Per oltre trent’anni è stato l’anima della pallacanestro catanese: Salvatore Trovato detto Totò ha ricoperto praticamente ogni ruolo possibile, dal giocatore all’allenatore, dal direttore tecnico al direttore sportivo. Il suo nome sarà sempre legato alla Grifone con cui disputò la Serie A da giocatore e al Gad Etna di cui fu tecnico in Serie B, quando equivalevano all’odierna Legadue.
Vicor, al secolo Vittorio Corona, uno dei grandi giornalisti catanesi di pallacanestro, ne ha consegnato un grande ritratto alla storia: «Trovato fu l’alfiere del basket catanese. I suoi atteggiamenti a volte plateali, la grinta che sfoggiava in campo, le sue caratteristiche velocissime entrate, gli entusiasmanti contropiede di cui era protagonista, hanno offerto gli elementi per cui il pubblico ne ha fatto, a ragione, il beniamino, l’uomo da cui attendersi il “miracolo” per vincere una partita che sembra irrimediabilmente perduta: e Totò Trovato, che ha sempre sentito il calore del pubblico, non è mai restato insensibile quando veniva invocato, e spesso quel miracolo lo realizzava, soprattutto nei drammatici spareggi per la permanenza in serie A, capovolgendo criticissime situazioni e, a volte, vincendo da solo una partita.»
Il diretto interessato non smentisce le parole di Vicor, raccontandosi senza remore tra pregi e difetti. A conferma della descrizione pubblicata su La Sicilia tanti anni fa, va detto che l’importanza di Trovato nel panorama sportivo catanese lo rese popolare anche in ambito nazionale, ancora giovanissimo: «Mi cercò la Lazio, antagonista della Stella Azzurra, la squadra dove sarebbe andato Santi Puglisi anni dopo – spiega lui, oggi 68enne, – e mi promisero anche di pagarmi l’ISEF. Io avrei voluto iscrivermi, ma morì mio fratello ad appena 22 anni. Ho perso così una grande occasione, ma non ho grossi rimpianti. In seguito, mi hanno cercato spesso anche in Sicilia, ma allora il cartellino era a vita e per andarmene avrei dovuto pagare. Difficilmente ci si muoveva e ancora di più se ci si sentiva il reuccio, come me a Catania!»
In che senso?
«Ero diventato una specie di personaggio famoso. Andavo sul giornale non per fare proclami, ma per le partite. Più in là, si sono interessate al basket Antenna Sicilia e Telecolor e, quando salivo sull’autobus, mi riconoscevano e non mi facevano pagare: era un vanto e mi si gonfiava il torace!»
Qual è stato il suo momento migliore?
«Quando giocavo ero all’apice della mia carriera. L’allenatore era considerato un personaggio importante, ma chi contava era il giocatore, chi faceva più punti evidentemente era sulla bocca di tutti e io segnavo tanto. Mi aiutava il sistema di gioco, in quanto la squadra lavorava molto per chi si prendeva la briga di andare a rischiare di fare cattiva figura. Prendevo sempre l’iniziativa, ma non partivo quasi mai dalla difesa proprio perché c’era gioco di squadra. Un atleta normale corre i 100m, se vince bene, se no niente. Negli sport di squadra, invece, se non ci si aiuta tra compagni fai poco tu e penalizzi gli altri. Ci sono i giocatori individualisti, ma senza una buona intesa con gli altri non concluderebbero nulla.»
Come giocava?
«Ero un’ala piccola e un forsennato contropiedista, finivo le mie corse sempre a terra e sbattuto contro i muri. Per segnare, mi contorcevo fin quando non facevo canestro; inoltre avevo un buon palleggio, stavo in aria più degli altri e non avevo timore reverenziale. Facevo una montagna di stupidaggini, ma tutti le dimenticavano quando mi riusciva qualcosa di buono. Tuttavia, nel periodo della maturazione, a 25 anni, andavo in tilt con molta facilità: ero fragile di nervi, non ero un colosso e fra gli avversari di 190 cm scappava spesso qualche parola… Ho sempre tentato di farmi vedere in campo per un discorso egoistico: lo facevo per primeggiare, proprio perché non avevo un fisico buono, dato che ero magro come un chiodo e non ero alto. L’altezza comunque non era una virtù comune: il nostro pivot, Turi Tumino di Ragusa che studiava a Catania, era alto appena 1,83 m. Con i miei 175 cm ero minuto e cercavo di migliorarmi facendo pesi e rischiando anche di scassarmi… E non avevo grandi fondamentali. Ad esempio, una volta giocavamo a Ragusa e lì mi lineai il polso sinistro: Gigi Mineo mi fece mettere una fascia e mi fece tornare a giocare perché usavo pochissimo quella mano.»
