«La gomitata di Dino Meneghin a Pippo Famoso: un momento magico nella storia del basket catanese» ovvero Sport Club-Ignis vista da Nunzio Spina.
Quel gomito si era abbattuto sulla sua testa come una mannaia. Sul momento, Pippo Famoso, non sentì nulla: era intento a seguire la strana traiettoria che aveva appena dato al pallone per centrare ancora una volta il canestro. Il ciuff e il boato del pubblico allungarono di qualche frazione di secondo quella sorta di anestesia da ebbrezza; poi cadde a terra, sanguinante.
Scena di ordinaria «follia» agonistica, di quelle che nel basket possono far parte del gioco e subito si dimenticano, se non fosse che quel gomito, pesante e tagliente al tempo stesso, apparteneva al più grande mito della storia del basket italiano: Dino Meneghin.
Non era un sogno; e neanche un semplice uno contro uno da campetto estivo. Si giocava una partita vera: Pippo Famoso vestiva la maglia amaranto dello Sport Club Catania, Dino Meneghin quella giallo-blu dell’Ignis Varese. Possibile? Possibile! Era il 14 marzo del 1973. Una strana e stimolante formula di Coppa Italia dava di fatto l’opportunità a squadre delle serie minori (dalla B alla D) di incontrarsi direttamente, sul proprio campo, con i colossi del massimo campionato.
Allo Sport Club di Santi Puglisi era già andata di lusso l’anno prima, quando si era ritrovata come avversaria la Mobilquattro, seconda compagine milanese dopo la gloriosa Simmenthal. Ma il destino doveva ancora riservare una sorpresa e un regalo ben più grandi: affrontare – per l’appunto – la grande Ignis Varese, che in quel periodo si fregiava di cinque scudetti vinti negli ultimi dieci anni e della fresca conquista della sua seconda Coppa dei Campioni.
La notizia della grande sfida era arrivata un sabato sera, all’Hotel Prati di Napoli, dove la comitiva catanese si trovava per una trasferta del campionato di serie C. Dopo aver superato il turno di Coppa con l’Orlandina, che allora militava in serie D (aveva rischiato clamorosamente di perderla quella partita!), lo Sport Club attendeva da un momento all’altro il nome del nobile avversario. Il prof. Puglisi ricevette una telefonata da Elio Alberti (allora dirigente) e cominciò a ridere; poi si rivolse ai suoi ragazzi e, tra una sghignazzata all’altra, balbettò: «Sapete con chi giocheremo in Coppa Italia? ». Risero tutti a quel punto, per il semplice fatto che nessuno ci volle credere. I più diffidenti si convinsero solo qualche giorno dopo, leggendo la notizia sul giornale.
Il Palazzetto di Piazza Spedini quella volta (era un mercoledì sera) si riempì come mai per una partita di basket a Catania. Gli spettatori erano molto di più dei 2000 consentiti dalla normale capienza, con record di spettatori in piedi o seduti sugli scalini, come non si era visto neanche per la pallavolo maschile, a quei tempi competitiva per lo scudetto. Chi sosteneva che nella nostra città il pubblico scarseggiava perché mancava proprio la passione cestistica dovette rimangiarsi tutto (con tanto di indigestione).
La prima cosa che colpì fu vedere gli spalti pieni almeno un’ora prima della partita, e già lì si cominciò a entrare in estasi. Al di là dell’ansia di trovare il posto a sedere, c’era la frenesia di gustare fin dall’inizio un evento come questo, magari scorgendo i campioni prima ancora che entrassero negli spogliatoi. Ignari, tutti, che su quegli spalti sarebbero rimasti incollati per un lungo fuori programma dopo la fine della partita.
Abbiamo parlato di campioni, vero? E allora facciamo subito i nomi. Per le presentazioni (qualora qualcuno dei più giovani ne abbia bisogno) si rimanda a qualche capoverso più avanti. Ignis Varese in campo con: Meneghin, Ossola, Flaborea, Zanatta, Morse, Bisson, Rusconi, Polzot, Lucarelli, Chiarini; allenatore Nikolic. Diciamo che era – più o meno – una nazionale concentrata in una squadra di club. Col valore aggiunto dei non italiani, che rispondevano ai nomi di Bob Morse, uno degli americani più genuini e completi mai sbarcati da noi, e Aza Nikolic, bosniaco di Serajevo, il «Professore» che con la sua metodologia di allenamento e il suo rigore aveva già messo su, a Varese, una autentica macchina di vittorie.
