Luigi Angirello si presenta con un biglietto da visita invidiabile: è il giocatore più presente e il secondo per numero di punti segnati nella storia dello Sport Club Gravina, con cui ha giocato tredici stagioni conquistando due promozioni in Serie C1. Prima, era uno dei giovani più promettenti di quel Gad Etna che sarebbe stato condotto al fallimento da una politica societaria sbagliata. «Me ne andai da quella squadra proprio perché non mi piaceva più il modo in cui veniva gestita, si era attivato un meccanismo balordo: l’anno della promozione ricevevamo dei premi partita colossali, per esempio quando si vincevano quattro partite di seguito alla quinta si raddoppiava il premio, che poteva essere anche di tre milioni e mezzo di lire. Io, che ero abituato solo ad un rimborso per la benzina, quell’anno comprai la macchina e la mountain bike, incredibile per un ragazzo che viveva a casa con i genitori. Avevo perso l’obiettivo di giocare per divertirti e non per soldi. La società poi sarebbe andata a putt…»
ALLENATORE-GIOCATORE. Luigi Angirello, 37 anni, in azione con la maglia della Futura Club, che ha portato alla promozione in Serie D [Basket Catanese]. |
Come ti sei avvicinato alla pallacanestro?
«La mia storia è strana: giocavo a rugby e come rugbista ero più bravo che come cestista. Sono stato tesserato per nove anni con l’Amatori, giocavo come seconda linea e arrivai anche in prima squadra, in Serie A, quando c’era anche il capitano della nazionale australiana. Intanto, per passatempo, durante le domeniche libere andavo all’oratorio per fare basket con il mio amico Paolo Amantia, che giocava nell’Audax San Marco. Ero autodidatta, ma avevo un grande spirito d’emulazione verso i miei compagni. Questo mi ha portato a vedere la prima partita di pallacanestro in televisione: su Canale 5 c’era un tizio che faceva quello che voleva con la palla. Più in là, ho scoperto che si trattava di Magic Johnson. Allora mi sono detto: “Se c’è gente che fa delle cose del genere con la palla deve essere uno sport bello!” A scuola mi hanno anche scelto per giocare una finale provinciale di basket contro il San Luigi, che abbiamo perso. Intanto però con l’Amatori facevo le finali per lo scudetto, contro Rovigo e Padova, e giravo l’Italia in lungo e in largo. Poi, l’anno dopo si è fatta una selezione di cestisti, mi sono presentato e hanno cercato di convincermi a giocare. Mi ha cercato anche Giuseppe Laneri per il Leonardo da Vinci, ma mi ero rifiutato per potermi dedicare al rugby. A quel punto mio fratello, a cui piaceva molto lo sport, mi ha portato a sorpresa al PalaSpedini dopo un allenamento. Lì c’era Gaetano Russo, che avrebbe voluto scartarmi perché avevo già quindici anni, quindi ero troppo grande per iniziare da zero. Li ho convinti a farmi allenare e mi hanno tesserato per il Gad Etna: dicevano che per essere un autodidatta palleggiavo e tiravo bene.»
In che anno siamo?
«È la stagione 1985-1986. Dalle 3 alle 5 facevo pallacanestro, poi mi cambiavo a casa e andavo a rugby: per quattro anni facevo sette ore di allenamento al giorno. Con il Gad facevo le finali provinciali contro Augusta e Giarre, che per me erano da ridere, perché ero abituato alle finali scudetto… Però mi divertivo, mi sentivo sempre chiamato in causa, mentre nel rugby non avevo molte gratificazioni personali.»
Quando hai esordito in prima squadra?
«Per una rivoluzione societaria, il Gad Etna non riusciva a seguire le giovanili. Era il periodo di Martino, Molino e Puleo. Così mi sono ritrovato a giocare con il Cus Catania, in Promozione. Era il 1988-89, quando il Gravina fu promosso. Con me giocavano Giuseppe Guadalupi, Costantino Condorelli e due greci e ci allenava Gaetano Russo; io facevo soprattutto il campionato juniores. Era una bella squadra, ma era un anno transitorio. L’anno dopo sono tornato all’ovile e per una nuova rivoluzione alcuni di noi si ritrovarono a Gravina. Io firmai pure il contratto e andai in vacanza in Svizzera. Al mio ritorno mi dissero che dovevo andare ad Acireale, in Serie D, perché tutti i giovani non potevano andare al Gravina. In squadra c’era Condorelli, con cui viaggiavo da Catania. Io ero il ragazzino, perché facevo l’ultimo anno giovanile di juniores. Il mio allenatore era Paolo Panebianco (oggi presidente della Nika Acireale) e in squadra c’erano anche Peppe Foti e Salvo Russo. Mi ritrovai a fare delle partite stratosferiche, per esempio segnai 33 punti contro Catanzaro e 30 nel derby con il Giarre. Poi tornai al Gad.»
