Terza ed ultima puntata della saga dell’ex c.t. della Nazionale Vittorio Tracuzzi, raccontato da quattro allievi illustri: Ninni Gebbia, Pippo Borzì, Angelo Destasio e Sofia Vinci…
…continua dalla prima e dalla seconda puntata
- Ninni Gebbia. Playmaker della Virtus Ragusa negli anni settanta, dopo aver smesso il completino è stato anche allenatore di Montegranaro in Serie B d’Eccellenza e responsabile tecnico territoriale per la Sicilia del Settore Squadre Nazionali.
- Pippo Borzì. Pivot cresciuto nello Sport Club Catania e affermatosi in ambito nazionale con la maglia della Viola Reggio Calabria, da allenatore è stato a lungo nello staff tecnico della Virtus Ragusa e attualmente dirige la Virauto Catania.
- Angelo Destasio. Ala, talento catanese sbocciato a Rieti in A1 e nella Nazionale Under-20. L’ascesa è stata fermata da un grave infortunio, che lo ha relegato in Serie B1, in cui peraltro si è distinto come capitano della Pallacanestro Trapani.
- Sofia Vinci. Guardia, per vent’anni ha vestito la maglia biancoverde della Trogylos Priolo vincendo due scudetti e una Coppa dei Campioni. Ha giocato anche in Nazionale maggiore e ora è la responsabile del settore giovanile della società di A1 femminile.
Quando poi Tracuzzi tornò dalle nostre parti, e fu esonerato dalla Viola Reggio Calabria, feci di tutto per convincere i dirigenti della Virtus a farlo scendere a Ragusa. La stagione era già ampiamente inoltrata, eppure lui accettò volentieri, anche a costo di sobbarcarsi continuamente il viaggio da Messina per gli allenamenti; addirittura non pretese nessun compenso economico. L’anno dopo restò con noi un’intera stagione, in Serie B: ci salvammo, ma il grande risultato fu quello di valorizzare alcuni nostri giovani.
Poteva sembrare scontroso ma non lo era, la sua generosità era unica. Sicuramente era convinto delle sue idee e non si vendeva a nessuno. Ricordo di avergli sentito più di una volta pronunziare questa frase: «Io non ho mai voluto legare l’asino dove voleva il padrone!». Personalmente, comunque, non posso che parlare di lui come di una persona simpaticissima ed estrosa. Viveva un po’ per i fatti suoi, affezionato alla sua immancabile sigaretta e al suo caffè bassissimo; però era sempre interessato alle vicende societarie e alla condizione dei suoi giocatori, sia in campo che fuori.
Appassionato del suo lavoro, stava sempre in palestra, magari anche per sistemare qualcosa che non andava nell’impianto: a Ragusa per esempio si inventò una barra di ferro più rigida per sostenere il canestro. In campo poi era sempre pronto a stupire tutti con le sue trovate: nei minuti di sospensione, quando non si era ancora soliti usare la lavagnetta, lui tirava fuori le monetine dalla tasca e lì, sul pavimento, ci illustrava una soluzione appena escogitata. Era davvero inimitabile. Un premio alla sua memoria era il minimo che il basket italiano potesse riconoscergli.
Ninni Gebbia
Allora, per me era un allenatore incomprensibile. Soffrivo molto la sua scarsa propensione a darci degli schemi rigidi. Lui parlava di situazioni e letture in un contesto in cui la pallacanestro era molto schematizzata. I miei allenatori precedenti mi avevano cresciuto con quest’impostazione e a 25 anni, per di più senza un lavoro di programmazione a lungo termine, era impossibile adeguarsi alla sua mentalità. Con il senno di poi, mi rendo conto che era anni luce avanti rispetto ai suoi contemporanei. Usciva fuori dalle regole e per questo era anacronistico.
Quell’anno fu molto sfortunato. La società aveva dei problemi economici e subì un grande ridimensionamento. Proprio per questo, mi ritrovai ad essere tra i veterani malgrado la mia giovane età e Tracuzzi fu costretto a schierare una squadra con tanti juniores in campo. Comunque, credeva molto nel progetto giovanile e con i più piccoli era eccezionale. I risultati sul campo, però, furono conseguenti alla poca esperienza della squadra.