Perché c’era poca cura dei fondamentali?
«Perché si iniziava tardi: negli anni cinquanta c’erano ancora tanti pregiudizi contro gli allenatori, non esisteva ancora il termine pedofilia ma c’era chi ne aveva paura. Eravamo solo dei grandi autodidatti. Prendevamo comunque ad esempio gli statunitensi: spesso e volentieri le navi americane sbarcavano cinquanta squadre di pallacanestro, con cui giocavamo delle amichevoli, e a volte sfidavamo quelli di base a Sigonella. Ci eravamo abituati ad essere massacrati: sono pulitissimi ma con un gioco duro, maschio.»
Quando ha iniziato a giocare?
«A quindici o sedici anni, con un modesto allenatore, ma grande personaggio: Puccio Reitano, che aveva una grande pazienza con tutti noi. Sin da piccolo voleva fare l’allenatore e gli insegnò quasi tutto il prof. Santo Caponnetto. A sua volta, quest’ultimo era un esuberante diplomato all’ISEF di Roma, bravissimo nell’atletica: era considerato tra i migliori d’Italia, al pari degli altri catanesi Cazzetta, Russo e Di Mulo. Erano così appassionati da scrivere ai negozi specializzati di basket di Milano, richiedendo libri e magliette, soprattutto quelle in stile americano, che indossavamo per fare gli spacchiuseddi… Reitano gestiva il Cus, che faceva i campionati allievi, cadetti e juniores. Per non farmi tagliare fuori, dovetti falsificare la carta d’identità al momento dell’autenticazione, togliendomi un paio di anni. Così potei giocare. Contemporaneamente, mi dedicavo anche al calcio e me la cavavo benino; anche lì ero ala.»
Si faceva attività anche a scuola?
«Sì e le finali tra scuole superiori erano uno spettacolo. Me ne ricordo una tra Cutelli e Spedalieri… E non era solo per la pallacanestro: i campionati studenteschi di atletica riempivano la Tribuna B del Cibali, venivano tutti a vederli. Più tardi, anche l’attività universitaria è stata appassionante, come in occasione dei Campionati Nazionali. Noi abbiamo giocato per esempio contro Pisa, una squadra che contava su un pivot di Serie A da 2 metri e 06! Contro di loro, giocai in modo inenarrabile, la palla entrava sola a canestro… Oggi, purtroppo, i campionati universitari sono secondo me qualcosa di deplorevole…»
Intanto come concluse la sua attività giovanile in ambito federale?
«Il Cus era l’unica società che aveva qualche soldo per poter sostentare lo sport e così continuai con la loro squadra juniores. La società universitaria sosteneva in quel periodo anche delle ottime squadre di scherma e pallavolo. Ci allenavamo alla palestra dello Spedalieri, dove c’era un campo in brecciolino su cui passavamo la calce per le linee, che si spostavano da sole! Più tardi, il professore Strano realizzò un campo in terra battuta per il tennis: piazzammo due canestri agli estremi e così potemmo utilizzarlo anche noi! All’aperto, quando pioveva, il pallone di cuoio diventava di 7 chili e mi sfasciai un dito giocandoci… Le palestre al chiuso, quindi, si facevano diventare regolamentari anche se non lo erano, perché era sempre difficile trovare dove giocare e parecchie non potevano essere utilizzate a meno che non si studiasse lì. Non appena il CONI ci faceva avere un paio di canestri, noi li montavamo; spesso, però, duravano poco perché venivano distrutti. »
Che campionati affrontavate?
