Il cognome era italianissimo: Luisetti. Lo era anche il nome di battesimo, Angelo Enrico; solo che, vivendo negli Stati Uniti, finì con l’essere americanizzato, e si trasformò in Hank, più risoluto e gagliardo.
Nella storia del basket – di quello mondiale intendiamo – fu lui a segnare uno dei progressi più importanti, inventando il jump shot, cioè il tiro in salto, roba che se oggi lo vai a raccontare a un ragazzino del minibasket potresti anche prenderti una risata in faccia e sentirti chiedere ironicamente: «Perché, prima come si faceva?».
Vicenda e personaggio vanno collocati negli anni ’30. Erano passati vari decenni da quando James Naismith, con un pallone di gomma e due cesti di vimini, aveva concepito a Springfield il nuovo gioco del basketball; di miglioramenti sul piano tecnico, però, non è che ne fossero stati compiuti tanti. Tra le varie cose, era rimasta questa primitiva consuetudine (come se fosse una regola, ma non lo era) di tirare a canestro con entrambe le mani e, soprattutto, con i piedi ben piantati a terra. Doveva essere proprio Luisetti, figlio di emigrati italiani e ancora pervaso dal patrimonio ereditario, a rivoluzionare uno sport contraddistinto da un unico marchio di fabbrica e di sviluppo: «made in USA».
Aveva fatto di necessità virtù, il giovane Angelo, nell’inventarsi quella «strana» maniera di tirare a canestro. Il fisico era gracilino, e per avere la meglio contro i più robusti avversari – sui campetti di quartiere – provò ad anticipare il lancio del pallone prima di piazzarsi, a usare una mano anziché due, a staccarsi dal terreno in corsa. I suoi arti inferiori erano anche un po’ storti, oltre che minuti (non per niente lo avevano soprannominato «spiderlegs», gambe di ragno), ma per quei numeri che si era messo in testa di compiere sembravano fatti apposta. L’effetto risultò quanto mai proficuo, e fu così che un semplice espediente divenne a poco a poco – nelle sue mani e nei suoi piedi – una ben precisa tecnica di gioco, mai più abbandonata.
C’era sicuramente anche quella forza interiore e quella voglia di imporsi comune a tante storie di italo-americani. Il padre Stefano, nel 1906, aveva deciso di lasciare la terra natia e di tentare l’avventura oltre oceano: il richiamo veniva da San Francisco, che in quell’anno era stata praticamente ridotta a un cumulo di macerie da un terremoto, e aveva quindi bisogno di tanta manodopera per la ricostruzione. Qualche dollaro messo da parte gli permise di lasciare le fatiche di muratore e di aprire un ristorante, che sembrava una dote sicura per il futuro del figlio Angelo Enrico, nato nel 1916. I sacrifici più grossi li aveva smaltiti tutti papà, ma anche lui, Angelino dovette sgomitare un po’ per crescere ed emergere in quel quartiere ghetto, «Telegraph Hill», dove erano state confinate le famiglie giunte da lontano. La strada si rivelò il più naturale – e il più selettivo – terreno di confronto, il playground l’oggetto preferito della contesa.
Il basket non era proprio il gioco più amato dai «frisco italian» (così come venivano chiamati i nostri connazionali a San Francisco): spopolava il baseball piuttosto, forse anche per una questione di adattamento somatico, e fu proprio su quella «collina del telegrafo» che Joe Di Maggio, Tony Lazzeri e Frank Crosetti –autentici miti di questo sport – sperimentarono a colpi di mazza i loro primi «fuori campo», minacciando chissà quanti vetri di finestre. La baldanza di Luisetti, invece, era indirizzata a come fare arrivare il pallone in un canestro fregando il difensore, aggirando l’ostacolo più che affrontandolo, facendo la mossa senza dare il tempo di pensare alla contromossa.
La «Galileo High School» cominciò a valorizzare le sue qualità, e siamo negli anni dell’adolescenza, tra il ’30 e il ’34. Era uscito dal ghetto e aveva attirato su di sé ben altre attenzioni; intanto, quel suo nome italiano da «…troppo bravo bambino» non se lo sentiva più bene addosso, e così decise lui stesso di abbreviarlo in «Hank». La sua definitiva affermazione sarebbe arrivata da lì a poco, con l’ingresso nel college della vicina «Stanford University», a Palo Alto in California. Non un percorso obbligato, perché dovette intervenire di persona il preside della «Galileo» nel procurargli la borsa di studio di cui aveva bisogno, altrimenti il ristorante di papà Stefano sarebbe rimasta l’unica opportunità.
In fatto di statura non era poi così penalizzato (aveva raggiunto il metro e novanta), e un po’ di muscoli in quelle gambette da ragno li aveva fatti crescere. Ma la forza esplosiva ce l’aveva in testa, in questo continuo escogitare movimenti nuovi e nella capacità di trasmettere i comandi in maniera rapida. Ne venne fuori un repertorio assolutamente inedito: non solo il jump shot (con le sue derivazioni one-handed shot e running one-handed shot, cioè tiro a una mano in sospensione e in corsa), ma anche il salto al rimbalzo, il contropiede in palleggio, lo stesso palleggio dietro la schiena che avrebbe reso celebri altri giocatori, e solo molti anni dopo.
Spettacolo sì, ma anche sostanza; che tradotto in cifre voleva dire tanti canestri. I numeri, del resto, parlarono chiaro: 1596 punti nelle stagioni disputate con la maglia di «Stanford» tra il ’34 e il ’38, alla media di 16,1 per gara, che a quei tempi non era un semplice record, era qualcosa di inimmaginabile. E poi, il primato dei 50 punti in una sola partita (contro «Duquesne University») che fece incidere la relativa data nella storia del basket: 1° gennaio 1938.
