Dalla Savoy Ballroom ai Globetrotters di nome e di fatto… Abe Saperstain, 1.60 m e tanto fiuto da impresario… Una squadra fatta di spettacolo e divertimento…
La loro storia cominciò in una sala da ballo. Ma non perché se ne fossero impossessati come campo di gioco. Li facevano entrare giusto il tempo di intrattenere il pubblico tra un concerto jazz e l’altro; poi via, in strada, là potevano far quel che volevano col pallone di basket… Nella Chicago degli anni ’20 (mix di capitalismo, mafia e degrado) la Savoy Ballroom era una piccola oasi di svago, che in nome della musica riusciva a far convivere tutti serenamente, persino bianchi e neri tra loro. Per lo spettacolo di contorno le porte si aprivano un po’ a tutto, dalle figure di pattinaggio agli incontri di boxe. Poi a qualcuno venne l’idea di proporre una esibizione di cestisti – tanto per coinvolgere di più il pubblico – e fu così che nacque uno dei più grandi miti dello sport: quello degli Harlem Globetrotters!
A inventarli fu nel 1927 un omino di origine ebrea, figlio di un sarto polacco emigrato da Londra negli Stati Uniti: si chiamava Abraham Saperstein, Abe per gli amici. Che fosse un tipo intraprendente lo si capì dall’audacia con cui entrò da giocatore nel mondo del basket, nonostante il suo metro e sessanta di statura; nelle file dei Chicago Reds raggiunse anche il livello di un campionato semiprofessionistico, di più non poteva chiedere a se stesso. Dirottò ben presto la sua passione verso la carriera di coach, e a soli 24 anni si trovò per le mani una banda di coloured – un po’ vagabondi, un po’ giocherelloni – con la quale nessuno voleva avere a che fare. Non si sa se prevalse in lui il coraggio o l’incoscienza, o se più semplicemente dovette accontentarsi di quello che passava il convento. Si sa invece – benissimo – quanta fortuna scaturì dalla decisione di dedicarsi a loro.
La verità è che Abe aveva il fiuto dell’impresario. L’idea di utilizzare la Savoy Ballroom come palcoscenico per i suoi ragazzi (ballroom sta per sala da ballo, nulla a che vedere col pallone) gli balenò in testa per uno scopo meramente pratico: diede alla sua quadra il nome di Savoy Big Five, ottenendo in cambio una sponsorizzazione. Un’altra bella pensata fu di organizzare, tra le varie esibizioni, sfide aperte con il pubblico, mettendo in palio una ricompensa di cento dollari per il quintetto improvvisato che fosse stato in grado di batterli. L’obiettivo per i Big Five non era tanto vincere la scommessa (cosa che non doveva poi risultare così difficile), ma vincerla divertendo tutti, spettatori e avversari. Lo stratagemma del basket-spettacolo cominciò a incuriosire, anche se c’era da sgomberare presto il campo per dare spazio a musicisti e ballerini; poi si rivelò un gran successo.
Del resto, perché snaturare lo spirito di gioco di quei giganti neri, fino allora confinati nel ghetto. A loro piacevano le finte, le acrobazie, i palleggi da equilibristi, i tiri impossibili; che poi non fossero il massimo della disciplina e dell’efficacia, poco gliene importava. Abe li prese per quello che erano; anzi, intuì che questo modo pittoresco di interpretare il basket potesse attirare gente e fruttare quattrini. Finì per acquistarla, la squadra, e quando sembrò pronta per affrontare sfide più importanti di quelle della Savoy Ballroom, le diede il nome che l’avrebbe resa famosa: Harlem, come il quartiere nero di New York, simbolo delle origini e delle rivendicazioni afro-americane; Globetrotters, cioè i giramondo, quasi a presagire il loro destino.
Le intenzioni, all’inizio, erano molto più serie di quello che potevano sembrare. Abe volle competere con i professionisti, e nel 1940 si passò lo sfizio di conquistare – con la sua banda – il titolo di un torneo nazionale che era un po’ il precursore della NBA. Aveva ottenuto il massimo, ma proprio allora si rese conto di quale fosse la missione più conveniente da inseguire, e soprattutto di quello che il pubblico voleva da loro: solo spettacolo e divertimento, nient’altro. Così diventarono davvero i Globetrotters! In giro per gli Stati Uniti, e poi senza confini, in ogni angolo della Terra, sventolando i colori di una divisa (il blu della maglia, le strisce bianche e rosse dei pantaloncini, le stelline disseminate dappertutto) che era il simbolo della bandiera americana. Esprimevano l’allegria e la magia del basket; giocolieri, clown. Il fatto è che per entrare a far parte di quel circo, bisognava possedere una grande tecnica individuale, una perfetta padronanza dei fondamentali, seguire una rigida preparazione atletica: bisognava essere, insomma, dei grandi cestisti, come lo sono stati, negli anni, Tatum, Lemon, Chamberlain e, più recentemente, Magic Johnson.
Abe morì nel 1967 e quattro anni dopo entrò nella International Basketball Hall of Fame di Springfield, come il membro più basso tra quelli inseriti. Il mito da lui creato sopravvive ancora…
Nunzio Spina