«Gli juniores facevano il campionato del Centro Sportivo Italiano, che dipendeva dalla chiesa ed era un’emanazione sportiva del Vaticano. La sezione catanese del CSI era di Giovanni Caruso, a cui subentrò Alfredo Avola che con “mandato papale” avrebbe gestito per tanto tempo la pallacanestro locale. Gli juniores arrivarono alle nazionali ma io non mi potevo più spacciare per giovane. Tutti si chiedevano perchè non andavo e così si venne a sapere che c’era stato un errore… Per poco non diventava un caso nazionale! Dopo gli juniores, fummo costretti a cercarci una squadra, perché non ci volevano più. Trovammo il Gad Etna che ci fece partecipare alla Prima Divisione. Era una specie di CRAL di non so quale associazione di lavoro, ma riguardava sempre qualcosa di religioso. La rosa era la stessa del CSI e i giocatori si dividevano tra il campionato del Centro Sportivo e la Prima Divisione con il nome di Gad. Al primo anno fummo promossi alla serie superiore, ma il Gad già non poteva più sostenere le spese…»
Ma cosa significa Gad?
«Gruppo Amici Dopolavoro? Possibile, perché era un’emanazione di Alfredo Avola che aveva raccolto del denaro attraverso degli amici della provincia. Gruppo Aziendale Democratico? La Democrazia Cristiana era il partito dominante, quindi potrebbe essere pure… So comunque che il nome della società attuale, che non ha nulla a che fare con quella vecchia, è stato dato chiedendo il permesso proprio ad Avola e quindi dovrebbe avere lo stesso significato.»
Cosa avvenne dopo la promozione?
«Il CUS cominciava a fare del lavoro come prima squadra e uno di quelli che se ne interessava si chiamava Paolo Venturino. Ci fosse stato qualcuno che gli avesse spiegato cos’era la pallacanestro! Comunque, era una persona squisita e lavorava come un martire. Ci allenavamo dalla mattina alla sera e facevamo dei progressi assurdi per come ci autogestivamo. Nove volte su dieci davo io gli indirizzi, ma non in maniera ufficiale. Ciccio Asero, invece, curava la parte atletica. In questo gruppo c’erano già Marino, Pinto, Barbera e Asero e io e gli altri del Gad contribuimmo a formare un parco giocatori immenso. Un paio venivano da Giarre, che al tempo era la più grande espressione della pallacanestro siciliana insieme a Messina e dove i giocatori venivano pagati. Partimmo dalla Promozione e facemmo un bel campionato. Anche Penzo ci diede una mano, dato che in casa giocavamo prima della Grifone. Fuori, invece, ci seguiva Venturino.»
Intanto la Grifone arrivava in Serie A.
«Sì, e tutti noi siamo passati lì per il bene della pallacanestro, prelevati dal professore Cacchi. Questi era detto il professor Pigni perché era marito di Paola, una grande atleta di livello europeo. Era originario della Romagna, si era trasferito in Libia e infine era giunto a Catania; sarebbe diventato anche commissario tecnico della nazionale d’atletica. La Grifone era gestita dal professore Alberto Di Blasi, che aveva rilevato la sezione pallanuoto del Giglio Bianco; non so comunque se ci fosse una connessione tra le due società di basket. Noi eravamo molto individualisti, da un punto di vista tecnico e di rispetto dei compagni ci insegnò molto. Per me, il professore Cacchi è stato il grande allenatore della squadra di pallacanestro.»
Ma il capoallenatore era Amerigo Penzo.
«Con lui arrivò l’era della modernità! Quand’era più giovane aveva giocato e aveva vinto uno scudetto. Da allenatore era stato commissario tecnico della nazionale e aveva vinto un titolo con la Reyer femminile, ma poi cadde. Non so chi lo ingaggiò, ma sicuramente lo consigliarono a Mineo presentandolo come un grande allenatore. In realtà, venne a Catania perché non riusciva a trovare un ingaggio. Inoltre era modestissimo: rompeva continuamente e passava uno strano periodo da un punto di vista personale. Lui aveva preso il posto di Gigi Mineo, l’uomo di riferimento della pallacanestro a Catania. In precedenza, Mineo giocava e aveva guidato la squadra per qualche anno. Era amico di Enrico Vinci, il presidente messinese della FIP, ed era un conoscitore del basket perché svolgeva sia il ruolo di dirigente nazionale che quello di allenatore nazionale. Diede alla Grifone un assetto manageriale e chiamò dei professionisti.»
Da chi era formata la rosa?