Come fu la tua seconda esperienza con la squadra catanese?
«Ero l’unico ragazzino del Gad Etna che aveva fatto esperienza in D e nel giro di pochissimo tempo mi sono ritrovato ad essere il sesto uomo, per infortuni e per problemi di incompatibilità tra l’allenatore e alcuni miei compagni. Ci allenavano Enzo Molino e Angelo Cassisi. La squadra però retrocesse e fu venduta a Chisari e Cavallaro. Rimasi altre tre stagioni: subito siamo promossi dalla Serie D con Giuseppe Laneri e nei due anni successivi in Serie C, vissi in un ottimo gruppo di giocatori. Del 1991-92, mi ricordo un torneo amichevole giocato allo “Scatolone” di Reggio Calabria contro la Viola, contro Sconochini, che ha vinto un’Olimpiade, Rifatti e Li Vecchi. La mia squadra era quella di Leonardi, Taormina, Carbone, Vaccino, Martino, Pisani, Esposito, Marchesano, Russo e Di Mauro ed è stato l’anno che mi sono divertito di più, tutti loro mi hanno fatto crescere moltissimo. Abbiamo anche rischiato di venire promossi, ma siamo arrivati secondi dietro il Cap. L’ultimo anno c’era Paolo Marletta ad allenarci e io facevo il militare. Abbiamo fatto uno spareggio contro Sant’Antimo per salire, ma a 14 secondi dalla fine, con il Gad in vantaggio, gli arbitri fischiano un fallo al nostro playmaker, gli avversari segnano e vincono di tre punti. Vedere gli arbitri che festeggiano con gli avversari è stato eclatante. Quando sono tornato dal militare, sono passato al Gravina.»
Perché sei andato allo Sport Club?
«Perché la politica fallimentare del Gad non si ripeteva a Gravina. Lì non prendevo soldi per giocare e li avvertii che se non avessi avuto più voglia non sarei venuto più. E ha funzionato. Mi sono sicuramente divertito con Pippo Strazzeri, per esempio, e sono felice che nel giro di qualche anno siamo diventati una bella squadra piena di ragazzi, una vera famiglia. Poi mi sono sposato e Natale De Fino, il presidente, mi ha dato la possibilità di lavorare qui come istruttore, cosicché il Gravina era diventata anche la mia fonte di sostentamento, oltre ad essere la mia passione. Certo, ho qualche rammarico, perché ho ricevuto la proposta di andare a giocare a Cefalù, in Serie B, ma spostarsi con la moglie a venticinque anni non è facile.»
Com’è iniziata la tua esperienza con la Futura?
«Il presidente ha pensato bene di farmi smettere di giocare, perché mi ha detto che voleva far giocare i ragazzi e io ho lasciato anche se non volevo: ma nei fatti non è andata così. Una cosa è portare i giovani in panchina e un’altra è impiantare una squadra sui ragazzi. A quanto ho capito, però, l’anno prossimo tornerò a giocare, secondo le battute del presidente. Quest’anno ho preso la Futura Club, una società fondata dal 1996 da Natale De Fino e riattivata quest’anno, con cui sono tornato in Serie D battendo il Paternò. Della Futura sono allenatore e giocatore e prima ne ero anche il presidente, ma ho dovuto dimettermi per poter allenare il Gravina di Promozione.»
Qual è la tua storia da allenatore?
«Ho frequentato il corso e nel 1995 ho iniziato a fare minibasket. Salvo Gulinello è il primo atleta degno di nota che è uscito con me; con lui ho avuto anche i fratelli Gullotti, Barbera, Minardi e Crimi. Per adesso non voglio allenare in prima squadra, perché voglio ancora giocare. Per questo quest’anno ho gestito la Futura, che in realtà non ho allenato: più correttamente, sto “intrattenendo” i miei compagni di squadra perché la Promozione non è un campionato difficile e dire cosa si deve fare a persone come Leonardi e Di Nicola non serve, loro sono molto esperti e sanno già come muoversi. Con i ragazzini, invece, è più facile far passare il messaggio.»
Qual è la differenza tra l’ambiente del Gravina e quello delle altre squadre cittadine?