Luisetti era diventato presto una stella del campionato sulla costa del Pacifico, ma per essere ammirato dall’intera nazione – e convincere tutti che la sua fosse una giusta maniera di cambiare certe regole – bisognava affacciarsi sull’Atlantico. Si disse che l’Ovest era più giocherellone e spregiudicato, mentre l’Est restava fieramente legato alla tradizione: due modi diversi di interpretare la vita, non solo il gioco del basket, che avevano bisogno di raffrontarsi. L’occasione propizia era giunta il 30 dicembre del 1936. I laughing boys (ragazzi allegri) di «Stanford» andarono a sfidare a New York i colleghi di «Long Island», imbattuti da ben tre stagioni: al «Madison Square Garden», davanti a 18.000 persone, Hank trascinò i suoi compagni a una storica vittoria (45 a 31) segnando 15 punti col suo jump shot, catturando rimbalzi, servendo assist. Avrebbe sempre ricordato negli anni il primo canestro di quella partita: «Lo realizzai grazie a una finta e giro sul perno sulla linea di fondo, davanti al più alto e al più grosso di loro. Sei stato solo fortunato, mi disse, ma poi restò ammutolito quando quel giochetto mi riuscì ancora…».
Quello fu in realtà il momento in cui il basket americano (e quindi anche dell’intero pianeta) cominciò a vivere una nuova era. Il pubblico rimase incantato, i giocatori avversari a metà strada tra invidia e ammirazione. Ci fu qualche irriducibile che rifiutò la novità: «Smetto di allenare, se devo insegnare questo tiro a una mano per vincere!», disse il coach newyorkese del «City College»; ma quando toccò alla sua squadra, l’anno dopo, di venire sconfitta dai californiani sotto i colpi «proibiti» di Luisetti, lo giudicò «uno dei più completi giocatori mai visti!». Nessuno smise di allenare per questione di principio, se mai cambiarono tutti il loro metodo di insegnamento: piedi piantati solo per i tiri liberi, per il resto ci si doveva staccare da terra – da fermo o in movimento – e il pallone andava lanciato a canestro con una mano («Capito? Con una mano!»). Che poi non c’era neanche bisogno di spendere tante parole, perché da quel famoso giorno di fine anno del ’36 l’imitazione di Luisetti contagiò i playground statunitensi di tutte le latitudini.
Una carriera che sembrava dovesse conoscere solo successi, e invece arrivarono anche sfortuna e delusioni. La prima gliela procurò la mancata partecipazione alle Olimpiadi di Berlino del ’36, prima edizione in cui erano state aperte le porte al basket: gli USA avevano deciso di organizzare uno spareggio tra college per farsi rappresentare dal vincitore, e quella volta «Stanford» dovette cedere il passo a «Washington». Hank ci teneva talmente a essere presente che decise di affrontare un lungo viaggio a piedi insieme a un compagno, attraversando la Spagna, che a quel tempo era sconvolta dalla guerra civile: ci mancò poco che venisse fucilato! Poi ci fu un’altra guerra – quella mondiale – a frenare la sua corsa: si arruolò in Marina, e vi rimase tre anni, in tempo per contrarre una insidiosa forma di meningite spinale che lo avrebbe poi costretto a chiudere anzitempo la sua carriera da giocatore. Gli venne così a mancare il palcoscenico più prestigioso per un cestista americano, l’NBA, che praticamente fu inaugurata nel ’46, quando ancora lui, trentenne, poteva essere nel pieno della maturità.
Provò l’esperienza di allenatore, e il risultato fu tutt’altro che deludente, visto che vinse subito un campionato, ma si trattava di una lega di secondaria importanza, e i riflettori su di lui non erano più puntati. Lasciò perdere. Pensò di sfruttare la sua popolarità – oltre che la sua intraprendenza – in altri rami di lavoro (turismo e traslochi), e da allora assaporò anche il gusto degli affari. La più grande gratificazione sportiva, comunque, doveva ancora arrivare. Nel 1959 fu il primo, assieme al dott. James Naismith, a entrare nella Basketball Hall of Fame, istituita nella città di Springfield, nel Massachusetts: l’inventore del basket assieme a lui, Luisetti, l’innovatore.
A San Francisco hanno aggiunto dediche particolari. Una statua in bronzo, che lo riproduce mentre è intento a tirare a canestro – ovviamente a una mano –, fu posta nel 1988 tra le tribune dell’arena «Maples Pavilion» a ricordo del suo primato dei 50 punti in una sola partita;
monumento che fu poi spostato all’esterno dell’edificio, per dargli maggiore visibilità. Nell’aeroporto di San Francisco, una hall of fame più casalinga lo ha immortalato assieme ad altri campioni dello sport nati da quelle parti, come il siculo-americano Joe Di Maggio. Non meno significativo, infine, l’onore riservato al suo numero di maglietta, il 7: dopo di lui, nessun giocatore della «Stanford University» ha mai più potuto utilizzarlo!Visse abbastanza, Luisetti, per godersi questi riconoscimenti. Arrivò alla veneranda età di 86 anni, varcando la soglia del nuovo secolo (morì nel dicembre del 2002), e diventando nonno di ben quindici tra nipoti e pronipoti.
Vide anche crescere attorno a sé tante generazioni di cestisti: quando osservava il loro tiro a canestro, socchiudeva gli occhi compiaciuto e ripensava a quella volta in cui, dopo aver chiesto al suo coach il permesso di continuare a tirare a una mano, si era sentito rispondere: «Go on!».
Nunzio Spina