Gli occhi di tutti, ovviamente, erano puntati su di loro durante il riscaldamento. Anche quelli dei ragazzi dello Sport Club che, tra un’entrata a canestro e l’altra, si fermavano ogni tanto ad ammirare – mani ai fianchi – quelle figure leggendarie viste fino allora solo in televisione o sulle pagine di qualche rivista sportiva. Era peraltro la formazione ringiovanita che Puglisi aveva messo su dopo il primo brillantissimo anno di serie C (terzo posto finale, alle spalle del Gad Etna promosso in B) e che stava disputando un tranquillo campionato di transizione. Ad avere la fortuna e l’onore di scendere in campo quella sera furono: Claudio Sensi, Pippo Famoso, Valerio Cavaletti, Luciano Cosentino, Ghieri La Rosa, Nicola Cassisi, Pippo Borzì, Giacomo Vitale, Edoardo Patacca e Matteo Bottari.
Famoso cominciò sicuramente già lì, durante il riscaldamento, a tramare la sua personale sfida. Pippo, vent’anni, 1,77 di altezza, non aveva paura di nessuno. Anzi, più l’avversario era grande e grosso, più aumentava in lui la voglia di competere e possibilmente di «fregarlo». Andare a segnare in contropiede da solo – per esempio – gli interessava poco; con un avversario davanti (ma anche con due) la cosa era molto più stimolante: una finta di qua, un tiro in sotto mano di là, chi ci provava a stopparlo rischiava davvero una figuraccia.
Quella volta, poi, si sentiva addosso qualcosa che lo rendeva più intraprendente del solito. Forse erano le scarpette nuove, che fu costretto a indossare perchè quelle usate fino allora erano ormai bucate e ridotte a un sottile strato di suola. Il prof. Puglisi gli prestò le sue All Stars di tela bianche, tirandole fuori immacolate dalla scatola: era la prima volta che Pippo indossava scarpe made in USA, ed ebbe la netta sensazione, con quelle, di rimbalzare sul parquet come se avesse delle molle ai piedi.
Quando i giocatori si ritrovarono nel cerchio di centro campo, per la palla a due iniziale, Famoso era sicurissimo del fatto suo. Strizzò l’occhio a Valerio Cavaletti, che nella contesa aveva davvero un tempismo eccezionale, e si ritrovò subito in mano il primo pallone giocabile: arresto al limite basso dell’area dei tre secondi, finta da far abboccare anche un campione come Ossola, e primo canestro con tiro a tabellone. Sport Club 2 – Ignis 0. Il pubblico esultò, più divertito che convinto. «Sarà il primo e l’ultimo!» – gridò qualcuno.
Attacco di Varese, tiro sbagliato, rimbalzo difensivo, palla in contropiede, di nuovo a chi? A Famoso. Pippo meditò l’entrata a canestro, ma c’era un particolare: a sbarrargli la strada, stavolta, aveva di fronte i duemetriequattro e le spalle «larghe così» di Dino Meneghin. La manona del pivot, protesa per la stoppata, non trovò la palla, astutamente dirottata in un sotto mano con traiettoria a effetto; il gomito, invece, trovò la testa di questo ragazzo barbuto e impertinente, che si era già permesso di segnare i primi due punti. Fu un altro canestro. Sport Club 4 – Ignis 0.
Pubblico incredulo e in delirio; il catino del Palazzetto sembrò esplodere. Fu tale l’esaltazione del momento che tutti (ed erano sicuramente tantissimi coloro i quali vedevano per la prima volta una squadra catanese giocare) si misero a gridare a gran voce: «Sport Club, Sport Club ». Un incitamento per osare ancora! In fatto di numero di spettatori, e di decibel, fu quella sicuramente una delle punte più alte di tifo (direi la massima, accetto smentite) mai toccate per una squadra di basket della nostra città.
L’illusione, ovviamente, finì lì. Era durata anche troppo! L’inizio scoppiettante a favore della squadretta di casa non fece altro che accendere il fervore dei campioni di Varese che, da quel momento, si misero davvero a giocare sul serio, se mai avessero snobbato l’impegno. La partita si chiuse sul punteggio di 132 a 35 (inutile precisare a favore di chi): era praticamente impossibile, per lo Sport Club, cavarsela con un passivo di meno di cento punti; si evitò, quanto meno, uno scarto a tre cifre.
I numeri, comunque, erano la cosa meno rilevante di quella partita. Con l’Ignis poteva accadere di tutto e poteva finire in qualsiasi maniera: per ognuno, giocatori, tecnici, dirigenti e pubblico, l’importante era esserci, partecipare a una festa che difficilmente avrebbe avuto una replica in futuro (e di fatto non l’ha più avuta).