«Per cominciare, i ragazzini del Gravina vengono a vedere i compagni di squadra e il loro allenatore. Forse negli anni s’è un po’ perso questo attaccamento; quando giocavo io in prima squadra facevo da trait d’union, perché allenavo minibasket, propaganda, ragazzi e allievi. Dicevo ai miei ragazzi quand’era la partita e ogni domenica venivano a vedere “Luigi l’allenatore”. Quando si viene a vedere una partita a Gravina, il tifoso è più spesso un ragazzo che gioca in quella squadra che un curioso. Chi viene dice: “Io sono del Gravina, questa è la mia squadra perché da grande io voglio essere lì al posto del numero 8.” Va da sé che è naturale che ci sia un grande attaccamento. Cavazza, Marino e Marchesano hanno creato un modo di vedere lo sport che hanno trasmesso ai ragazzini, hanno creato l’appartenenza e l’orgoglio di vestire una maglia. C’è chi gira con il giubbotto dello Sport Club Gravina per sperare che qualcuno si avvicini e chieda: “Che cos’è?”. È un orgoglio rispondere “È una squadra di pallacanestro e ce ne sono pochi che fanno questo sport come lo faccio io”. E questo non si riferisce solo ai risultati in sé stessi, alla C1 e alla C2, ma a quello che c’è dietro: il gruppo. Per esempio, spesso dopo l’allenamento esco con i ragazzini e con i miei compagni. Tanti non vogliono andarsene proprio per il gruppo che si è creato. Si è spinti a rimanere anche dal presidente, che fa quello che dice: il giocatore professionista non può andarsene dicendo che De Fino non gli ha dato quanto gli aveva proposto. Anzi, dirà che gli ha dato fino all’ultimo centesimo e lo ha anche trattato bene. È una realtà strana in un panorama di fallimenti, debiti e cessioni del titolo. E va avanti perché chi ci lavora è cresciuto lì; magari prosegue per interessi personali, ma ha il piacere di stare lì. Per far capire come mi senta a casa a Gravina, bisogna figurarsi che alla fine dell’allenamento tutti mi chiedono per l’acqua calda, per la luce e mi sento come un custode del palazzetto, ma è bello così. Addirittura, a Gravina i canestri li ho montati io con quelli dell’azienda che li ha portati…»
Perché allora è stata lasciata la Serie C1 nel 2004?
«È stato necessario perché la spesa era troppo grossa e l’impegno primario era quello di far crescere i ragazzini: in C1 si fa un campionato di categoria superiore ma si limita il loro spazio. In C2, invece, si può fare entrare il play Gullotti, per esempio, e ce ne sono tanti altri che vengono messi in mezzo.»
Alleneresti la prima squadra del Gravina?
«Solo quando ci saranno tutti i miei ragazzini. Non allenerei mai i miei ex compagni, perché non mi sento al loro livello, non mi viene semplice dare delle direttive a delle persone che potrebbero dire che sto dicendo una stronzata. Pur sapendo che mi rispettano a prescindere dallo sport, alcuni mi hanno chiesto di allenare, ma lo farò quando ci saranno i miei ragazzi che sanno cosa voglio appena apro bocca. Non è per facilitarmi la vita, ma perché mi sono fatto un mazzo così ad allenarli e non ci sono Jordan che tengano (anche perché non rimarrebbero qui…): lo spirito di squadra e il gruppo sono il mio primo obiettivo sportivo e anche a livello sociale e societario. Quest’anno, con il gruppo degli under-19 ho vinto il titolo provinciale dopo quattro tentativi, con i ragazzini che seguo dai tempi del minibasket (la squadra ha poi perso le semifinali regionali contro l’Orlandina, sotto lo sguardo attento di Gianmarco Pozzecco, ndr).»
Qual è stato il gruppo migliore in cui hai giocato?
«Devo fare una distinzione, perché purtroppo la pallacanestro si è livellata verso il basso nell’ultimo periodo. Quando facevo pallacanestro con il Gad Etna c’era un’altra generazione, i pantaloncini erano da pallavoliste e ascellari, ma c’era la C unica, e si giocava con molta più tecnica, contro Trapani, Marsala, Porto Empedocle e Agrigento. I due anni ad alto livello che giocai lì sono stati straordinari. Poi, a Gravina, l’anno in cui c’era Lollo Modica, in Serie C1, abbiamo giocato lo spareggio per salvarci contro Porto Empedocle, con Gaetano Russo in panchina. Ma tutti gli anni sono stati piacevoli, perché qui mi sono basato sempre sull’amicizia. Ad esempio, Cavazza lo conosco da 15 anni!»
