giocava una pallacanestro celestiale senza scuola, come Sabonis».
Il pubblico lo incalza con tante domande su personaggi che hanno fatto la storia. Iverson? «Era just basketball, un talento rinascimentale, l’unico giocatore per cui ho fatto il tifo in un decennio di telecronache delle finali Nba, nel 2001. Se sei lui la storia della pallacanestro come gioco di squadra è una cazzata, era il più amato, la gente andava a vedere i 76ers per lui. Più si faceva male nei contrasti più tornava a sfidare gli avversari». Il rapporto incrinato tra Bryant e O’Neal? «A Honolulu nel 2003 Shaq si presenta ingrassato, Kobe lo rimprovera e il pivot gli risponde “It’s my team, not yours”. Continuarono a giocare perché sapevano che insieme erano imbattibili, ma dopo le finali del 2004 gli equilibri saltarono». Steve Nash e Jason Kidd? «Kidd non mi sorprende. Nash è un genio, è scientifico. Guarda Beckham come fosse Dio, ma lui è uno sportivo molto più forte!» LeBron James? «Ha bisogno di un allenatore più forte di lui, in un sistema di continuità offensiva. Ha una villa ad Akron con multisala, piste da bowling e anche un barbiere!» Derrick Rose? «Non c’è un giocatore singolo forte come lui, non lascia perdere la sua squadra. Mohammed Alì diceva di essere forte, lo diceva e annunciava ciò che sarebbe successo. Rose aggiunge qualcos’altro: fa succedere ciò che dice».
Tutto si chiude al negozio, dove Buffa, molto disponibile, si ferma a parlare con tutti e a firmare i libri. Un grande personaggio che ha portato una ventata di freschezza… E chissà se non lo rivedremo presto a Palermo.
Roberto Quartarone