Bisogna però tornare un attimo indietro al 4 a 0 iniziale, quanto meno per sapere come Famoso venne fuori da quel duro (involontario, si capisce) colpo di Meneghin. Dopo il canestro realizzato, Pippo fece per tornare in difesa, poi cadde a terra, praticamente svenuto. Lo soccorsero, si riprese subito; la mano che si era portato in testa per proteggersi si era imbrattata di sangue, a causa di un taglio al cuoio capelluto. Qualcuno gli disse che doveva uscire
Cosa? Uscire dal campo? Non se ne parlava neanche! Lui era lì a giocare contro i suoi idoli, gli aveva stampato due canestri in faccia, aveva scatenato il Palazzetto, e adesso doveva abbandonare per un taglietto in testa? «Sto bene, sto bene, non vi preoccupate!». Stava talmente bene che subito dopo sfiorò il terzo canestro consecutivo (la palla girò più volte sul ferro, sospinta inutilmente dalle urla del pubblico) e comunque alla fine risultò il miglior realizzatore della sua squadra con ben 13 punti, tantissimi se si pensa chi c’era di fronte.
A proposito di punti. Verso l’una di notte, alla fine di quella lunghissima serata (cena al ristorante compresa), Famoso pensò che era il caso di farsi controllare la ferita in Pronto Soccorso. Gli applicarono tre punti di sutura in testa, che volentieri inserì nel bilancio di quella indimenticabile avventura. Per un po’ di tempo, a chi gli chiedeva quanti punti aveva totalizzato con l’Ignis, rispondeva con aria disincantata: «Tredici più tre !».
Naturalmente non c’era solo Famoso in campo, ci mancherebbe altro. Tutti fecero la loro parte e si ritagliarono la loro bella fetta di gloria. Da Pippo Borzì (8 punti) a Valerio Cavaletti (7), da Luciano Cosentino (4) al capitano Claudio Sensi (2), da Nicola Cassisi a Giacomo Vitale, la cui trepidazione fu tanta da farli apparire ancora più piccoli di quello che erano. Tutti coinvolti in una battaglia impari: la affrontarono con umiltà e impegno, senza cadere mai nel ridicolo. Il prof. Puglisi (una sigaretta dietro l’altra) regalava sorrisi e incitamenti a tutti: per una sera aveva messo da parte la sua immagine di allenatore grintoso ed esigente. Seduto in panchina, Elio Alberti si godeva anche lui questa esperienza unica, prima che tra di loro avvenisse l’inatteso passaggio di consegne.
Dopo quelle memorabili prime azioni di gioco, gli incitamenti e gli applausi del pubblico si indirizzarono sempre più verso i campioni dell’Ignis. Non poteva essere altrimenti. Bob Morse fu l’autentico mattatore, realizzando la bellezza di 42 punti (e chi lo fermava a quello!). Era arrivato in sordina in Italia, due anni prima, sospinto addirittura da motivi di studio; dopo un provino, Nikolic lo volle con sé, preferendolo nientemeno che a Manuel Raga, un beniamino di Varese, relegato poi al ruolo di secondo straniero per le competizioni europee. Morse, ala yankee di 2 metri e 03, era davvero un giocatore completo, grande difensore ma anche abilissimo tiratore, concedeva poco alle apparenze e molto alla concretezza. Sempre corretto in campo, giocò quella partita a Catania con grande serietà, come faceva sempre.
Dino Meneghin aveva appena ventitrè anni ma era già una stella. Fu il secondo realizzatore della partita, con 22 punti al suo attivo: la palla a due persa con Cavaletti e la mancata stoppata a Famoso furono ampiamente riscattate da azioni da vero fuoriclasse. Aveva cominciato a giocare a Varese a 16 anni e già un anno dopo aveva conquistato una Coppa delle Coppe; a 19 anni il primo scudetto. Era ormai un punto fermo della Nazionale con la quale un anno prima aveva partecipato alle Olimpiadi di Monaco.
Tra gli altri ricordiamo Aldo Ossola, varesino purosangue, uno dei più grandi play-maker della storia del basket italiano, anzi un vero regista, per l’ottima capacità di vedere il gioco e di far girare la squadra. La sua riserva era nientemeno che Dodo Rusconi, giocatore nel giro della Nazionale, così come in azzurro erano Ivano Bisson e Marino Zanatta. Poi il capitano, il pivot Ottorino Flaborea, il cui particolare tiro a gancio divenne famoso in Italia al pari del “gancio cielo” di Kareem Abdul Jabbar negli States.
Insomma. C’erano fior di giocatori sul parquet di Piazza Spedini. Pur tenendo conto dell’enorme divario e dell’esito scontato, il divertimento per il pubblico non mancò. A fine partita, applausi per tutti, abbracci e strette di mano. Ma lo spettacolo non finì lì. Aza Nikolic, che era un fissato del lavoro in palestra, chiese (e naturalmente ottenne) di usufruire ancora dell’impianto per una seduta di allenamento. Con tutto il rispetto per i volenterosi ragazzi dello Sport Club (che nel frattempo erano andati a smaltire fatica ed emozioni sotto la doccia), aveva notato che di sudore, i suoi giocatori, ne avevano fatto scorrere pochino in quei 40 minuti di gioco.