«Da ragazzi meravigliosi. Con me passarono dal CUS Santi Puglisi, Pinto, Barbera, Stefano Aloisi, Gigio Rinaldi e Fabio Bezoari. Puglisi era un grande giocatore di pallavolo; a basket non altrettanto, ma eseguiva il tiro in sospensione in maniera esemplare. Io ero l’ultimo ad andarmene all’allenamento e lui addirittura andava via dopo di me. Poi ha studiato all’ISEF, è riuscito a legarsi a carri giusti e per lui è stato importante anche l’aiuto di Valerio Bianchini, con cui ha lavorato in nazionale. Io facevo l’allenatore da prima, ma lui è stato molto più professionale. E poi, a Catania, era professore di educazione fisica, quindi aveva la palestra a disposizione mentre noi andavamo in cerca di un campo! Rinaldi era un cestista anomalo ma con un buon acume tattico, intelligenza non comune e una strana camminata. Bezoari era grande atleta, faceva di tutto, dalla pallavolo al salto in alto, di cui era campione regionale. Diede il meglio nella pallanuoto, che lo vide protagonista in Serie A con Pegli e anche con la nazionale italiana. Il resto della squadra era formato da Turi Tumino e Vittorio Guarnotta, i due fuoriclasse. Guarnotta, trapanese, era la fine del mondo: faceva salto in alto ed era molto più alto di me, aveva un palleggio eccezionale. Mi ricordo anche di Pippo Grasso e Rocco Sciara. Il primo era, tatticamente, un genio della pallacanestro: giocava con tutt’e due le mani, era appassionato degli Harlem Globetrotters e faceva ridere il pubblico deridendo gli avversari; ma era scarsissimo al tiro e se gli capitava tra le mani la palla decisiva all’ultimo secondo ci mettevamo le mani ai capelli! Il secondo era sanguigno e scattante: mentre gli altri pensavano a cosa fare, lui era già sulla palla.»
Ricevevate uno stipendio?
«Ho ricevuto soldi dopo aver fatto una trafila incredibile. Noi compravamo tutto l’abbigliamento, la società ci dava solo una maglietta mandata dal CONI. Di solito spedivano venti magliette XXL che poi venivano sistemate dalle mamme. Pian piano la situazione mutò e al terzo anno in Serie A ho iniziato a prendere soldi, 25000 lire al mese, che per me era una cifra da fantascienza. Di solito erano pagati solo quelli che venivano da fuori città, per me si fece un’eccezione. Guarnotta per esempio, prendeva di più perchè gli davano il vitto e l’alloggio: arrivava a 100.000 lire al mese. Noi non avevamo grandi segreti, si è sempre accettata la consuetudine che chi veniva da fuori città andava pagato. Erano lì per risolvere i problemi della squadra: un pivot con un buon acume tattico come Tumino non ce l’avevamo in casa e Ragusa, che era l’antesignana del professionismo, evidentemente ce lo dava solo in prestito per il periodo degli studi. Guarnotta, poi, impiegava sette ore e mezza per tornare a casa… Da parte mia, avevo bisogno di soldi dopo la morte di mio fratello. Il professore Di Blasi, il presidente, mi disse: “La prego non ne faccia un vanto!” perché ero l’unico catanese ad essere pagato. Ovviamente non lo dissi a nessuno. Non ero smaliziato: mi serviva qualcosa e non ne facevo una questione, non chiedevo cifre alte. Era comunque un sistema diverso, con persone diverse. A distanza di anni si adottò la politica del gettone di presenza in allenamento, poi i soldi sono cresciuti per l’inflazione galoppante.»
Quindi, come andarono i campionati di Serie A?
«Partiamo da una visione più ampia. Negli anni sessanta, la massima serie era divisa nel torneo delle Elette e della Serie A, dove giocavamo noi. Tra noi e gli avversari c’era un abisso: sembrava di giocare contro l’All Star. E non c’erano stranieri. Sono entrato a far parte del quintetto della serie A subito. Siamo rimasti tre anni e siamo scesi nel 1962. Eravamo gasati, ma non abbiamo fatto delle grandi comparse… poveri disgraziati! Alle volte, facevamo fatica a mettere dieci persone in campo… Il pubblico comunque ci seguiva sempre, con tanti ragazzi, che forse erano meno impegnati di oggi! Poi ho iniziato a fare il giocatore-allenatore e ho lasciato il campo giovanissimo, perché ero troppo nervoso. Già nel 1967-68, a ventisette anni, non giocavo quasi più.»
Come diventò allenatore?
