Ye Li, la moglie di Yao Ming, è incinta… La Cina vuole che la bambina nasca a casa: se nascesse in USA avrebbe la cittadinanza americana… Da gossip a caso internazionale…
Lo hanno scomodato ancora una volta. Per Yao Ming passare inosservato è praticamente impossibile: non è solo una questione di centimetri in altezza (pur essendo ben 229); c’è dell’altro, qualcosa che lo ha ormai fatto diventare un vero e proprio affare di stato. Di qua la Cina, che avendogli dato i natali («dato» nel senso che è andata giusto a procurarglieli) lo considera una cosa propria, quasi un simbolo di nazionalismo; di là gli Stati Uniti, che continuano a riempirlo di gloria e di regali (sponsor) e lo mostrano al mondo come un bell’esempio di adozione.
L’ultima è questa: il gigante NBA degli Houston Rockets ha appena annunciato che la moglie Ye Li(ex giocatrice della Nazionale cinese di basket, centimetri 195) darà alla luce una bambina nel prossimo mese di luglio. Notiziola di cronaca rosa-sportiva, da due righe e non una parola in più, se non fosse che la Cina (nel senso dei cinesi tutti) si sia lasciata prendere da una angoscia profonda:«Dove la faranno nascere?».
Il campanilismo c’entra, ma fino a un certo punto. Di bimbi con occhi a mandorla, negli USA, ne sono nati e ne potranno nascere a migliaia. Ma la figlia di Yao Ming, no! Perché se uno degli uomini più influenti della Cina (tale è diventato dopo averla abbandonata) va a piantare l’albero della sua famiglia proprio sul suolo americano, sarebbe uno smacco inaccettabile, una grave battuta d’arresto nella rincorsa per sottrarre il primato mondiale alla diretta concorrente occidentale.
In una maniera o nell’altra, così, il basket si ritrova di nuovo a fare da sfondo ai rapporti diplomatici tra queste due superpotenze. Se ne era servito, per primo, il presidente Barack Obama nell’aprire il vertice «G2» dello scorso luglio a Washington: rivolgendosi al collega cinese Hu Jntao, aveva parlato di gioco di squadra da prendere come esempio per instaurare rapporti costruttivi anche in politica, tessendo poi l’elogio dello stesso Yao Ming, giocatore dotato di talento e di giusta mentalità. Che poi questa citazione fosse stata recepita come un vero complimento o piuttosto come una ruffianata con abile sottinteso («tanto il vostro campione adesso sta con noi…») è ancora un aspetto non perfettamente chiarito.
Tutto bene, comunque, fin che le virtù del personaggio siano al servizio di entrambi, fino a quando il gigante riesca a dare prestigio alla NBA continuando a sventolare la bandiera rossa del suo paese. Ma se c’è da fare una scelta precisa, le cose cambiano. Cinese in America, ecco cosa deve restare Ming secondo i suoi connazionali; così la moglie (si sono sposati a Shangai, nel 2007), così anche la primogenita che nascerà a luglio e tutti i figli che vorranno far venire al mondo. Cittadinanza americana, giammai! Neanche il doppio passaporto, perché la legge cinese non lo permette. Se Obama aveva elevato il suo idolo cestistico a modello di integrazione e di cooperazione tra i due mondi, adesso si rischia di farlo diventare uno strumento di divisione, se non di scontro politico.
Così è, una faccenda seria. Pare che internet sia già invasa da appelli in lingua orientale per convincere Ming a tornare nella sua terra di origine, appena in tempo per far partorire la moglie; messaggi tutt’altro che accomodanti giungono anche alla Casa Bianca. Il fatto è che lui, per la Cina, rappresenta molto più che un grande cestista affermatosi a livello mondiale: è piuttosto l’emblema della riscossa sociale ed economica di un paese, l’orgoglio di un popolo.
Del resto, la sua nascita era stata proprio voluta dalla comunità, diremmo quasi confezionata a tavolino. Nel progetto di dare vita a una nuova generazione di atleti, rappresentativi per capacità e prestanza, la Commissione Sport della municipalità di Shangai aveva proposto (vivamente) a due giocatori professionisti di basket di unirsi in matrimonio (e pertanto di abbandonare l’attività, secondo le regole in uso) al solo scopo di mettere al mondo una creatura con spiccate qualità fisiche. Lui, soprannominato Grande Yao, 2 metri e 08; lei, Grande Fang, 1 metro e 90: non c’era bisogno di manipolazione genetica per far nascere uno come Yao Ming. A 12 anni aveva già raggiunto i due metri, a 14 giocava con gli Shangai Sharks, a 17 approdava nella NBA.
Personaggio suo malgrado, Yao si è dovuto sempre impegnare duramente per trovare la sua affermazione, nonostante le naturali doti; ed è questa umiltà che ha suscitato l’ammirazione degli americani. Corretto sia in campo che fuori, ha cercato di condurre una vita normale, lontano per quanto possibile dai clamori, rispettoso delle regole, comprese quelle imposte dalle vecchie tradizioni del paese natio. Con i tanti soldi guadagnati girando spot pubblicitari per multinazionali come Pepsi, Reebok e McDonald’s, è diventato un uomo ricchissimo, ma bisogna riconoscergli il merito di essersi fatto promotore di molte iniziative umanitarie e di avere personalmente elargito somme in aiuto di chi aveva bisogno (e proprio in Cina ne sanno qualcosa).
Vestire i panni del «gigante buono», comunque, non gli è servito a liberarsi dalla prigionia della sua popolarità. Non è libero come vorrebbe, non può esserlo. È bastato che alla domanda sul luogo della nascita della figlia rispondesse «Deciderò insieme a mia moglie…» per scatenare i sospetti e le reazioni di cui si è detto. Un evento intimo e lieto che dovrà – necessariamente – esporre fin d’ora all’attenzione e alle critiche di tanta gente, forse di un’intera nazione.
Avrà tempo e modo di riflettere. Deciderà per il meglio, e soprattutto per il bene suo e della famiglia. Staremo a vedere, perché a questo punto la scadenza di luglio non potrà sfuggire ai riflettori dei mass media di tutto il mondo. A meno che lui, Ming, non decida che sia giunta l’occasione di uscire definitivamente dalla scena, e di diventare una volta per tutte il «Signor Nessuno». Un sogno di anonimato che forse insegue da una vita.
Nunzio Spina
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