VETERANO. Luigi Angirello allena anche le giovanili del Gravina: qui in piedi, durante una partita di Promozione [A.Marraffa]. |
Di chi è la colpa dell’abbassamento del livello?
«Degli istruttori, perché siamo più legati a vincere una partita che a far crescere i ragazzini. Un esempio pratico: Gulinello, che ho allenato io, sa fare il terzo tempo da destra e sinistra; prendi uno del 1992-93, sa cos’è la “box and one” ma non sa fare il terzo tempo da sinistra. Deve sapere come affrontare quella tattica perché ci gioca contro con la squadra, mentre il terzo tempo deve essere curato come tecnica personale. Dovremmo fare outing: si dovrebbero allenare i giocatori non per vincere, ma per farli venire fuori fra qualche anno. Ora ci sono i talenti e gli specialisti, non ci sono più giocatori polivalenti come Taormina. Anch’io ero un all around player: dovevo saper fare tutto, anche se di solito ero ala grande. Con Cantone, però, giocavo playmaker, perché in quel contesto potevo portare palla. Ancora quando mi metto ala faccio la mia porca figura!»
Il miglior allenatore che hai avuto?
«Peppe Foti è un grande conoscitore della pallacanestro, Giuseppe Laneri è un buon allenatore, a Pippo Strazzeri sono molto legato, Riccardo Cantone e Paolo Marletta sanno fare una buona pallacanestro e hanno lo spirito umano e il contatto, che sono i punti fondamentali per fare un allenatore professionista. Chi non ha queste caratteristiche, è un tecnico a metà.»
Qual è stato il miglior cestista catanese?
«Ho vari candidati: come completezza Salvo Taormina; il miglior playmaker è stato Carlo Vaccino; mi è dispiaciuto non aver visto Angelo De Stasio ad inizio carriera, l’ho visto a Comiso ma già grande; Massimiliano Martino è stato una guardia strepitosa, sembrava un giocatore da NBA in Serie C: una volta l’ho visto schiacciare da lontanissimo, aveva due reattori al posto delle gambe. In linea di massima il migliore è stato Taormina, intelligente, fisico, ottimo passaggio, buon tiro. Sono cresciuto con lui, che si incazzava in maniera costruttiva quando sbagliavo: s’è fatto odiare da tutte le giovanili, ma è il suo modo di vivere lo sport ed è una festa appena lo incontri. Senza gente come Taormina non avrei mai imparato a giocare bene.»
Tra i giovani che alleni, chi ha il miglior potenziale?
«Alessandro Lino, appena impara a difendere: ha il tiro, ha la testa e nella finale regionale giovanile lo scorso anno ha fatto 43 punti contro Bagheria. Se ha qualcuno che lo segue e lo motiva diventerà molto bravo. Tra gli altri, non abbiamo talenti fisici, e questo è un problema, ma sono tutti allo stesso livello, perché sanno giocare per il livello in cui militano.»
Come giudichi la stagione del Gravina?
«Il Gravina ha vissuto una stagione strana: si è partiti con l’obiettivo di valorizzare i giovani, ma alla fine si sono voluti fare i playoff perché il livello dei giocatori più esperti è alto. Così però si è penalizzata l’iniziativa iniziale, pur avendo fatto giocare i ragazzini, checché se ne dica, non tanto ma abbastanza. Alla fine, il Gravina ha fatto una bella figura e si è classificato in una posizione onorevole. Per il futuro, a supporto ci sarà la Serie D della Futura: non si sa ancora chi ci giocherà e chi l’allenerà, ma sicuramente ci andranno tutti i ragazzini per far fare loro trenta o quaranta minuti a partita.»
Saresti stato contento se il Gravina fosse stato promosso?
«No, infatti ho sperato che non arrivasse la promozione. Sarebbero dovute cambiare tante cose.»
Roberto Quartarone
Scheda su Basket Catanese: https://www.basketcatanese.it/schede/angirello.htm
Un capitano, c’ solo un capitano!
Siamo tenuti a censurare un commento offensivo nei confronti di Angirello e C. Gullotti. Se l’autore vuole esporre le proprie ragioni, lo faccia: ma con educazione.
Roberto ma cosa c era scritto?Non sanno dire nemmeno le cose in faccia….lasciano i commenti…
Un paio d’insulti generici. Ma spero che l’autore voglia spiegarci meglio perch… facile mascherarsi alla tastiera, sfortunatamente.