Ricordo che era un personaggio stravagante anche fuori dal palazzetto. Mi rimase impresso il suo camper, con cui viaggiava spesso e dove anche rimaneva a dormire. Inoltre, insegnava all’ISEF di Catanzaro e da Reggio Calabria saltava sulla sua lambretta per raggiungere il capoluogo calabrese…
Un personaggio del suo calibro, rivoluzionario e trent’anni avanti rispetto ai suoi colleghi, è entrato meritatamente nella Hall of Fame.
Pippo Borzì
Io ebbi modo di conoscerlo a fondo nel periodo in cui mi convocò nella Nazionale juniores, nel 1980, in occasione di un collegiale di preparazione al campionato europeo. Ricordo il suo rigore nel metodo, l’applicazione negli allenamenti. Nei miei confronti era molto comprensivo: dispensava consigli e cercava di spronarmi, facendomi sentire così meno a disagio nei confronti di gente come Riva, Fantozzi, Magnifico. Quando doveva riprendermi, comunque, lo faceva con decisione; qualche volta, magari, in un dialetto siciliano antico che faceva ridere gli altri del gruppo.
In quel periodo aveva una station wagon con la quale girava di qua e di là, il bagagliaio pieno di palloni, di tute e di scarpette. Andava dappertutto, sempre con la sua tracolla sulle spalle, pronto ad appuntare qualsiasi cosa. Fuori dal campo era piacevole stare con lui e sentirlo parlare: mi raccontava, ad esempio, di quanto furono importanti per la sua crescita gli anni del dopoguerra, quando venne a contatto con gli alleati americani, che sbarcando il Italia avevano portato, oltre alla Liberazione, anche grandi novità nel basket.
Devo ammettere, però, che l’ho apprezzato ancora di più quando fui chiamato a Bologna dalla Virtus, allora sponsorizzata «Granarolo». Entrando nella sede della società mi trovai di fronte a una serie di foto che raffiguravano gli anni d’oro, e in quelle foto Vittorio Tracuzzi compariva spesso, timoniere della leggendaria Virtus Minganti. L’allora presidente, l’avvocato Porelli, che era un suo grande estimatore, me ne parlava esaltandone le prodezze.
Tracuzzi fu davvero maestro di molte generazioni di giocatori; ha elevato la sua vita al basket italiano, soprattutto negli ultimi anni della sua carriera, quando dedicò tutto se stesso al settore squadre nazionali. Pertanto, l’avergli concesso questo premio alla memoria ha dato un senso alla sua figura e alla sua opera.
Angelo Destasio
Fu durante un torneo internazionale a Messina che capii quanto credeva nelle mie potenzialità. Alla fine di un allenamento mi mise davanti Pina Tufano e Catarina Pollini, due giocatrici di Serie A1 che fino a quel momento avevo solo sognato di poter incontrare, alte rispettivamente 201 e 194 cm, praticamente una muraglia… Loro si posizionarono sulla linea da tre, di fronte a me, e lui mi disse: «Adesso salta e tira in sospensione». Pensai che fosse matto… Aveva una fiducia estrema perché era convinto che con le mie caratteristiche sarei diventata una grande giocatrice. È il più bel ricordo che conservo di lui, perché ero molto giovane e mi fece molto piacere la sua considerazione.
Vedeva molto più in là degli allenatori di quei tempi, era innovativo, cercava situazioni nuove. Lui mi ha insegnato la cura nei particolari. Ma ho pochi ricordi sul campo. Un aneddoto riguarda un altro raduno, in montagna. Dovevamo spostarci da Verona e lui guidava una Lotus pazzesca, quella con cui poi ebbe l’incidente che gli condizionò gli ultimi mesi di vita, e correva tantissimo!
Lo consideravo un nonno, quindi sono rimasta molto turbata quando mi hanno detto che era morto ed ebbi anche un periodo di crisi. Eravamo entrambi siciliani, forse ero l’unica rappresentante dell’isola in Nazionale in quel periodo e mi riempiva di orgoglio sapere di essere stata scelta da lui. Quando ho vinto la prima Coppa dei Campioni, il giornalista Fabio Tracuzzi pubblicò un articolo in cui scrisse che suo zio sarebbe stato felice per questo successo. Lo penso anch’io. La dedica per le mie vittorie è andata non solo alla mia famiglia e a Santino Coppa, ma sicuramente anche al “Vecchio Trac”.
Sofia Vinci