L’Ignis era scesa a Catania per onorare l’impegno, ma la sua mente era rivolta già alla finale di Coppa dei Campioni che avrebbe dovuto affrontare appena una settimana dopo. Non era tempo di gite. Così, un esercizio dietro l’altro, ecco di nuovo Meneghin e compagni correre in lungo e in largo per il campo a ritmo sostenuto. Tiri, passaggi, contropiede, difesa e tanti, tanti suicidi. Nikolic non risparmiava nessuno.
Il pubblico, che stava per sfollare, fece un passo indietro e tornò sugli spalti: fu uno spettacolo dopo lo spettacolo. Un’ora buona di allenamento, non importa se erano già le undici di sera. L’allenatore dell’Ignis non aveva voluto perdere quella occasione; gli appassionati catanesi di basket neanche.
Portò bene, perché Varese, il 22 marzo, la vinse quella Coppa dei Campioni (era la terza della sua storia), sconfiggendo in finale l‘Armata Rossa di Mosca. Anzi, per essere più precisi, quell’anno vinse proprio tutto: Coppa dei Campioni, Scudetto (il sesto), Coppa Intercontinentale (la terza) e la stessa Coppa Italia per la quale aveva giocato a Catania. Replica di un grande slam che era riuscito a realizzare già tre anni prima e che non si ripeté più.
Tornate ognuna nel loro pianeta cestistico, Catania e Varese, da quella volta, non ebbero più occasione di incontrarsi. Solo il prof. Santi Puglisi riuscì a entrare nel grande basket, dapprima come allenatore (fu tra l’altro «secondo» di Sandro Gamba in Nazionale), poi come dirigente, ruolo per il quale è ancora in giro per l’Italia.
Si divisero ovviamente anche le strade di Dino Meneghin e Pippo Famoso, ma qualcosa – diciamo longevità e passione – li ha in qualche modo sempre accomunati. Meneghin rimase a Varese fino al 1981, poi tanti altri successi con Milano, per chiudere la carriera a Trieste. Nel suo carniere 12 Scudetti e 7 Coppe dei Campioni, 4 Olimpiadi con la Nazionale (con un argento) più un oro europeo, tanto per citare le cose più importanti. Grande esempio di professionalità, la sua interminabile carriera lo avrebbe portato addirittura ad avere come avversario il figlio in una partita di campionato. È stato tra l’altro il primo giocatore italiano a essere inserito nella Basketball Hall of Fame internazionale. Attualmente è Team Director della Nazionale maschile.
In una sorta di Hall of Fame nostrana era destinato a entrare anche Pippo Famoso, e non solo per il nome che portava. Con lo Sport Club la sua militanza più lunga, ma si distinse anche in giro per la Sicilia, giocando a Palermo, a Caltanissetta e a Siracusa, prima di chiudere in bellezza, ancora a Catania, con lo Jagermeister. Intrapresa da anni la carriera di allenatore, ora sostiene con grande dedizione le sorti della Grifone.
Qualche anno fa, in occasione di una amichevole della Nazionale maschile al PalaCatania, un giornalista pensò bene di farli incontrare nuovamente. Meneghin si ricordava benissimo: «Chi, quel ragazzo con la barba?». Pippo, scherzosamente, gli parlò di quei «tre punti» in più che gli aveva fatto guadagnare. Finì con una bella e sincera stretta di mano. Un gesto da vero campione, da parte di Meneghin, che Pippo ricorderà per sempre con piacere. Al pari della gomitata!
Nunzio Spina
Nota dell’autore
Quando assistetti a quella partita, immerso nella bolgia del Palazzetto, non avevo ancora sedici anni. Militavo nelle giovanili dello Sport Club del prof. Puglisi e per me erano già inarrivabili i giocatori della prima squadra (altro che Ignis!). L’emozione di quella serata – come il lettore avrà ben capito – me la porto ancora dietro; e anche la mia ammirazione per Pippo Famoso, che riusciva a incantarmi con il suo estro e il suo coraggio.
Qualche anno dopo, molti dei protagonisti di allora sarebbero diventati miei compagni di squadra, e vorrei approfittare di questa circostanza per salutarli tutti con affetto e idealmente riunirli in un unico abbraccio: Claudio Sensi, Valerio Cavaletti, Nicola Cassisi, Pippo Famoso, Luciano Cosentino, Pippo Borzì, Giacomo Vitale (con un in bocca al lupo particolare per Borzì e Famoso, che ancora lottano per le sorti del basket catanese). Un caro saluto anche al prof. Puglisi, che pochi mesi dopo lasciò Catania e continua ancora la sua inossidabile carriera di dirigente. Manca solo Elio Alberti. Ci manca!
che tipetto scattoso questo Famoso! E’ bello sognare anche se per poco! E quando si sogna non si sente dolore!!!!