«Sono stato allenatore nazionale (avrei potuto occuparmi anche di una squadra di Serie A) e, per ottenere la tessera, ho fatto vari corsi nell’arco degli anni. L’ultimo lo feci a Salerno con Arnaldo Taurisano, uno dei primi italiani a studiare il basket in America. Si dice che abbia introdotto la vera preparazione atletica in Italia: a noi ci faceva lavorare da matti e lui stesso si faceva un mazzo… Era il 1968, prima di allora ero capitano in campo. Da qualche anno il Gad Etna aveva preso il posto della Grifone e di lì a poco saremmo arrivati in Serie B. Un ricordo della serie cadetta è Ratta, che era bravissimo ma aveva un ginocchio fuori posto. Poi però si incrinarono i miei rapporti con la squadra. I lunghi periodi portano ad incomprensioni: non volevo andarmene, ma ero molto duro, prima con me stesso poi con gli altri, e non ero molto gradevole, andavo sempre giù pesante. I ragazzi erano meravigliosi perché inizialmente non mi dicevano nulla, ma poi iniziarono a lamentarsi tra di loro. Così cominciai gradualmente a lasciare la panchina ad Enzo Molino, che prima si occupava delle giovanili, e passai a lavorare come dirigente. Per un bel po’ di tempo andai in panchina, iscrivendomi come allenatore in seconda mentre Molino faceva il primo. Un bel giorno decisi di mollarlo per farlo crescere: mi misi dall’altra parte della panchina, tanto che tutti pensavano che avessimo litigato. Quando c’erano i time out e le pause di gioco non intervenivo più se non per riprendere chi sbagliava. Infine me ne andai per un biennio a Caltanissetta, dove mi diedero una barca di soldi e con cui vinsi a Catania da ex. È stato un gran bel periodo quello in cui facevo il tecnico, ma non riuscivamo quasi mai ad avere una squadra forte.»
Quando tornò al Gad Etna?
«Nel 1976 e tornai esclusivamente come dirigente. E lì si costruì molto, soprattutto quando vendemmo Angelo De Stasio al Rieti. Ci pagarono 20 milioni l’anno per un totale di 120. In questo modo abbiamo fatto dei bellissimi campionati, comprando gente come Rossi. Nello stesso periodo portai l’abbinamento con lo Jägermeister, che dava 3,5 milioni all’anno. Infine, ho costretto alcuni rappresentanti, miei colleghi di lavoro, a fare da soci sostenitori per anticiparci una cifra che poi riprendevano con i contributi dagli enti statali. Così costruimmo il Gad con vari giocatori provenienti da Reggio Calabria, che reclutava molti allievi e cadetti, li cresceva e poi li dava alle squadre minori; avevano cercato anche De Stasio. Noi li ricevevamo per cifre simboliche, pagando però dei pesanti ingaggi. Rossi, ad esempio, costava 1 milione al mese perché abitava a Reggio. Anche Liguori era un buon giocatore. Un anno ho preso un tecnico romano, molto in gamba, che è morto in seguito ad un incidente: Rolando Rocchi. Era un grande giocatore nella Lazio e quando arrivò qualcuno avrebbe voluto che giocasse… ma era troppo anziano! Sopra tutti noi stava il presidente Alfredo Avola, sotto un grande movimento di minibasket. E grazie al fratello di Molino trovammo anche una palestra per gli allenamenti al chiuso, la De Roberto di via Ammiraglio Caracciolo, in sostituzione del palazzetto che era perennemente occupato dalla pallavolo.»
Come si è conclusa la sua esperienza attiva?
«Alla fine degli anni ottanta, nel periodo in cui c’erano Martino, che faceva l’accompagnatore, e il dott. Puleo, che si occupava delle spese. C’era anche il factotum Granata, braccio della società che si occupava delle magliette, dei palloni, dell’organizzazione fisica delle trasferte. Era preziosissimo, perché nessuno voleva fare questo lavoro e lui era sempre disponibile: onore a Granata, era meraviglioso! Per non avere una lira, avevamo un assetto buono. In quel periodo saltarono fuori Puleo, Martino, Balbo, Carbone, Cipolli, che benché fossero giovani erano navigatissimi. Poi mi sono allontanato e sono rimasto molto distante, sono andato al palazzetto solo quando avevo tempo e voglia. Qualche anno fa sono tornato per aiutare mio cugino alla Grifone. C’era Gianfranco Morelli come allenatore e con lui ho litigato una marea di volte… Poi ho chiuso definitivamente.»
[1 – continua]
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